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FIRENZE – “Se fossi un po più gay di quello che sono, mi farebbe piacere essere accarezzato dalla volée di McEnroe” (Gianni Clerici)
Da una parte c'è un muro inflessibile che si fortifica se si sente minimamente attaccato nelle sue certezze. Dall'altra la flessibilità, la possibilità. Da una parte la rigidità omologata, dall'altra la paura di essere giudicati. Da una parte c'è il seguire la corrente, quell'incasellarsi, quell'ingolfare la fila del “perché si fa così”, dall'altro un'indipendenza autonoma velata di ipocrisia per non farsi scoprire. Come davanti a uno specchio, la rete da superare, i nostri due tennisti si guardano, si studiano, si confrontano, vedendo le proprie mosse riflesse nell'altro. Una patina di leggero divertimento e un cuneo di profondo pensiero, come montagne russe, avvolge e spinge “Le regole del giuoco del tennis” (prod. Nuovo Teatro Sanità di Napoli) scritto da Mario Gelardi. I nostri due atleti non giocano contro ma stanno dalla stessa parte del campo in un doppio sotto rete. Sembrano dissimili, diversi l'uno dall'altro, lontanissimi. E in uno spirito cameratesco, di confessioni machiste e tennis1conquiste femminili il muro del non detto cade, le indicibili vergogne vengono abbattute, la coltre delle bugie si dissolve tra un lob e un passante da fondo campo.
Lo sport, lo sappiamo, è metafora della vita: c'è l'avversario da battere, un ostacolo da oltrepassare. Avversario e ostacolo, la maggior parte delle volte, siamo noi stessi. “Le regole” è l'affresco del nostro mondo, della nostra società, dove tutto pare certo e fermo, spiegabile con termini altisonanti, studi scientifici, documenti con linguaggio tecnico nella massima comprensione e spiegazione possibile: o stai di qua o stai di là. Tutto è semplice, se la vita fosse un manuale, una scienza esatta. Ma è all'interno delle regole dure e inflessibili che si aprono le possibilità delle sfumature, di tutti i grigi (noi, gli uomini) che stanno, vivono, soffrono, si muovono tra il bianco e il nero, i dogmi. Siamo tutti sbagliati proprio perché lontani anni luce dalla perfezione, per questo siamo tutti uguali, ognuno con le proprie scelte, tutte plausibili e con lo stesso grado di dignità.
Questi due amici (Carlo Geltrude e Riccardo Ciccarelli si combinano, si incastrano a meraviglia, opposti che si attraggono) si trovano, sembra casualmente ma evidentemente l'argomento pungolava e faceva capolino da tempo, ad affrontare il tema dell'omosessualità in un'altalena ironica e sentita dove sul piatto prima appare l'amicizia, poi la sincerità infine il sentimento. Ed è più facile accodarsi a un pensiero, sentendo di non essere soli, che per primi alzare la mano, avendo paura di non essere accolti, accettati ma anzi emarginati e rifiutati, scartati, messi all'angolo, in croce, in castigo.
Gli scambi tennistici (anche sudati, ci ha ricordato in questo “La maratona di NY” di Edoardo Erba), intervallati ora da liti e confessioni come dall'elencazione formale (“dura lex sed lex”) dei codici contenuti nella normativa che regola il play di racchetta e palle (anche qui, se vogliamo, un riferimento fallico), diventano ben presto coreografie sgrammaticate, balli di gruppi tennis2con velocizzazioni o rallentie dove i due caratteri stereotipati tratteggiati dei protagonisti (il single e il fidanzato, l'ignorante e l'universitario, il cinema sparatutto e il musical, quello alla moda e agiato, l'altro disoccupato, l'uno di mentalità aperta l'altro conservatore) si scontrano e si uniscono, si allontanano e si avvicinano, si repellono e respingono, si prendono e si dondolano, si spingono e si accolgono in una continua unione e lontananza, ricerca del contatto e dell'abbraccio geloso e rifiuto dell'idea di provare qualcosa per qualcuno del nostro stesso sesso.
Volteggiano di passi di valzer viennesi (la regia di Carlo Caracciolo è colorata e armoniosa nel suo impianto semplice e scarno ma fresco e agile come un ace), su punte da scarpe da ginnastica sgraziati “Sul bel Danubio Blu” come fossero Romeo e Giulietta o La Bella e la Bestia, Rapunzel o Biancaneve o La Bella Addormentata e il Principe, ma anche come Braccio di Ferro e Bruto (la canzone omonima di Samuele Bersani è in questo illuminante), o ancora Patroclo e Achille o Batman e Robin. “Le regole” ci dice di non aver paura e che le regole, nella vita, non esistono, o meglio, devono essere fatte proprie perché se vivessimo seguendo alla lettera le regole saremmo degli automi noiosi, invece siamo uomini e donne con le nostre fragilità e debolezze, lontani da una perfezione che in Natura non esiste. La frase: “A volte basta un fallo e la partita si riapre”.

