E' a teatro la "buona scuola": Silvio Orlando, il prof che avremmo voluto
PONTEDERA – Sono passati venticinque anni dalla prima messinscena e le cose a livello scolastico-didattico-pedagogico all'interno dei nostri istituti superiori non sono certo migliorate. Anzi. Ancora, purtroppo, attualissimo “La Scuola” che dal teatro passò al cinema, trattato da Daniele Luchetti (che si è ultimamente perso sulla via giubilare di Francesco) e che adesso ritorna al palco. Silvio Orlando c'era e c'è. Non ci aveva convinto qualche anno fa come Shylock nel “Mercante di Venezia” curato da Valerio Binasco, qui invece affonda nella sua materia, quella della delicatezza e del fallimento, fallibilità e fallacità umana, i buoni sentimenti ma senza buonismo, la delicatezza di una carezza e la riflessione piena di ironia, privo di aggressività e colmo di dolcezza. Uno, dieci, cento Orlando vorremmo vedere.
A che punto è oggi la scuola italiana? E' sempre al suo posto il sindacato Gilda, nome più vicino ad una soubrette da dopoguerra che ad un'associazione di categoria. Non è ben messa né dalla parte chi sta dietro i banchi a studiare né dalla parte del corpo docenti, precari, vessati, spostati come marionette da una “Buona Scuola” che forse è stata così nominata proprio perché così ottima non è. In questi vent'anni da una parte ha lavorato sotto traccia il berlusconismo, con le televisioni del dolore e della stupidità dei reality alla rincorsa dello share ad abbassare sempre più la soglia di tollerabilità ed accettabilità delle immagini e dei messaggi propagandati e promossi, che hanno aiutato e favorito un analfabetismo di ritorno preoccupante. L'Accademia della Crusca ormai s'è arresa e rassegnata all'uso errato errato del congiuntivo, moribondo, ai “qual'è” oppure a “eco” al maschile o “i pneumatici”.
Qui, nella messinscena teatrale, a differenza del grande schermo, solo i professori affollano questa aula-capannone. Non ci sono i ragazzi, non ci sono gli allievi, non ci sono gli alunni. Soltanto un manipolo di docenti, frustrati, repressi, insoddisfatti per la maggior parte, che non hanno a cuore il loro lavoro pieno di responsabilità, che, proprio come una classe di giovani studenti, litiga, si attacca, piagnucola, si offende, si lamenta, si aggredisce, fa la pace, fa pettegolezzi, si unisce in fazioni, si divide in guerriglie di tutti contro tutti: “Siamo una grande famiglia”, “Sì, i Borgia”. Si ride dall'inizio alla fine.
L'attacco e la chiusa sono di un blues caldo, poderoso che apre e chiosa su questa sala professori, spostata in palestra, tra tubi per le riparazioni, impalcature di lavori in corso interminabili (metafora del sistema scolastico italiano), funi, armadietti rotti. Ci sono delle parole che aprono i cassetti della memoria di ognuno di noi: cimosa, gita, lavagna, note, registro, appello, interrogazione, compito in classe, giustificazione, assenza, campanella, compagni di classe, ricreazione, che anche a distanza di anni, di decenni, di lustri, provocano ancora sconquassi, brividi, incubi e poche volte nostalgia.
Ci arrivano tutti insieme come plotone militare con passo deciso che pare di avere di fronte “Il Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo. Ecco che affiora il Bart Simpson dei cartoni gialli statunitensi, così come Benigni che in “Non ci resta che piangere” diceva a Troisi: “Io, Giachetti lo boccio”, infiltrazioni da “Io speriamo che me la cavo” o “Auguri professore” dove svettava sempre la normalità paciosa di Orlando, prof illuminato alla “Attimo fuggente”, o ancora “Il rosso e il blu” dove al giovane insegnante, Scamarcio, pieno di entusiasmo vergine e di fuoco sacro, si contrapponeva il cinico e disilluso vecchio educatore, Herlitzka.
Due i perni su cui ruota tutta la drammaturgia: da una parte una presunta love story tra i personaggi di Orlando e Marina Massironi, dall'altra la decisione da prendere su uno studente problematico, e non proprio modello, pluriripetente, Cardini, negato per qualsiasi materia ma eccellente nell'imitare la mosca, metafora kafkiana dolorosa della sporcizia, fetore e squallore di molte famiglie, di futuri negati, dello stato della scuola pubblica nostrana, dell'illusione che si comincia nella vita tutti dallo stesso nastro di partenza con le stesse opportunità. Lo scrutinio, riguardante “l'avanzo di galera” Cardini, segue il procedimento de “La parola ai giurati”, con cambiamenti di opinione, convincimenti, conteggi tra salvezza e bocciatura.
Ci sono i professori arrabbiati dediti alla punizione e quelli alla giustificazione dell'alunno, chi vuole reprimere comportamenti non adeguati e chi li vuole capire: “La scuola italiana funziona solo con chi non ne ha bisogno”. Chi vuole stroncare (affiora “Il giovane Holden”) e chi vuole proteggere. Una lotta impari quella dei ragazzi contro l'adolescenza, i genitori, il loro corpo che cambia, il futuro, i professori. Tutti avremmo avuto bisogno di un prof come Silvio Orlando.
Visto al Teatro Era, Pontedera (PI), il 13 gennaio 2016
Tommaso Chimenti 16/01/2016
Il trittico sul secolo breve: Longhi e le sue “istruzioni” senza pace
MODENA – Ha il sapore dell'epopea alla “C'era una volta in America”, il retrogusto della saga alla maniera della “Lehman's”, il sentore di leggenda come in un Mahabharata occidentale. L'intento (a tratti brechtiano) è stato quello di costruire con “Istruzioni per non morire in pace” una maratona gonfia e potente, corposa e altisonante, con il coinvolgimento (Ert e Teatro della Toscana) di decine di maestranze ed enti e associazioni, centinaia di cittadini in un progetto-percorso con la sua buona dose di validità didattica e di senso di comunità più che spettacolare. Quasi tre ore a comparto, però, sono decisamente troppe, per questa fatica (anche la nostra nel rimanere fino alla fine) di Claudio Longhi. Tre parti, Patrimoni, Rivoluzioni e Teatro, per una marcialonga ridondante, lungaggine logorroica.
