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Un desiderio di desideri: la malinconia” (Lev Tolstoj)
La malinconia è il più legittimo tra tutti i toni poetici” (Edgar Allan Poe)
La malinconia è la felicità di essere triste” (Victor Hugo)

E’ un disperato erotico stomp. Senza l’erotico però. Un contrasto tra lo sconforto di Jeff Buckley, la perdita di Nick Cave, la sconfitta di Tom Waits e il fumetto, parodia dell’iperbolico, clownesco fino alle viscere, vicino a Willy Il Coyote come a Paperino. Nell’incipit, nell’avvio sta il nodo, che non si scioglierà, in quel “Cabaret mistico” che rimane sospeso, e sorpreso, tra il gioco, la battuta scanzonata, e il pensiero, la riflessione. Mondi apparentemente lontani, ma Andrea Kaemmerle ci ha abituato a cospargere petali di idee nascosti sotto le foglie secche autunnali della risata anche spicciola, mai deriva ma fune per raggiungere l’isola che non c’è del ragionamento.
Il suo Sveik sembra uscito da una tavolozza preparatoria di Federico Fellini, ha le movenze scoordinate chapliniane, la fisicità dirompente e cinghialesca di Carlo Monni, lo sguardo liquido come dopo aver ascoltato l’urlo nell’ottone di Chet Baker. Ha l’aria confusionaria da rissa e caos balcanico, decadente e compiaciuto della sua condizione di ultimo, di relitto, di confinato, di abbattuto ed emarginato, klezmer nella concezione dell’esistenza in punta di piedi nel tragico come nel leggiadro. E’ storto e compresso, cattivao e dolcissimo questo suo mascherone variopinto che pare un tucano, uno di quegli uccelli della foresta amazzonica lucenti e colorati, quasi accecanti, che nascondono la violenza del nascondersi tra le grandi foglie per sfuggire agli infiniti predatori. Ultimo tra gli ultimi: “Il mio grado nell’esercito? Ostaggio, in caso di guerra”, sparava il grande Woody.
Con i capelli da spaventapasseri, il cerone da Pierrot, l’occhio da panda e la bocca da Joker, rilassa e incute horror, come il pagliaccio di “It” di Stephen King. Ne ha da raccontare nel suo italiano bislacco, di neologismi dal gusto vagamente slavo. Dice ciò che pensa, pensa ciò che è: “Non facciamo più le primarie, ripartiamo dai soci Coop: chi ha più punti fa il segretario del partito”. Nella sua patchanka eversiva, dove si possono ritrovare da Bregovic ai Gogol Bordello, di bestemmie alla luna, stoccate feroci, risate ora grasse adesso pungenti da far male come un cactus appuntito e velenoso, quest’eroe sfigato, arrogante e tenero, sfrontato e docilmente aggressivo, racconta i fallimenti di un’esistenza, il suo essere bukowskiano senza essere cinico, perduto e malinconico nel suo fare sornione da gorilla che se ne sta come Toro seduto in mezzo alla giungla a sgranocchiare il suo bambù pronto ora alla fuga, ora alla caccia.
Sono “pugni cerebrali” quelli che infligge, come “cerebroleso è la religione che preferisco”. Caravaggiesco con una patina di eterna caduta nel buco nero vorticoso della vita che tutto trangugia, deraglia, infrange, mastica, sputa. “Stanco e perduto” di Vinicio Capossela potrebbe essere la sua ideale colonna sonora: “E ora questa storia sembra un vecchio ritornello, una serenata fatta a una luna traditrice e mi trovo tutto solo qui a cantarla, tutti gli altri sono scappati via, poesie, folletti, pazzi amori persi e diventati nostalgia”.

Visto ad Alberese, Grosseto.