Visto al Teatro delle Spiagge, Firenze, il 17 maggio 2016

Tommaso Chimenti 18/05/2016

GENOVA – Riprendendo la tradizione genovese degli spettacoli disposti in grandi spazi scenici, del teatro fuori dal teatro come quelli ancora negli occhi della gente, dalla Diga Foranea al Vecchio acquedotto, dal Forte Sperone alla Fiumara Ansaldo, questo “Orfeo rave” (ci ha ricordato per acume e complessità, per cromatismi e stratificazioni, per stupore e monumentalità alcune evoluzioni de La Fura dels Baus) è al tempo stesso esperimento riuscito (e non era affatto scontato all'interno della Fiera del Mare, adesso commissariata ed in procedura di fallimento, un tentativo questo di “restituirla” alla città) mastodontico, gigantesco, cantiere di idee sciolte in azioni concrete, enorme, colossale viaggio (cinquecento persone spostate e trasportate all'interno del Padiglione Blu) dentro le prove, gli esami, i retaggi, gli ostacoli, titanica esperienza, imponente messaggio al teatro italiano: si può fare. Le idee raffinate e pop di Michela Lucenti (una voce suadente e stupefacente, sublime e strabiliante), del suo Balletto Civile, e di Emanuele Conte, fuse insieme e annodate e impastate hanno dato vita e linfa ad una entusiastica, enfatica, eccentrica, eccitante Odissea titanica rock e poetica, trasognante e coloratissima nelle viscere dei nostri sentimenti più nascosti.orfeo2
Ad ogni scena come scendere un gradino nell'abisso nero dei pensieri, a domandarci sulla vita e sull'amore, sul senso di un rito collettivo che, candele accese e piedi a scalpicciare e panche da chiesa e impalcature a riempire la visuale, costringeva a mettersi, fisicamente e mentalmente, dentro il mito di Orfeo, tutti noi camminatori spavaldi nelle viscere, nel budello dell'antichità, dell'ancestralità delle nostre paure. Prendere e tenere o fuggire e scappare, salvarsi oggi o salvarsi per sempre. Piccoli, fragili, inutili gli uomini davanti al destino degli Dei, del mondo, dell'universo, del Fato che puntualmente li schiaccia, li ridicolizza, li tratta per ciò che sono.
Camminiamo ammassati, gomito a gomito in questa chiesa laica di cemento e colonne squadrate ruvide che a passarci i polpastrelli si rigano e se ne sente il fresco. Siamo dannati danteschi in attesa della punizione, della visione, della scoperta, bambini dentro il Luna Park, dentro il tunnel degli orrori, salvifico ed esorcizzante. I teli di plastica che volano e fluttuano coprono e celano le scene che verranno e ci sono narratori, Ciceroni e Caronti e Cerberi, ad indicarci la strada per riveder le stelle e facciamo zig zag tra cavi e tubi, acciaio e graticce, ferro e travi che affascinano con la loro portata di archeologia industriale qui ormai svuotata e depressa e arida della sua funzione principale. Siamo stipati nella nostra processione, in questo cupo andare senza apparente meta le impalcature ci appaiono come piramidi, oasi nel deserto, gli attori ci strisciano addosso, intorno, come insetti, come ragni, come millepiedi viscidi sgattaiolano furtivi e lascivi, sottili e brulicanti come zombie di cerone e pelli da caprone in un impianto estetico che ci rimanda ad un'iconografia di mistero e dannazione, di leggende e biblici racconti.
E' un viaggio quello di Orfeo diviso tra il partire e il tornare, un “essere o non essere” alla ricerca di Euridice da una parte, di se stesso dall'altra. “Gli uomini temono più l'amore della morte” è il canto dolente, “E così si persero per paura di perdersi” è la fuga continua dei guerrieri forti con le lance meno a giostrare con i propri sentimenti senza risultarne schiacciati. E passa il rap orfeo1e l'hip hop mentre Euridice ci somiglia sempre più a Ofelia e Apollo è un azteco, e scorre la techno e la latina, la gitana e i corpi si fanno dorati, i cappelli a cilindro, le paillette e i boa di struzzo insieme alle lamiere in un immaginario che deborda di segni, e arriva il musical. Sottolineiamo la scena dove Aristeo (Maurizio Camilli, esperto, pieno, corposo) ci racconta seduto su un barile sospeso, nei suoi abiti sporchi e cappello verde il tentativo di stupro ai danni di Euridice, azione che la porta ad essere morsa dal serpente, suo viatico per l'Inferno; impossibile non rivederci Massimo Bossetti ed il caso di Yara Gambirasio. O quella dove Ade e compagna (Enrico Campanati eclettico, incantevole e brillante), anziani annoiati sul divano, rievocano il momento quando accolsero il giovane e noi lì davanti diventiamo la giuria popolare di un talk o di un reality televisivo.
La domanda di fondo continua nei secoli a rimbalzare e tuttora a far eco: perché Orfeo si è voltato a guardare Euridice prima di essere uscito se sapeva che questo suo comportamento avrebbe incenerito l'amata? Perché non voleva riportarla davvero in vita o per la paura di riaverla per poi, è il corso della Natura, riperderla nuovamente? Si è voltato per egoismo o perché credeva di essere ingannato dagli Dei che mai gli avrebbero concesso il privilegio di far uscire Euridice dall'oltretomba o perché scendere agli Inferi era più una sfida personale, ormai vinta, un capriccio più che una reale volontà di riportare in vita la compagna? “Si vede bene solo con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”, Antoine de Saint-Exupéry.