Quando si parla di Prima Guerra Mondiale, ed in qualche modo quando il discorso è allargabile al nostro nero Ventennio, i cannoni vanno a braccetto con le rime stupide, patria e bandiera con i sorrisetti sciocchi, la battaglia con i balletti scosciati, la tecnica dell'acciaio con i bordelli, l'Universo e le prostitute, i sogni con gli incubi, barbarità con intellighenzia, atrocità e raffinatezza, cinismo e bassezze con delicatezza e ricercatezza, il fischiettare un motivetto che fa du du du du e lutti a non finire, baionette e soubrette. Ed infatti, messaggio stereotipato da operetta frivola e leggera, tutt'attorno all'arco che racchiude il palco, lucine scintillanti da varietà e rivista, così come i due sipari interni di un rosso sanguinolento (così come la pedana che entra in platea) lucidissimo da apparire scivoloso, plastificato, sgusciante, imprendibile, grondante liquame e globuli.
Il secolo breve è traballante e propulsivo, tremolante, incerto e sperimentatore, ossimorico e contraddittorio per sua stessa natura, dove, al suo interno, tutto è accorciato, la vita in primis, tutto è allungato, estenuantemente dilatato: grandi scoperte e voglia di conoscere come le brutalità più estreme, il volo e l'elettricità come bestialità infime, crudeltà e malvagità perduranti. Nuove conquiste e perdite totalizzanti. Non ci soffermeremo sui possibili, e plausibili, incroci con la nostra attualità, dalla guerra giusta allo scontro tra religioni, ai poteri forti che indirizzano spargimenti di sangue delle fasce più deboli per motivi puramente economici.
Ogni attore assume in sé sette – otto personaggi. Non hanno maschere ma indossano una sorta di calzamaglia che li ricopre, gambe e braccia, fino alle mani che somigliano a quelle guantate dei fumetti disneyani, e sul volto questo lenzuolo adamitico che rende i loro volti tutti simili e lisci, levigati come colpiti dall'acido, o ricostruiti da invasivi interventi di chirurgia plastica, limati come bambole di porcellana, appiattite, similari l'una all'altra, quasi come vedere “Gli amanti” di Magritte, con parrucche di capelli impomatati come fiammiferi accesi di tanti poveri diavoli, peccatori imbrigliati nei gironi danteschi. Le facce hanno protuberanze botuliniche come se portassero segni e sintomi di malattie evidenti, escrescenze e tumori su zigomi deturpati da Golem, mummie con un ricordo di Gotham o di Sin City.
Coinvolgenti e paurosamente affascinanti le figure che sul fondale prendono vita bidimensionale, mostri antichi ed arcaici, insetti giganti, specie di pidocchi ingranditi al microscopio, dai tratti mitici ed utopici, draghi che mutano in scheletri appuntiti, ossessioni di morte che prendono forma di demoni agguerriti, mordaci, sbavanti.
La sbavatura ricorrente, che non crea alternanza di sentimenti e pathos e atmosfera, ma caos di piani, è quella di mischiare scene surreali e iperboliche ad altre realistiche e storicizzate con tanto di cartina che scende dall'alto nelle quali segue anche lezione, più o meno semplicistica, di aggressioni ed attacchi, alleanze e spostamenti di eserciti, annessioni e invasioni, tanto da sembrare dentro un grande Risiko stilizzato dalle tinte accese e forti, passaggi saggistici, in evidente e lampante contrasto con il grottesco precedente, con date e geopolitica sintetizzata.
Questo “Istruzioni per non morire in pace”, di Paolo Di Paolo, diviene più contenitore dove racchiudere tutti i movimenti, i personaggi, i fumi ed i passaggi di inizio Novecento con salti che toccano Proust e Freud, Modigliani e Cocteau, D'Annunzio e Garibaldi.
La platea è sempre coinvolta: la luce accesa in sala, attori che scendono tra le poltroncine, che passano dalla pedana nei palchetti laterali, il lancio ora di banconote, adesso di lettere: un grande movimento futurista. La metafora del '900 è la botola del suggeritore che tutto ingloba e ingoia, è la neve che cade, comunque e pesantemente, incessante: “Nient'altro che del bianco a cui badare”, sottolineava Arthur Rimbaud.
Visto al Teatro Storchi, Modena, il 7 gennaio 2016
Tommaso Chimenti 11/01/2016
Foto: Luca Del Pia
I Lenz fanno Orlando in mille pezzi
PARMA – Orlando frammentato, dissolto, segmentato, fatto a pezzi, disciolto nell'acido, dissociato. Tutt'altro che furioso. Direi, pacificato, lento, colmo, quasi rassegnato dopo tanta pugna e battaglia, dopo i corpo a corpo con il Fato ed il senno. Respira, piuttosto ansima tra le pieghe di questo ex ospedale che ne porta ancora i segni dolorosi, i graffi freddi, le pareti bianche da far male, da stridere sotto i denti, da urlare a passarci le unghie rotte. Il tomo dell'Ariosto diviso in otto parti dai parmensi Lenz, quattro andate in scena tra il Museo Guatelli, dalle migliaia di oggetti raccolti di vita quotidiana contadina, e questo Padiglione, dismesso, immerso nelle nebbie, città dentro la città, di vetri opachi, vialetti sghembi, alberi stanchi, aiuole annoiate molli come struffoli al miele, palazzine messe lì come pezzi di Lego. Altre quattro scene saranno montate in questo 2016.
Se pensate di ritrovare i cavalieri e le dame vi sbagliate; qui rimane l'essenza pura, il distillato compresso in frasi ripetute come mantra e cantilena, gocce in un'altalena di emozioni tra la letteratura e le biografie dei loro “attori sensibili”. Si parla di #Fuga, “sto scappando dall'uomo che mi deride”, “scappo finché non rimane che un suono”, nella musica lirica, nella musica livida, i ristrutturati personaggi hanno caschetto e vestaglia da pugili, come a dire che sì, si colpiranno, ma che è una farsa e si faranno meno male possibile, che il male non sono i pugni. “Io vorrei fuggire” rimbomba, le parole scandagliate che scalfiscono, dette piano che ingolfano l'esofago e si fanno largo tra le costole. Ci sentiamo alla deriva, posto e dato per assodato che ogni #uomo è un'#Isola, lontani dalle stanze dei bottoni decisionali, passivi, a distanza dal #Palazzo, che vorremmo distruggere, che invece rimane sempre corazza e fortezza inespugnabile, per noi intoccabile. Noi spettatori messi al muro, appollaiati, spalmati, responsabili anche della loro emarginazione, del non riuscire a capire le loro facce tinte di bianco, la malattia intrinseca, la solitudine che sfora da ogni respiro, l'angoscia in questi occhi che non trovano soluzione.