Tommaso Chimenti 06/12/2015

L’incensato Cristoph Marthaler apre la Biennale Teatro veneziana. Lo fa da padrone di casa visto che il Leone d’Oro quest’anno è suo (e sarà suo anche il Premio Ubu come miglior spettacolo straniero in Italia). Dici Marthaler e subito il commento che evapora nelle sale si tramuta per un sorrisetto furbo d’intesa, come a dire “noi si che ne sappiamo, che ne abbiamo viste”. Chiamarlo comportamento radical chic sarebbe un abuso fuori luogo, ma la pasta che si sciorina nella dialettica da frequentatori assidui di foyer è più che altro un volo d’uccelli compressi in uno stormo, dove tutti vanno senza sapere quale sarà la precisa direzione, la collocazione ultima. Così come i risolini forzati e nasali di un certo tipo di platea che cerca di influenzare gli indecisi (ah, gli ignavi!), riuscendoci, elevando il tono (tomo, più che altro) della vicenda a qualcosa che si liquefà a denti stretti. Sarà quest’ironia nordica e fredda e protestante che riesce poco a far breccia in cuori caldi e latini e cristiano-cattolici (abbiamo bisogno del senso di colpa per trovare la strada per la salvezza, che sia Paradiso o una semplice risata), sarà che la Svizzera, di guglie appuntite e di guardie vestite come un Arlecchino romanista, di ridente e gaudente e festante ha sempre esportato poco.
Tutto in questa, nella traduzione “Isola galleggiante” (ricorda un dolce morbido) è lento, volutamente, eccessivo e statico, inflessibile, immutabile, una fotografia in plastilina, uno scatto immerso nella formalina. Gli otto personaggi si presentano al pubblico davanti al sipario, ognuno con le proprie manie e tic, ridondanti e pedanti nel loro modo di porsi ed esporsi a una platea accondiscendente e caritatevole di elogi a prescindere, che ha lasciato la criticità tra calle e alberghi, tra gondole e campielli, tra “ombre” e baccalà mantecato. Due ore e un quarto per un qualcosa che molto si avvicina alle atmosfere british polverose e nebbiose di Agatha Christie (manca il cadavere, la suspense, l’attesa; qui tutto è lineare e già detto) con gag scontate, e preparate con una lungaggine snervante, con preliminari da bradipi sonnolenti, che allungano, estendono, affievoliscono le dinamiche lasciando vuoti, buchi, ansie. Il ripetere all’infinito le battute, l’attendere in maniera pedissequa la reazione, che non arriva, da parte del contraltare di turno, la parodia di una recitazione sempre sopra le righe, il tutto fa diventare il brodo acido, stucchevole, intorpidito, imbambolato. Le campane a morto, che imperterrite ammantano tutta la prima parte, non aiutano. Dov’è la gioia, la sana bellezza dello stare in uno spazio a condividere una visione?
Come pandispagna demoralizzante ci si accartoccia sui segni lasciati come briciole, come pastafrolla molle e cedevole, come glassa che si squaglia, melassa soffice che impiastra. La storia è semplice: due giovani si vogliono (devono?) sposare e le famiglie conoscersi. Fine della storia. L’apatia e l’immobilismo, le pause atroci, gli intermezzi, i corpi bloccati nell’ultimo gesto, come impietriti dalla Medusa, le stupidità scontate, immaginabili e supponibili negli atteggiamenti ci fanno rimpiangere le gag da b movie nostrani, le cadute, le sedie sfondate.
Per cercare un paragone tra cinema e teatro, potremmo avvicinare Marthaler a Wes Anderson, con quel loro sarcasmo contenuto e controllato, quel sentimento sempre in bilico tra la stupidità e l’assurdo. Ci sono molti modi di ridere. Un manierismo antipopolare che crea una frizione, una rottura tra chi è incluso e chi ne sta fuori, un teatro altamente borghese e che, forse, non è portatore di alti valori “politici”. Forse dovremmo riflettere di più su dove vanno a cadere, ad inciampare i nostri sghignazzi. Sorridere dei capitomboli, dei crolli altrui non è più ammissibile.