Orfeo Rave, produzione Teatro della Tosse. Fiera del Mare, Genova, dal 7 all'11 maggio 2016

Tommaso Chimenti 16/05/2016

Nell'ultima foto: Maurizio Camilli

Sabato, 07 Maggio 2016 14:52

Resoconto Premio corti shakespeariani

FIRENZE – Shakespeare lo puoi sezionare e dividere, stralciare e tranciare, farlo a brandelli e prenderlo a pezzi, a morsi, a forbiciate e rimangono sempre versi e atmosfere di altissime vette. Smembrandolo non si perde niente della potenza e dell'aroma che sgorga, della facilità e della felicità, dell'ascolto pieno e del lasciarsi andare. Non a caso dopo 400 anni dalla sua morte siamo ancora qui a vivisezionare tra le righe, tra le pieghe il detto e il non-detto, il certo e il dubbioso, e ogni interrogativo, ogni punto di domanda apre nuove infinite chiavi di letture e porte, nuovi rimandi e parentesi.
Nelle tante celebrazioni shakespeariane (perché festeggiare la morte e non la nascita?), che tra l'altro la ricorrenza del 23.04.1616 lo accomuna ad un altro grandissimo della letteratura mondiale, Miguel Cervantes (gli eventi legati all'autore del “Don Chisciotte” da noi, comunque terra latina, latitano se non proprio sono ridotti al minimo), ha trovato una giusta casa l'idea del Teatro dell'Antella di far declinare il Bardo in tanti corti teatrali-esperimenti, lasciando massima libertà sulla maniera di affrontarlo.
Una rassegna corposa questo “Visioni shakespeariane” (direttore artistico l'attore Simone Rovida; va avanti fino al 19 giugno) che ha avuto la sua punta nella finale del concorso dei corti, al massimo della durata di quindici minuti, per declinare il loro Shakespeare nella forma e nelle modalità che, singoli e compagnie, sentono più vicino al loro modo di intendere il teatro. E allora, tra gli otto selezionati per la serata conclusiva (il primo classificato ha vinto la possibilità di una residenza artistica di dieci giorni per affinare una produzione che poi entrerà nel cartellone ufficiale della prossima stagione del teatro diretto da Riccardo Massai) abbiamo visto il muto e il brillante, il monologo come l'ensemble, il drammatico e tragico con il brillante e scanzonato. Shakespeare è sostanza e materia ma anche pretesto e scusa, è soffio di piuma e incudine, è nuvola e fango, poesia e sangue, è per questo che continua a toccare le nostre bassezze e le nostre speranze, il nostro “guscio di noce” e il nostro “spazio infinito”.
Partendo dal vincitore (in giuria Erriquez, il cantante del gruppo Bandabardò, lo scrittore noir Marco Vichi, il professore universitario Alessandro Serpieri), il milanese Christian Gallucci, con il suo “Martin Luther King lo faceva meglio”, trova il suo incipit nel monologo, abusato e travisato nel tempo, dell'“Essere o non essere” che diventa passepartout ed escamotage per raccontare la vita faticosa dell'attore con i sogni e le aspettative che si scontrano con la realtà fatta di lavori duri e ritagli di tempo da dedicare alla realizzazione delle proprie aspirazioni, del fare della loro passione-bisogno un lavoro retribuito, il tutto in chiave leggera e ironica, sul non mollare e insistere, puntando con veemenza sull'“essere”, accantonando, fin quando non suonerà la campana, il “non essere” in un angolo ad ammonirci certo della fine senza che questo diventi cappio e asfissia o paura che blocca.