Siamo Orlando con le sue nevrosi, siamo Ruggero dilaniato e tormentato, siamo la strega Alcina (Delfina Rivieri, doti comiche e d'improvvisazione) che non riesce a darsi pace, siamo Astolfo disperso nei propri meandri, siamo Bradamante (Barbara Voghera, la più connessa alle nuvole della vicenda) che vaga confusa, siamo Angelica che ama e odia in egual misura. Passiamo di stanza in stanza come pazienti, degenti, attendiamo il nostro turno come buoi al macello. Sembra di sentire il sapore amaro di pastiglie, le luci psicotiche, il soffocare claustrofobico. I grossi termosifoni in ghisa, solida e poderosa, danno un senso di compiutezza, di fondamenta salde. Ci si può fidare. Kimoni e maschere di animali scombinano i piani.
Ascoltare l'ensemble di uomini e donne messo al lavoro e impastato da Maria Federica Maestri e Francesco Pititto è un rito collettivo dove ogni particolare e dettaglio s'incastra in un processo, e progetto, più ampio. L'attore porta molto della sua persona, si mostra fragile senza vergogne, ci chiede conto della nostra “presunzione di normalità”, del nostro sentirci altro, diversi, superiori, migliori. Come un j'accuse, le scene s'affastellano, come colori pieni di vernice a stratificare segnali. Le loro parole, le immagini che passano e ci tagliano con luci violente in questa pace rarefatta, chimica, alterata, di odori pungenti, di bruciato e affumicato. Pullula di ossessioni e maldicenze, di acrilico e smodato e sfrontato.
L'apertura-scena madre, grave e gonfia come vacca da sgravare, ha lettighe d'acciaio da obitorio, cere vitree e lisce, gomma piuma bianchissima che pare soffice pandispagna dove cullarsi, molleggiarsi, addentrarci, da addentare. I corpi sotto pulsano prima di fare la loro epifania da zombie in emersione, sorpresa e riconoscersi nel gelo che prende, nella balbuzia che cresce, nell'ammaraggio nel quale cade il nostro essere borghesi ed ora sospesi tra una vita fuori che ci aspetta e questa parentesi (come tutte le “lezioni” dei Lenz) che folgora chi si lascia andare a nuovi significati, che non tange chi ha verità da esporre in ogni occasione, ad ogni latitudine.
Tommaso Chimenti 05/01/2016
Foto: Francesco Pititto
Le ossessioni di Pinter diventano materia viva con gli attori di Nanni Garella
BOLOGNA - Qualcuno li chiama “attori sensibili”. Forse definirli soltanto attori potrebbe essere la scelta giusta. Non per cercare una normalizzazione, etichetta che non esiste nella realtà, ma per esaltare quelle differenze che in teatro, meglio che in altri contesti e contenuti, diventano ricchezze, esperienze, possibilità, al di là di qualsiasi buonismo di facciata, solidarietà di maniera.
Da una parte Nanni Garella a Bologna, dall'altra i Lenz Rifrazione a Parma. L'Emilia che funziona. Lavori che toccano il sociale, ma opere che travalicano quella valenza per entrare in quella puramente artistica. E' per questo che definire queste compagnie e questi attori non porta una riflessione maggiore, non aggiunge: bisogna vederli e tutto si chiarisce. Attori che arrivano sì da un percorso psichiatrico alle spalle, o nel presente, e questo è molla e sostanza per esaltare testi e parole, per far vivere realmente ogni sensazione e sillaba letteraria che dalla loro bocca diventa carne, passato, coscienza.
L'operazione di Garella è quella di mettere i suoi dieci attori (con la sua aggiunta team di football) dentro le trame pinteriane, affidando gli “Atti unici”, colmi di ossessioni e chiaroscuri, di manie e punti interrogativi esistenziali, al suo gruppo. Ogni dialogo e scambio dialettico, ogni pausa e silenzio, ogni sguardo, torvo o assente, esplode, prende risalto e rilievo. In “Una specie di Alaska” (ricordiamo il recente per la regia di Valerio Binasco) una ragazza (ci insegue di colpo l'immagine di Eluana) si risveglia dal coma (ci ha ricordato il “Pinocchio” dei Babilonia). Come bella addormentata (appunto il film di Bellocchio), ibernata o sedata non riesce a riconoscere i contorni di una realtà che tutti quelli intorno gli indicano come familiare. Tutto sembra nuovo e vuoto, senza un apparente senso; mancano i cardini, manca il passato, il prima, come una logica che tutto riattivi e ricolleghi, riallacci e rileghi, ricucia assieme i fili di un precedente che si è perso. Si sente ostaggio e prigioniera, rapita e capro espiatorio, sensazione che il malato prova e soffre sulla sua pelle, l'inadeguatezza che genera paura e sconforto, rabbia e impotenza, impossibilità alla reazione, depressione, malessere che si aggiunge al malessere. L'Alaska, come sensazione, non deve risultare tanto più gelida.
Lo spazio è aperto, i cambi di scena a vista nella penombra che non si fa mai buio alle loro spalle, lasciando intravedere i prossimi passaggi della trilogia che si sta dipanando. Pinter ti attacca alla gola, piano piano ti soffoca con il suo respiro, ti chiede di lasciar perdere le sovrastrutture che ci siamo creati attorno alla parola “normalità”, nel quale contenitore ci siamo infilati, e di sentirci svuotati, come realmente siamo: fragili, soli, inadatti alla vita, perdenti. Pinter ci fa rendere conto di quanto l'uomo, da sempre, abbia lavorato per creare, abbellire, addomesticare il mondo e renderlo simile ad un parco giochi, divertimento ed edonismo, per poi, amaramente, accorgersi di essere il tradito ed il traditore, Pinocchio e Giuda. E se cade il castello di carte, pazientemente elaborato dalle generazioni, crolla il patto sociale con la “normalità”. Per questo Pinter detto e pronunciato dagli attori del Dipartimento di Salute Mentale di Bologna è necessario, potente, corposo, un flusso che si fa materico, solido, concreto. Pinter di “assurdo” non ha assolutamente niente.
Pinter è gli incubi che si fanno reali e tangibili, presenti e martellanti. Ne “La stanza” (qualche anno fa visto grazie alla magnifica prova del Teatrino Giullare, anch'essi bolognesi) una lei logorroica ed un lui che stenta a monosillabi in quelle crepe che si formano tra il detto e il non detto. L'inquietudine, il precariato, economico ma anche l'incertezza del vivere quotidiano, il mistero che toglie punti di riferimento e fa costantemente sospettare, temere per la perdita, avere paura. E il timore peggiore è avere paura di avere paura.