Visto alla Biennale Teatro, Venezia

Tommaso Chimenti 04/12/2015

L’equilibrio tranquillizza, ma la pazzia è molto più interessante” (Bertrand Russel)
Siate affamati, siate folli” (Steve Jobs)
L’individuo equilibrato è un pazzo” (Charles Bukowski)

Lo abbiamo criticato in tutte le salse, da anni, ma Gabriele Lavia, seppur nelle sue regie composite annichilisca testo, scene e gli altri comprimari “uccidendo” chiunque osi girare attorno alla sua figura eccentrica e accentratrice sul palco, nella versione monologante riesce ancora a dare il meglio di sé con una forza, una visceralità, un'attorialità fuori dal comune. Un uomo di settantatré anni capace di un'ora e mezzo di monologo tiratissimo, superbo, di continue cadute in forma fetale, di strisciare stile marine sul campo di battaglia di una lingua di luce, di contorcersi con potenza dirompente tra le braccia bianche della sua camicia contenitiva manicomiale. Encomiabile. Ed infatti, il pubblico (per l'occasione il Teatro della Pergola aveva tolto il primo settore di file della platea; tre ordini di palchi e piccionaia rimasti vuoti), da sempre innamorato di questa sua generosità, gli ricambia una mini standing ovation.
Il grande palco della Pergola, casa sua, coperto di terra e terriccio (sembrava la scena iniziale del fenomenale “Hamlet” di Ostermeier), allungato, diventa terreno di guerriglia, largo e lungo, orto arido, podere sterile. Da solo, bianche le vesti e le carni, non sparisce in mezzo a quello spazio che avrebbe risucchiato e smontato molti attori delle giovani generazioni (come sparì Elio Germano nel suo “Tom Pain”). Invece Lavia, martellante, atletico, prestante, ingloba e non si fa fagocitare, lo direziona, lo modella, lo fa suo, lo sposta, lo declama, lo declina, lo incarna, lo aggiusta, lo plasma. Sua è la materia, suo il carisma, sua la voce che trionfa. Certo la recitazione è monocorde, come uscendo rimarcano in molti, melodrammatica e sempre sottolineantemente enfatica per un testo, questo “Sogno di un uomo ridicolo” (cavallo di battaglia del “consulente” del teatro massimo fiorentino, inserito nel cartellone in sostituzione della produzione brechtiana “Vita di Galileo” postposta ad inizio stagione prossima), datato 1876, circolare, a vortice dentro le maglie della coscienza corrotta umana.
La drammaturgia, da Dostoevskij, vive di scuri e penombre, e di un'armonia oscillatoria, dove ad ogni crescita di pathos ne consegue, quasi fosse una formula matematica di parabole ascensionali, una fase di caduta per poi riprendere slancio. Potrebbe essere “Diario di un pazzo” di Gogol o “La serata a Colono” con Carlo Cecchi. Bella, originale per Firenze, l'idea della Pergola, di programmare tre piece, questa, “La prossima stagione” di Michele Santeramo e “La famiglia Campione” de Gli Omini, in questo maggio con inizio alle 18.45, in stile Milano e nord Europa. Piccole novità, scarti da cogliere. Ci accoglie il meraviglioso sipario storico, sempre tenuto incelofanato, arrotolato e chiuso, dipinto da Gasparo Martellini nel 1826.
Un uomo chiuso dentro se stesso racconta il suo percorso, senza salvezza, un gioco dell'oca dove si torna sempre all'inizio, un contrappasso continuo, come il fegato di Prometeo divorato dall'aquila. Ridicolo è quest'uomo che è l'umanità intera, ridicola perché non riesce a capire, perché si lorda nelle piccolezze dell'esistenza, perché si fa la guerra per un tozzo di pane, perché è cieca di fronte al tempo, è minuta nei confronti dell'Universo e invece pensa di poter controllare e decidere su tutto. L'uomo è piccolo, infinitesimale, come un granello di sabbia, destinato a scomparire, a non lasciare traccia di sé, ma nonostante questo si agita, distrugge, infligge, a sé e agli altri intorno, sofferenze e crimini e vendette. Ma “L'uomo ridicolo” è anche una riflessione sull'uomo moderno, meschino, bugiardo, millantatore, attraverso la sua finitezza, nel viaggio attraverso la morte, nel passaggio paradisiaco che dovrebbe levare e lavare gli scempi terreni, ripulire l'anima, svuotare di fango, rendere nuovamente candidi e vergini. Ma l'uomo, per sua stessa e intima natura, è immorale e perverso, e, come mela marcia, intacca e fa sfiorire ciò che gli è attorno, come un Re Mida al contrario, rende immondo ciò che tocca.
Lavia (riesce nella difficile impresa di non far tossire alcuno in platea) è stretto e costretto, contenuto e imbrigliato in queste maniche legate dietro la sua schiena, la statua di una bambina (ricorda, per via del copricapo rosso, la bimba di Schindler's List) al lato del palco (evitabile questo finto realismo nel luogo dell'immaginifico per eccellenza, il teatro) che è l'innocenza e la purezza, e l'alter ego del nostro “uomo ridicolo”, in total black: questa la triade e la triangolazione in quest'arena da corrida che ad ogni passo s'alza la polvere di stelle che dal Cosmo si sparge indifferente sulla Terra e sui suoi abitanti. Monologo rabbioso e di tenerezza sull'impossibilità umana di saper cogliere le bellezze della pace e della tranquillità, sulla follia lucida dell'uomo che lo porterà alla sua distruzione ed eliminazione. Nel limbo post mortem, nel tragitto a ritroso dentro il cordone ombelicale della vita stessa, alle origini della sua essenza, nel contrappasso a ricercare i varchi della solitudine balbettante, quest'uomo senza etica, degno soltanto d'odio e disamore, riesce ad infettare come virus purulento anche il Paradiso, felice e ingenuo, per poi essere nuovamente sputato nel mondo dei suoi simili cattivi e ingiusti. Non c'è redenzione e la reincarnazione rimane soltanto quella che in psicologia definiscono “coazione a ripetere”.

Visto a Firenze, Teatro della Pergola

Tommaso Chimenti 28/11/2015

"Il sogno di un uomo ridicolo" sarà in scena al Teatro Era (Pontedera) il 5 e il 6 dicembre

Foto di Filippo Milani

Mai banale, in questo mondo dove è facile scivolare sulla citazione pseudocolta, sentita tra uno spot e un attentato, tra un talk show e una partita di Champion's League. Mai scontato è Andrea Kaemmerle, a partire dal suo Teatro Liquido, bypassando e ammortizzando Bauman, “Il contrario del Teatro Stabile”. Concreto, terreno, vero, materiale, senza svolazzi frivoli ma con la voglia sempre pronta di tirare con la fionda al potente con l'ironia del David. Da genitori svizzeri-tedeschi, con nel nome il suo destino, Kaemmerle vuol dire “cabaret”, l'utopia come destinazione finale. In una Toscana dove si è facilmente schiacciabili, teatralmente parlando, tra i colossi del Teatro Nazionale, Pergola e Pontedera, il circuito FTS, con sessanta teatri sparsi per le province, e il Metastasio, ex Stabile, se si sgomita si può rimanere scottati: “Nella logica degli scambi noi piccoli siamo stati tagliati fuori”.
Due i teatri gestiti da Kaemmerle, il Teatro delle Sfide di Bientina e il Teatro Verdi di Casciana Terme, sotto la dicitura di Guascone Teatro, parola che dice e spiega molto del loro modo di fare teatro, ma anche di fare impresa, non sulla pelle degli artisti, ma con gli artisti. Il clima è buono, i finanziamenti sempre meno. I due comuni dell'hinterland pisano passano complessivamente circa 50.000 euro che praticamente coprono le utenze, ai quali si sommano tanti piccoli sponsor.
Ha ricreato per la stagione invernale una sorta di “Utopia del Buongusto”, il suo lungo cartellone estivo, da giugno ad ottobre, con tanti spettacoli in piccoli centri. Una stagione diffusa, con puntate anche a Pisa, Lari e Livorno. Si allarga a macchia d'olio sul versante tirrenico, terreno di caccia e d'intercettazione del pubblico fuori dai grandi schermi istituzionali. “In Toscana hanno restaurato moltissimi meravigliosi teatri ma non ci sono le risorse per fare attività”, il suo grido d'allarme.
Intanto quest'anno, il palinsesto più ricco degli ultimi anni, è riuscito a mettere insieme nomi di lusso e progetti importanti, dalla Banda Osiris, ad Anna Mazzamauro, settantasei anni di aneddoti cinematografici e teatrali, non confinabile al solo ruolo limitante della Signorina Silvani di Fantozzi, Debora Caprioglio che ci racconta i suoi amori, da Tinto Brass in avanti, i Gatti Mezzi che in anteprima presentano il loro nuovo album, Simone Cristicchi con orchestra al seguito, l'intramontabile Alessandro Benvenuti con un cavallo di battaglia, “L'Atletico Ghiacciaia” difficile da non amare, la bomba bionda Justin Mattera, che nell'immaginario collettivo rimarrà sempre l'imitazione di Marylin. Apertura al pop, al cantautorato, al leggero come all'impegnato. Il sorriso a queste latitudini non deve mai mancare. “Non dovremmo mai perdere le buone abitudini: lavarsi i denti, fare l'amore, mangiare bene, andare a teatro”.
Kaemmerle non può non chiudere con l'immancabile Carlo Monni che chiosava: “Ci fanno fare gli artisti perché se non lo facessimo gli si costerebbe di più alle Usl”. La sua presenza, guascona fino al midollo, aleggia, un po' manca, ma è ancora viva, presente e piena, mai invadente. Qui tempo per le lacrime e le lamentele non ce n'è.