E anche nella situazione che dovrebbe essere più conviviale, sociale e piacevole, una festa, in “Una serata fuori”, assistiamo prima ad un conflitto familiare madre-figlio a suon di sensi di colpa, a rinfacciarsi, senza vie d'uscita, in questi interni soffocanti tra gelosie e invidie, una cappa opprimente, successivamente al party, ad uno scherzo che diventa bugia e questa una piccola grande tragedia di insinuazioni, il tutto intriso di controllo sociale e oppressione. Questi luoghi angusti hanno la doppia valenza dei piccoli nuclei dei quali facciamo parte, e dei quali dobbiamo continuare a rispettare le regole sottese, e sono metafora del nostro pensiero costantemente messo in moto, acceso e pungolato dagli stimoli, dalle azioni, e quindi spinto alla reazione, dal mondo esterno in una concatenazione continua di offesa e difesa, di riposizionamento rispetto all'oggetto, alle persone, ai luoghi. Il “chi sono” che oscilla, si modella, tremola come gelatina o budino e poi si riassesta, sempre in cerca di un nuovo equilibrio, problematico, doloroso.
Usciamo con una sensazione di tremolio e terremoto sottile, sotto le gambe. Siamo esseri precari e fallaci, soffi di vento, invece ci dipingiamo come indistruttibili, invulnerabili, eterni. Pinter e questi attori ci mettono in difficoltà mettendoci in scena, con i nostri punti deboli, quelli che vorremmo sempre nascondere, le nostre vergogne.
Visto all'Arena del Sole, Bologna, il 25 novembre 2015.
Tommaso Chimenti 04/01/2015
"Baciamo le mani": più che di mafia, si ride di criminali grotteschi e poliziotti da strapazzo
FIRENZE - “Senza piccioli e rispetto sei il nulla mischiato al niente”, Totò Riina.
“Quando c'è un delitto di mafia, la prima corona che arriva è quella del mandante”, Gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa
“Gli farò un’offerta che non potrà rifiutare”. (“Il Padrino”)
E' la nostra industria più florida, quella che guadagna e fa guadagnare, che ha più fatturato. Se gli Stati Uniti non sono riusciti ad esportare la democrazia a suon di bombe tra Iraq e Afghanistan, noi siamo stati capaci di esportare la mafia negli Stati Uniti. “La mafia è il miglior esempio di capitalismo che abbiamo”, Marlon Brando.
Pasta, pizza, mandolino. E mafia. Potremmo essere polemici e dire che parlare di Mamma Santissima e lupare qui da noi sarebbe come andare in Spagna e parodiare su quello che è stata l'Eta, le bombe, gli agguati, gli attentati. Non sarebbe bello, non sarebbe giusto. Puoi dire mafia e accennare a “Terapia e pallottole” oppure al “Padrino” o “Donnie Brasco” e spingerti fin verso “Bronx”, “Gli intoccabili” o “Quei bravi ragazzi” dove il crimine si mischia alla leggenda di certe frasi epiche, di certi registi e registri, di certi attori che la sanno lunga, di certi sguardi che forano, che bucano, che trafiggono. “Un bravo ragazzo ha sempre ragione; anche quando ha torto, ha ragione”, Donnie Brasco)
Oppure pensare, peschiamo un po' a caso nella memoria, a Salvo Lima e Peppino Impastato, Carlo Alberto Dalla Chiesa e Don Diana, Don Puglisi e al piccolo Giuseppe Di Matteo disciolto nell'acido, a Falcone e Borsellino, ai Georgofili e ti passa subito la voglia di ridere e pure quella di sorridere. E come gli Yllana (yllana.com), il gruppo spagnolo che torna spesso al Teatro di Rifredi di Firenze (il trio Mordini-Savelli-De Biasi ci porta sempre in un mondo di raffinato teatro internazionale), hanno ironizzato sul mondo del mare, “Splash!”, e sui toreri, “Muu!”, sui Safari, “Zoo”, e pure sugli Spaghetti Western, “Far West”, allora gli passiamo anche questa pantomima che nel mondo ci identifica, ci inquadra nell'equazione italiani uguali mafiosi e dalla quale è difficile staccarsi e sottrarsi. Ridiamo di noi stessi senza dimenticare però la scia di sangue, le ferite ancora non rimarginate, la mafia tumore non debellato. “La mafia uccide, il silenzio pure”, Peppino Impastato.
Più che della mafia (delineata con tratti di demoni o mostri tra Frankenstein e Lerch della Famiglia Addams) dai contorni di chiaroscuri pennellati da Museo delle Cere, maschere deformi, macellai (viene in mente la Cianciulli) storpi e gobbi, sembra che “Baciamo le mani” sia più un confronto tra una squadra di investigatori stupidi, alla “Scuola di Polizia” o la trilogia “Una pallottola spuntata”, con un gruppo di criminali da strapazzo in stile rapinatori di “Mamma ho perso l'aereo” o di rapitori nei “Goonies”. L'atmosfera a tratti si fa splatter e pulp, molto humour nero, portandoci in atmosfere da “Seven” o “Collezionista di ossa”, da serial killer tipo Dexter, Jack lo squartatore o Freddy Kruger.
Le luci sul fondale, rossissimo come in Shining quando avvengono torture (ricordando “Le iene” di Tarantino) o assassinii brutali, o blu nei quadri più leggeri, fanno il loro effetto, così come gli incastri, nel gramelot spagnoleggiante, tra i quattro, eclettici, elettrici, che a turno, a ciclo continuo, sono poliziotti e criminali, in un veloce trasformismo. Ci sono i proiettili e gli spari, le mazze da baseball per le punizioni, le intimidazioni e le esecuzioni, cazzotti, soldi e cocaina. Guns senza roses. Spuntano altre citazioni e rimandi: puoi scovare pezzi di “Kill Bill” o “Full Monty”, “Buried”, il sepolto vivo nella bara, fino a “Rocky” e Jason, il pazzo sanguinario con la maschera da hockey, “Scarface” o “Il Grande Lebowsky”, le ceneri dei caduti. Tra i difensori della legge, emuli dei b movie all'italiana di Lino Banfi o seguaci di Mel Brooks, e i dannati, la morale finale non aiuta certo i primi. E la tarantella italiota conclusiva, al sapore del “That's amore” di Dean Martin, chiaro riferimento nostalgico tricolore, ci riporta alla riflessione iniziale.