Tommaso Chimenti 22/11/2015

Gli disse amor se mi vuoi bene, tagliati dei polsi le quattro vene. Le vene ai polsi lui si tagliò, e come il sangue ne sgorgò correndo come un pazzo da lei tornò. Fuori soffiava dolce il vento ma lei fu presa da sgomento quando lo vide morir contento. Morir contento e innamorato quando a lei niente era restato non il suo amore non il suo bene ma solo il sangue secco delle sue vene”. (Fabrizio De Andrè, “Ballata dell'amore cieco”)

Cominciamo con il dire che Alessandro Riccio è iperproduttivo, prolifico. Se questo da una parte è un bene, soprattutto per lo zoccolo duro del suo pubblico di affezionati che da quindici anni si è coltivato tra “Mese Mediceo” e ville sparse per le colline fiorentine, dall'altra risulta dannoso per la quantità inflazionante del proprio lavoro. Non tutte le ciambelle possono, gioco forza, riuscire con il buco. A strappi positivi, come possono essere stati i felici “La meccanica dell'amore” o la sostanziosa “Bruna è la notte”, ma andando ancora più indietro nel recente passato anche l'apprezzabile “Le Grand Cabaret Deluxe”, ci sono stati, inevitabilmente, dei passaggi più stanchi o più deboli, meno esplosivi, meno accesi del solito. Una macchina produttiva la Tedavi 98 che anche in questa occasione ha fatto sold out nelle dieci repliche nella villa che fu del tenore Enrico Caruso che, si dice, si affacciava sulla sua terrazza e gorgheggiando appena sveglio scaldava la voce arrivando fino all'Arno e facendo sentire ai fiorentini la potenza delle sue corde vocali.
Le idee non fanno paura a chi le ha. E Riccio ne ha da vendere. Cerca sempre l'angolatura meno battuta, la strada meno semplice, il ribaltamento delle argomentazioni, la curiosità dell'intelletto, il pungolo della messa in discussione di temi che si pensa abbiano già dato tutto, siano già stati spremuti a sufficienza. Ecco che, nella sua ultima ricerca nell'universo femminile, la trasposizione di un “mito” maschile e maschilista come il Don Giovanni, da Mozart fino a Filippo Timi, si abbiglia di vestigia femminili con un doppio passaggio, prima a Donna Giovanna fino all'estremo “Don Giovanna”, donna che si fa uomo non nelle sembianze ma quanto nel titolo, nell'alone, nella predisposizione e attitudine alla caccia, alla corsa, alla conquista.
Riccio, che si lancia in arditi trasformismi da caratterista consumato (imperiale il suo “cocchiere” stralunato), è sempre più conoscitore dell'animo delle donne, sempre più dentro la sensibilità, le pieghe nascoste, i segreti, i paraventi dei sogni e delle paure femminili. In questo ribaltamento dei ruoli classici, la donna qui è un moderno prodotto del machismo che la voleva schiacciata e sottomessa, da pecora indifesa si fa lupo sbranatore, vendicatrice dell'aggressività presupponente, presuntuosa e saccente degli uomini che giocano con il cuore (il più delle volte con il corpo) delle fanciulle. Dieci ragazze per me posson bastare.