Visto al Teatro di Rifredi, Firenze, il 31 dicembre 2015
Tommaso Chimenti 01/01/2016
La "Prima guerra" dei trentini: storia sconosciuta, tragica e toccante
CERTALDO – Allo specchio come essere italiani al fronte in due modi differenti. Nel suo dittico sulla Grande Guerra, ricordo-monito e non celebrazioni, se in “Milite ignoto” Mario Perrotta era tutta la Babele di lingue dialettali sparsi per lo Stivale e confluite nel fango e nella melma di una trincea-latrina sperso a difendere una manciata di terra marcia, qui in “Prima guerra” è un confronto a due, in controcampo, in controcanto, in contropiede, contraltare e contrappasso, tra un lui andato a sparare di baionetta e lei rimasta a volerne sentire dolorosamente e nostalgicamente quel peso addosso mai afferrato, quella felicità intravista e poi sparita. “L’umanità deve porre fine alla guerra, o la guerra porrà fine all’umanità” (John Kennedy).
Due amanti semplici che si scrivono lettere che mai arriveranno, che nella fretta lei (Paola Roscioli caparbia e dolce, compagna anche nella vita) è stata sfollata, che nel trambusto lui (di nome fa Toni come quel Ligabue che così poliedricamente Perrotta ci ha raccontato nella sua recente trilogia conclusasi sul Po) ha cambiato riparo sotto un elmetto esile, confidando nella fortuna e nel buon Dio più che nelle dotazioni d'artiglieria. “La guerra delle isole Falkland? Due calvi che litigavano per un pettine”
(Jorge Louis Borges).
Perrotta, insieme a Roscioli e a Silvia Ferrari, pochi mesi fa hanno fondato l'associazione “Permar”, staccandosi dall'ITC San Lazzaro e dal Teatro dell'Argine; Permar che è ovviamente Perrotta Mario ma anche quell'andare, quel girovagare ulissiano, quel viaggiare curioso e instabile, fonte di conoscenza, scompiglio, dolore e voglia di sapere, d'apprendere. “Le superpotenze si comportano da gangster, ed i paesi piccoli da prostitute” (Stanley Kubrick).
Questo “Prima Guerra” è un'indagine di Perrotta sugli italiani trentini e giuliani, terra di confine, considerati temuti austriaci dagli italiani, e per questo vessati, ritenuti italiani infingardi dagli austriaci, e per questo deportati nei primi esperimenti di campi di concentramento. Dal Carso mandati a morire dagli austriaci perché possibili spie, spediti in campi profughi dagli italiani. In una terra di mezzo, in una terra contesa, i soprusi si raddoppiano. Le missive, che mai raggiungono il bersaglio, come frecce di un Cupido strabico, sono poesie rappate in canti popolari (vengono in mente gli ultimi progetti delle Albe ravennate), e l'atmosfera è quella delle ballate da sagra, dei sorrisi larghi di chi s'accontenta di quel poco o nulla che ha a disposizione. “Quando gli elefanti combattono è sempre l’erba a rimanere schiacciata” (Proverbio Africano).
Le lettere, pur non arrivando, si sovrappongono, come se si rispondessero, o, da entrambi i lati, chiedessero le stesse informazioni, volessero soddisfare la stessa curiosità di vita. Lettere mai recapitate nelle mani dell'altro ma è come se l'altro, a distanza di migliaia di chilometri ed all'oscuro della situazione in cui è immerso il partner, ne sentisse in sottofondo le esigenze, ne percepisse le volontà e le richieste. Combattono la stessa guerra, con armi diverse, ma lo stesso conflitto, patendo le stesse rinunce e pene (il concetto di fondo anche di “Donne in guerra” di Laura Sicignano del Teatro Cargo di Genova: “Finisce la guerra, ma non finisce la guerra che ho dentro”, dice la ragazza). Anzi, è come se scrivessero la stessa lunga lettera, come un telefono senza fili, come una maglia fatta all'uncinetto, un golf che tenga caldo. “Non ho idea di quali armi serviranno per combattere la terza Guerra Mondiale, ma la quarta sarà combattuta coi bastoni e con le pietre” (Albert Einstein). Si scrivono per non morire prima del tempo, per tenere in vita quel filo, per allontanare le Parche con le loro forbici azzannatrici. Un'epopea tragica che solo la voce caracollante e marinaresca d'onde e salmastro di Mario Perrotta (nuovamente Premio Ubu, stavolta per il Progetto Ligabue) poteva raccontare, con quella leggerezza fatta di strappi e risalite, di salite dure da digerire, di atrocità vellutate con una risata di paese, di quella leggerezza spensierata che solo il non aver niente può regalare.
“Combattere per la pace è come scopare per la verginità”, diceva quello.
Visto al Teatro Boccaccio, Certaldo.
Tommaso Chimenti 24/12/2015
Foto: Luigi Burroni
Dolce è la vita di un Cristo pinocchiesco?
FIRENZE – Come se fosse un problema matematico con l'incognita, partiamo dall'assunto che Cristo può essere benissimo paragonato e associabile a Pinocchio. Entrambi con un padre creatore, artigiano che li ha messi al mondo e modellati a sua immagine e somiglianza, entrambi si sono fatti di carne, il primo è disceso da pura essenza e Spirito Santo il secondo da legno, per espiare i loro/nostri peccati, il tutto avvolto ed ammantato da misterioso miracolo. Un forte legame di entrambi con il legno, materia che costruisce e ripara ma anche che arde donando calore, dal mestiere di falegname di Geppetto e Giuseppe, al loro ruolo, padri “adottivi” responsabilizzati al grande compito e scelti, fino alla croce, atto ultimo.
“Dolce Vita” mira ad altezze siderali totalmente antitetiche a quelle materiche felliniane. In cinque passaggi di una via crucis ridotta, la danza impostata da Virgilio Sieni, più “pasquale” che “natalizia”, ci apre le porte dall'Annunciazione, con un arcangelo goffo (Ramona Caia, perfetto controllo del corpo), che stenta, quasi storpio, che incede e incespica, con un busto in plastica che ne amplifica il respiro come sub in immersione profonda. Un angelo che si trascina a terra, che striscia come serpente più che volare come farfalla. Non è leggero ma pesante e appesantito. Le ali non gli servono, lo impacciano come albatro, sono malmesse e malferme, non le usa, non le può utilizzare, immobilizzate, storte, imperfette, rotte, inservibili, anche lui corrotto dalla terra e ad essa richiamato come forza di calamita. L’Annuncio diventa corpo, dolore ancor prima del parto, ma anche solidarietà: i sette danzatori si muovono attorno all’angelo, lo raccolgono, lo trascinano, nel tentativo di non lasciarlo sprofondare, lo liberano dal silenzio soffocante quando cade la maschera di plastica che lo imbrigliava.