Ma se l'intuizione di base ha in sé uno sguardo originale e una visione dell'insieme interessante, se il plot ha i suoi fondamenti certi e stabili, l'andamento però risulta traballante, soprattutto il carattere della protagonista è un'altalena costante e incerta, come soggiogata alle montagne russe che non riescono a definire e a delineare con precisione il ruolo dell'eroina. A tratti è docile come agnello, adesso guerriera fiera, ora giura vendette, adesso china il capo, adesso fa sputare sangue, ora si ravvede e chiede perdono, ora svilisce, adesso recrimina, poi redarguisce e punisce, ora modula la vocina come gatta, infine umilia, come sua profonda vocazione, preferito passatempo e sadico divertimento.
Giovanna l'anaffettiva (Giannina Raspini ancora troppo acerba, e atteggiata, per reggere un fiume di parole imbizzarrite e un personaggio con questa interiorità così deturpata) sfida gli uomini sul loro stesso terreno, la conquista sessuale e sessista, assaggiando senza gustare a pieno, mordi e fuggi, disseminando di torsoli-vittime il suo cammino di amanti distrutti, annichiliti, vinti. E se l'indagine iniziale esautora ed espropria il maschio dal ruolo di maestro e pigmalione, attivando Giovanna un'autoformazione che la immerge nello studio per essere sempre meno in balia dei pensieri altrui e la porta ad avere consapevolezza ed essere autonoma nelle sue scelte per non essere trattata come carne da macello, per non essere usata o abusata (“Leggo per legittima difesa”, diceva Woody Allen), questo processo velocemente si sfalda in una superficiale, vagamente libertina, rappresaglia contro qualsiasi maschio le capiti a tiro. In questo il maschio (il Don Giovanni in questione) mette sul piatto sia la disperazione che la gioia, mentre in Giovanna la bilancia è inclinata verso la frustrazione che nemmeno mille uomini possono colmare, delle carezze negate che l'annotazione e l'archiviazione dei falli non possono riempire.
Un Narciso al femminile che si arrovella sui monologhi della vagina, una latin lover in gonna votata più all'inganno e alla falsità che alla goduria del momento, al ludibrio giocoso dell'infantilità del maschio. Più Mata Hari che ninfomane, più manipolatrice e calcolatrice che gigolò. I ruoli comprimari non aiutano né supportano la buona riuscita del lavoro teatrale. “L'utero è mio e lo gestisco io” non ha mai risolto i rapporti tra i due sessi. Piccolo donne crescono. Avvelenate.
La frase: “Perché il lutto non vale per i vedovi?”

Visto a Villa Bellosguardo, Lastra a Signa, Firenze.

Tommaso Chimenti 20/11/2015

Mercoledì, 18 Novembre 2015 16:39

Maria Cassi: un gustoso shakerato di Shakespeare

Io considero il mondo per quello che è: un palcoscenico dove ognuno deve recitare la sua parte” (“Il Mercante di Venezia”, Antonio, atto I, scena I)
Una bella giornata così brutta non l'avevo mai vista” (“Macbeth”, atto I, scena III)
Gli uomini dovrebbero essere quello che sembrano” (“Otello”, atto III, scena III)