Accanto a me una bimba ha ali sottili da Trilly e tutù di tulle rosa. Grandi lettere formano cartelli, come le signorine tra un round e l'altro di pugilato, che preannunciano i vari capitoli. C'è un che di Frankenstein in perenne trasformazione e passaggio di elementi in questa cristologica figura fragile che si umanizza in mezzo a tanti cappelli da asini da Paese dei Balocchi. Non è dolce la vita, non lo è stata, forse non può esserlo, essendo segnata da dolori profondi, per finire nella morte. I volti da clown tristi, le lacrime di Pierrot, bocche sfatte di rosso sbavato, non di riso ma di singhiozzi e pianti. Nella Crocifissione (secondo dei cinque quadri di cui si compone l’opera) i cappelli appuntiti diventano frecce, aculei per colpire, lance per ferire, colonne vertebrali di dinosauri, becchi d'uccello e squame preistoriche, proiettili e missili, il prolungamento degli arti, dei pensieri, dei flussi di energia che scorrono a morsi, a singhiozzi. La Dolce Vita prima la godi, poi la paghi. O è Dolce solo la Vita dopo la vita.
Seguono Deposizione e Sepoltura. La narrazione di corpi si fa lenta, profonda, armoniosa, ma anche frenetica, asimmetrica, vigorosa e sudata, con improvvisi cambi di ritmo e direzione che tengono il tempo di un contrabbasso suonato in ogni sua parte, ora gutturale e rabbioso, ora violento e arioso, ora animalesco e digrignante. Infine la Resurrezione che è un rinfrancarsi, un rinfrescarsi, un risollevarsi, un risorprendersi, un rianimarsi. Tra bellezza e senso del tragico, nel chiedersi se l’amore sia liberazione o perdita.
Visto a Cango, Firenze, il 20 dicembre 2015
Tommaso Chimenti 23/12/2015
Ritratto di Tindaro Granata: gentile, caparbio, sensibile
SOLEMINIS – Le cicale non smettono un attimo il loro canto. Le pietre sono già roventi alle dieci della mattina. Attori scalzi si aggirano nel patio che costeggia il giardino verde della Casa delle Storie. Due olivi ci guardano e sembrano corazzieri che difendono il palco, adesso vuoto, che aspetta, nuovamente stasera, di essere riempito, portato a nuova vita, esaltato di parole. Abiti sparsi, sedie di ogni colore e forma, una poltrona imbottita rossa e gonfia e tronfia da tutti ambita. Una mostra con lunghi disegni colorati, per bambini di tutte le età. Puoi passare e scrivere con un pennarello bianco su un foglio nero ricordi dell’infanzia, dolci come seadas con il miele o salate come fregola di pecora. C’è chi prova nella dependance e le voci arrivano lontano nell’odore del cisto. In maglietta slargata e pantaloncini ciabatta Tindaro Granata, nome evocativo millenario, cognome da colore orgoglioso, di tempra.
Le prime volte credevo, e non ero il solo, che fosse un nome d’arte. Invece incarna tutta la “teatralità” siciliana, quella pomposità aulica che ci conduce per mano in altri mondi, in altri antri sconosciuti, o soltanto un po’ in penombra, dimenticati in un angolo della nostra memoria collettiva. Dici Tindaro e mi appaiono pupi alti e dalle cromature altisonanti e dagli scudi lucenti e squillanti e lucidi da abbagliare in battaglie all’ultima spada, all’ultimo elmo preso a picconate. Dici Granata e l’odore della granita arriva immediato, l’orzata tracannata fredda s’illumina come un’insegna di Taormina. Chiunque lo ha conosciuto o ci si sia imbattuto, anche soltanto per una sera, nel dopo spettacolo, racconta della sua dolcezza. Una calma placida olimpica che non scema, che non è una posa, che non è di maniera. Qui, nel “porto di mare” in piena campagna della Casa di Aurora Aru, ha cucinato con la grazia di una mamma, la gentilezza, il tocco lieve.
Quattro anni fa fece clamore il suo “Antropolaroid” (titolo azzeccatissimo, Premio Anct, arrivato a centocinquanta repliche, due qui a Soleminis), fotografia personalissima e seppiata del suo albero genealogico, della sua sofferenza, privata, intima, in un contesto che non capiva le sue scelte, di vita e artistiche. Sentirsi Calimero nella provincia siciliana da una parte abbatte, dall’altra fortifica. Ma Tindaro non ha scorza, non ha armature inspessite dalla diffidenza. La sua arma è il sorriso, la delicatezza e affabilità che riesce a mettere in ogni gesto, anche il più piccolo, in ogni azione, anche la più semplice e insignificante. Poi con “Invidiatemi come io ho invidiato voi”, dove oltre alla regia si ritagliò un piccolo e quanto ingenuo quanto impotente e feroce ruolo, ha messo in mostra le sue doti di stabilizzatore dell’inganno e della poesia che ogni storia trattiene, che ogni vita, seppur alla deriva, contiene e rilascia, liquidi impastati di speranza e distruzione.
Poi è arrivata la brutta parentesi con il testo di “Il libro del buio” di Tahar Ben Jallum, provato per oltre un anno, e che poi alla fine è saltato per motivi legati alla concessione dei diritti d’autore, una produzione Atir che doveva andare in scena per la regia di Serena Sinigaglia: “Per tre mesi non mi sono fatto la barba, ce l’avevo lunghissima. La storia è bellissima: racconta di questi cinquantotto giovani militari, tra i venti e i ventisette anni, che nel ’71 in Marocco progettarono un colpo di Stato contro il Re, e, una volta scoperti, furono incarcerati per oltre venti anni ognuno in una cella di un metro per un metro, tenuti a legumi e pane secco. Per non soccombere e non impazzire il protagonista ha dovuto imparare a non odiare, se avesse cominciato ad odiare sarebbe morto. Sono sopravvissuti in quattro”.