Nello stesso giorno, il 23 aprile 1616, morivano, a migliaia di chilometri di distanza, due dei più grandi scrittori di sempre del Vecchio Continente, tanto da far supporre a qualche dietrologista e complottista che fossero in realtà la stessa persona. Ipotesi affascinante ma tesi impraticabile quella che vede Miguel de Cervantes e William Shakespeare essere un tutt'uno, due nomi per un solo corpo. Ma il Don Chisciotte che va con il suo ronzinante alla ricerca del vento giusto entra in contrasto con la staticità delle dodici sedie tutte differenti (e sedia nel gergo teatrale fa già monologo, diventa in un attimo parola e verbo, si scioglie nel flusso di pensieri, è sinonimo di orazione e affabulazione) che orlano la scena dove Maria Cassi cuce un nuovo esperimento teatrale continuando la sua intraprendenza internazionale. Stavolta, dopo la collaborazione con Peter Schneider, guru di Broadway e della Disney con il quale la direttrice artistica del Teatro del Sale fiorentino è volata a Parigi e New York con “My life with men and other animals”, il suo sparring partner, perché di una battaglia colpo su colpo si tratta, è Jack Ellis attore londinese tutto pane e Shakespeare, come nella miglior tradizione della Union Jack. Come se George Arliss incontrasse Gianburrasca.
E qui sta lo snodo di “Shakespeare mon amour” (un inglese e un'italiana hanno partorito un titolo in francese; le repliche andranno avanti per mesi) tra l'impostato, l'impomatato, tutto voce colta e accento british e la “sgangherata” toscana di casa. L'impertinenza del mimo e del clown accanto alla compostezza e alla linearità iperprofessionale dell'inglese scatenano un corto circuito che tocca, in maniera periferica certo e liminare volutamente, alcuni tra i capisaldi delle tragedie del Bardo, a cinquecento anni dalla sua morte. Tra citazioni, perfettamente eseguite oppure snocciolate con fare “cialtronesco” e maccheronico, tra impaccianti e caldi e pesanti costumi elisabettiani fuori moda (lei) o sandali improponibili anglosassoni e vagamente grotowskiani (lui), la nostra “discola” mette in riga l'attore con la maiuscola ora insegnandogli alcuni motti e proverbi vernacolari, con traduzioni slang-amatoriali, adesso dedicandogli Lucio Battisti e Mina (superbo Ellis calato nei panni di Alberto Lupo) o Paolo Conte. Un po' di Sale sul Globe.
La disputa dialettica e la contesa nazionalistica si sposta a Dante che diventa paladino di tutti i cittadini tricolori e baluardo da una parte nella difesa della lingua della Crusca e dall'altra nella controffensiva contro l'autore del “Mercante di Venezia” o dell'“Otello”, di “Romeo e Giulietta” come de “La Tempesta”. La scala a chiocciola in legno, a vista per la prima volta in questi undici anni da quando è aperto il Sale, è l'emblema e il simbolo della complessità e del vortice (somiglia allo schema del dna) dentro il quale finiamo leggendo Shakespeare, nelle sue infinite possibilità, nei suoi scarti semantici e psicologici, nelle variabili chiavi di scoperta e ribaltamento, di realismo come di metafora, del disvelamento del potere come delle macchinazioni dell'odio e della gelosia. Entrare dentro il mondo di Amleto e Iago, di Falstaff e Calibano, Lear o Shylock, Macbeth o Polonio, Macbeth e Malvolio, è una continua rincorsa e fuga, amplesso senza riposo e riflessione.
La Cassi gioca a fare l'ingenua naif al cospetto di un grande interprete della tradizione d'Oltremanica riuscendo nel tentativo, nella finzione scenica, di sciogliere il britannico rendendo le parole universali di Shakespeare terreno colloquiale e humus vitale trasversale, oggi come allora, a sfidare la polvere del tempo e le umane piccole disgrazie, il tutto con la leggerezza che la contraddistingue e quel modo, dinoccolato e spiegazzato, con i suoi suoni gutturali tipici, la sua “incoerenza” spensierata, le bretelle d'ordinanza, il moto perpetuo e le mille facce plastiche. Da oggi anche Shakespeare lava i panni in Arno.

Visto al Teatro del Sale, Firenze.

Tommaso Chimenti 18/11/2015

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