Il nuovo progetto invece si chiama “Geppetto e Geppetto” storia di due papà che vogliono avere un bambino e lo adottano: “La prima lettura pubblica è stata fatta per la rassegna romana “Il Garofano verde” di Rodolfo Di Giammarco a settembre e poi debutterà nel 2016. Avevo bisogno e voglia di parlare e analizzare il tema della genitorialità, molto discusso e controverso. Volevo vedere che cosa accade in un bambino che è adottato da una famiglia monogenitoriale. E’ diviso in due parti; nella prima i due papà sono invasi da speranze, gioie e angosce, nella seconda invece troviamo il bimbo cresciuto e che ormai ha trent’anni ed è rimasto soltanto con uno dei due padri. Mi sono chiesto quanto sia legittimo essere padri a tutti i costi. Ho incontrato quattro Famiglie Arcobaleno, tutte composte da coppie di donne. Il tema è complicato. Mi piacciono le sfide ostiche, impervie”. Come lo è raccontare la propria autobiografia, come lo è affrontare un caso di cronaca di pedofilia. Le scelte facili non gli interessano.
Tommaso Chimenti 20/12/2015
Da Camilleri, la storia millenaria di chi non si arrende alle prevaricazioni
“Un posto ci sarà per questa solitudine perché mi sento così inutile davanti alla realtà. Un posto ci sarà, fatto di lava e sole dove la gente sa che è ora di cambiare” (Pino Daniele, “Sicily”)
Montalcino terra di grandi vini, corposi e superbi. Qui, però, sembra che conti soltanto il nettare degli dei, visto che due anni fa è caduto il tetto del Teatro degli Astrusi e non si sono trovati dei finanziamenti necessari per far sì che l'attività riprendesse regolarmente. Il teatro, affidato alla direzione artistica del regista romano, ma trapiantato a Chianciano, Manfredi Rutelli, è stato spostato in una sala del palazzo comunale, riesce comunque, con fatica ma orgogliosamente, a portare quest'anno nel basso senese, tra gli altri, attori importanti come Silvia Frasson (passata da Stefano Massini e Arca Azzurra), Andrea Kaemmerle, animatore di “Utopia del Buongusto”, Simone Cristicchi, oltre alla sua nuova produzione “Il paese più sportivo del mondo” (il 7 febbraio). Si è passati dai 180 posti del teatro all'italiana ai 70 dell'odierna sistemazione provvisoria. Ma, si sa, come le cose in Italia da temporanee diventino immutabili nei decenni. Che duecento produttori di un vino così importante in tutto il mondo non riescano a trovare pochi spiccioli, per i loro fatturati, per rimettere in sesto il teatro e portare accanto al vino anche quelle storie, quella cultura raccontata che passa di bocca in bocca, che migliora la qualità della vita del paese e dei dintorni. Con un piccolo investimento farebbero del bene alla comunità, all'immagine del vino, restituendo alla collettività una cifra infinitesimale dei loro meritati introiti, e ai tanti turisti che affollano in qualsiasi stagione queste crete, queste colline, queste cantine.
Parlare del passato, di un retaggio arcaico pieno di figure magiche ed epiche, per raccontare, tra metafore e leggende, l'oggi. Tentativo andato a buon fine questo “Il Re di Girgenti” (produzione EmmeA' Teatro), dall'inchiostro del romanzo di Andrea Camilleri fino alla scena, intrisa di musica da stornellatore-aedo, la chitarra di Fabio Monti, e i pupi-marionette a filo sospesi ad una sorta di pianola, che sembrano gli impiccati della famiglia Pazzi, governati da Massimo Schuster (nato artisticamente nei Bread & Puppet, oltre che fotografo) che si accompagna ad una piccola arpa irlandese. Barbe folte a confronto. Del primo nel tempo abbiamo visto “Lampedusa è uno spiffero”, del secondo “Western”. Uno strano incrocio, il primo catanese, il secondo lombardo-francese, lontananze che si toccano in un siciliano italianizzato che dona al racconto orale, di battaglie e vendette, di tradimenti e scontri, il sale dell'atmosfera brigantesca da una parte, di rivalsa, rivoluzione, riscossa dall'altra.
Come molti spettacoli teatrali, nati attorno ai festeggiamenti per i 150 anni dall'Unità d'Italia, scritti e messi in piedi da compagnie e autori provenienti dalle regioni del Sud Italia, sottolinearono quell'annessione non come una liberazione ma una vera e propria guerra per accaparrarsi le risorse del Regno delle Due Sicilie. Così, anche in questo “Re di Girgenti” (è il nome antico della città di Agrigento), mitico e complicato come il Mahabharata, si può risalire e ritrovare un'idea non di vendetta ma di rivincita, con echi che ci portano direttamente nelle pagine di Sciascia come alle battaglie di Falcone e Borsellino passando per Caponnetto. Da una parte gli ultimi, i contadini ignoranti relegati alla povertà e ad essere sottomessi, dall'altra il clero e l'esercito a sostegno dei privilegi dei nobili: il rosso e il nero.
I poveri siciliani schiacciati prima dai sabaudi, poi dagli spagnoli, marionette governate da burattinai stranieri senza scrupoli. Il “nostro”, il contadino Zosimo, figura a cavallo tra Masaniello, Garibaldi e Che Guevara (poi avrà sentori e scie da Conte di Montecristo o Silvio Pellico o ancora da Khaled Hosseini, l'autore de “Il cacciatore di aquiloni”), è lo scudiero cristologico che si fa portavoce della protesta che si leva dal basso, quella voce per troppo tempo silenziata che adesso sgorga alta e sfocia in un urlo, grido di battaglia che risuona in “pane, lavoro e libertà”. Da una parte la fatica e la siccità, la carestia e la fame, dall'altra i soprusi fatti patire e scontare. E' Davide contro Golia: qui mancherà l'happy end. Uno sta in campo, in piedi a manovrare i suoi piccoli personaggi (il cumulo dei pupazzetti elettrizza di brividi richiamando immagini nefaste come quelle delle “colline”-fosse comuni provocate dai Khmer rossi in Cambogia), e l'altro “in panchina” suona e stornella, arpeggia e gorgheggia (un Monti modugnesco), si danno il cambio, si accompagnano, si sostengono, il canto aiuta il cunto e viceversa. C'è una rassegnazione zen in questi personaggi sconfitti che nonostante la perdita e l'impotenza e la morte, sanno in cuor loro di essere stati dalla parte giusta senza temere, così, la fine preannunciata. Hanno dimostrato che bisogna continuare a credere e sperare anche se la conclusione è scritta, e che non bisogna mai arrendersi anche se il risultato è già scritto. “Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”, ci ha ammonito Paolo Borsellino.
Visto al Teatro Astrusi Off, Montalcino, il 7 dicembre 2015.
Tommaso Chimenti 10/12/2015
Le lettere senza risposta dall’inferno della guerra
“Se i miei soldati cominciassero a pensare, nessuno rimarrebbe nelle mie file” (Federico II di Prussia)
“In pace i figli seppelliscono i padri, in guerra sono invece i padri a seppellire i figli” (Erodoto)
“I pazzi non sono in grado di superare la visita di leva, ma sono capaci di fare una guerra” (Ninus Nestorovic)
Parlando di guerra si rischia sempre di scivolare sul noto, sul già detto e letto. Termini, situazioni, atmosfere hanno il sapore del deja vù. E non potrebbe essere altrimenti. Anno di commemorazioni e ricordi questo 2015 a cento anni dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale, una carneficina di innocenti mandati a morire in mezza Europa al grido di non si sa quale unità nazionale. Sul sangue sono fondati gli Stati e i confini, le frontiere e le dogane, i passaporti e le lingue. Anche in tempi di Schengen, oggi più che mai, siamo sempre più in “Trincea”, quel buco, quella lingua scavata nella roccia e nel muschio, nel fango e nella polvere, che è limite e rifugio, ma anche luogo senza via d'uscita, chiusi ad attendere la mossa dell'altro, là davanti a te, nella tua stessa situazione, militare e psicologica, ad aspettare un movimento fallace dell'altro, per scannarsi nel bel mezzo di un niente, di un campo brullo, di una brughiera che non si trova nemmeno sulle carte geografiche, a combattere un avversario che non sappiamo nemmeno il perché, un nemico uguale a noi.
In questa guerra dei pezzenti, in quest'onta lavata con il sangue di poveri cristi, siamo tutti soldati semplici, nel brivido che Marco Baliani (con Ascanio Celestini e Marco Paolini i top dell'oralità a teatro) riesce a trasferire, scarno, compresso, umiliato, svuotato, depredato, carne da macello, carne da cannone pronta per essere tritata, deglutita, digerita, evacuata, espulsa, fino al prossimo boccone. Lo chiamano “Milite ignoto” (il titolo di un altro recente spettacolo teatrale, di Mario Perrotta), che vuol dire tutto e niente, che spersonalizza e lo rende supremo e aulico, lontano, quasi da non vederne i contorni, il sangue e la sofferenza, che è stata piccola e sudicia, umana e schifata, senza dignità. Il soldato maciullato aveva nome e cognome, una casa, una famiglia, un campo da coltivare, sogni, ambizioni, un amore, figli. Tutto inglobato, cancellato, distrutto, dissoluto da quell'aggettivo “ignoto”, che racchiude sì tutti i soldati ma li rende pappa per i libri di storia, annullando le differenze, rendendo tutti uguali davanti alla morte, neanche meritevoli di un nome su una lapide, di un'incisione sulla tomba, di un'iscrizione.
Dietro Baliani si apre e si figura una scena fatta da proiezioni che ci consegnano foreste di pioppi dove è impossibile trovare riparo o fango in abbondanza o bombe lanciate a grappolo. Esce da una botola con la schiavitù e il dolore di ossa da troppo tempo costernate, movimenti negati, che sono libertà di pensiero e d'azione, schiacciati in angoli per cause morali alte e inaccessibili e incomprensibili. Siamo nel 1915 ma potremmo essere in Vietnam o nell'ex Jugoslavia (ricorda il sontuoso “No man's land”), potrebbe essere la Cecenia, il Ruanda o la Siria. La guerra è, ad ogni latitudine, geografica o temporale, fetore e pidocchi, topi e malattie, fame e sete in questo “tempo impantanato” dove non riesci più a ricordarti “com'era la vita di prima” tra bombardamenti e cecchini ed i bisogni fisiologici fatti addosso ai vivi come ai morti, l'acido di quest'Inferno in terra che non ha fine (come già “Namur” di Antonio Tarantino ha saputo meravigliosamente riportare).
Baliani (nella scorsa stagione protagonista di un altro meraviglioso testo antibellico “Johnny prese il fucile”, prima romanzo di Dalton Trumbo, poi diventato pellicola, in versione radiofonica) è tutti i soldati che scrivono le lettere a casa dove raccontano quello che vorrebbero sentirsi dire mamme e fidanzate (e qui cadiamo con tutte le scarpe nell'“Italiani cincali” sempre di Perrotta) dove si spiega che va tutto bene, che andrà tutto bene, che saranno presto di ritorno e soprattutto sani e salvi. Le parole onore, coraggio, patria, valore, sono svuotate di senso. “Sparagli Piero sparagli ora” sembra essere il grido, l'Urlo di Munch, il motto d'ordinanza per arrivare a domani in questo buco che non è salvezza ma è già bara e feretro. Sono fantocci e burattini e Pinocchi legati e manovrati dai fili invisibili dei militari e della politica che sul sangue costruisce nazioni e ingrossa banche in questa mattanza senza senso, in questa tonnara dove “nessun posto è al sicuro” e le preghiere si fondono alle bestemmie, i lamenti al pianto e tutto è inghiottito dalle bombe, dalle granate, dagli scoppi, dai pezzi di corpi espansi e spappolati, esplosi e implosi in uno schizzo continuo pollockiano, bruciati come tele di Burri, tagliati come quadri di Fontana.
Sullo sfondo la disperazione e l'impotenza che già il bel “Roccu u stortu” con Fulvio Cauteruccio seppe ben far emergere e rappresentare. Una guerra sgangherata e amatoriale, dilettantesca e artigianale come le nostre valigie chiuse con lo spago per attraversare l'America. “Gli italiani perdono le guerre come fossero partite di calcio e giocano le partite di calcio come fossero guerre”, obiettava con sarcasmo Winston Churchill. E' complicato raccontare la guerra ma è ancora necessario. Sempre più. E viene in mente il “Generale” di Francesco De Gregori. Così come, per un altro verso, lo splendido “Nella tana” da Kafka di Luigi Lo Cascio. Illuminante rimane il “Disertore” di Boris Vian: “…se servirà del sangue ad ogni costo, andate a dare il vostro se vi divertirà, e dica pure ai suoi se vengono a cercarmi che possono spararmi, io armi non ne ho”. A(r)miamoci e pa(r)tite.
Visto al Festival “Orizzonti Verticali” di San Gimignano, Siena.
Foto: Marco Parollo
Tommaso Chimenti 08/12/2015
Libro della settimana
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“Il manifesto di un eretico”: l’ultimo libro di Brendan O’Neill sulle nuove ortodossie della nostra epoca
Nelle librerie dal 15 maggio per Liberilibri, Il manifesto di un eretico. Saggi sull’indicibile è il nuovo libro del giornalista inglese Brendan O’Neill, caporedattore politico…