Al secondo posto Roberta Sabatini è stata un'intensa “Gertrude” (testo di pathos quello di Andrea Mitri), calice di vino rosso e occhi dritti senza paura, una madre contemporanea che parla, senza sentimentalismo né mielosità, al figlio, quell'Amleto che adesso la odia ma verso il quale lei rivendica un amore sconfinato e che continua a proteggere, come leonessa con i cuccioli, con vigore e resistenza dagli attacchi esterni, una madre parafulmine che si addossa le colpe per salvare il suo bene più prezioso, il frutto del suo ventre.
Chiude il podio il “Shake Ofelia” di Fulvio Pera, con Chiara Salvucci che qui è la figlia di Polonio, incerta e indecisa, ma non così vuota e priva di volontà come molte volte ce l'hanno rappresentata. Un'Ofelia di oggi, con smartphone, un'Ofelia che lavora per la famiglia Macbeth, che sta al telefono con Iago, che, mentre aspetta nell'attesa infinita Amleto, legge “Romeo e Giulietta”. Con forza e decisione questa ragazza prende in mano la propria vita e tenta, contro la sorte o la sfortuna, di non farsi schiacciare da quelle che al momento le sembrano pesi insormontabili e insopportabili. Perché c'è sempre una via d'uscita, c'è sempre un'altra chance.
Segnaliamo qui anche i Bitols con “Piccola avventura di un cuore a Venezia” che, in un impianto da teatrino di giro, in un mercato che ha ricordato a livello di tappeto sonoro la fauna umana e gli olezzi del “Profumo” di Suskind, fanno muovere un coltellaccio-mannaia (che vola portandoci con la memoria alla “Fantasia” disneyana) di un macellaio che taglia, seziona, squarta pezzi di manzo, fino ad arrivare al nocciolo, all'essenza, al cuore pulsante, quella “libbra” che Shylock pretende per la sua usura. Certamente non adatto ai vegani.
L'interessante idea del Teatro dell'Antella è quella, dopo questo primo step shakespeariano, di affrontare ogni anno un autore universale, un classico del teatro, e farlo declinare sempre in forma di corto. Perché il teatro non se la passa così bene, ma è tutt'altro che morto e questa esperienza sta a dimostrare ancora il valore e l'interesse che si muove e vibra attorno alla scena, all'attore, alla magia, alle parole che qualcuno nel silenzio, nel buio, lascia che arrivino ad altri disposti a succhiarle, a prenderle, a respirarle.

Tommaso Chimenti 07/05/2016

ROMA – La gioventù ha tutto il diritto di sbagliare, di prendere decisioni avventate, di buttarsi nel fuoco per ideali arroganti, vestendosi di bandiere presuntuose, indossando vessilli precipitosi. La giovinezza deve essere ingenua, naif, sconclusionata, arruffata, lanciarsi nel fuoco, credere, non obbedire ma combattere, mettersi in prima linea, sfidare gli adulti, i genitori, i professori. La gioventù si sente irrisolta e incompresa e non sa che anche gli altri, quelli che adesso sono pompieri, quelli che temporeggiano e che usano la ragione e il raziocinio, quelli che un giorno erano giovani incendiari. La gioventù si sente invincibile, immortale, con tutta la vita davanti che fa peso e schiaccia, che fa vuoto e arena dove correre senza direzione né meta plausibile. Giovane è questa Antigone (davanti alla quale il regista, e curatore dell'adattamento, Maurizio Panici appone un “Ex”) che lotta e si ribella contro gli anziani, i vecchi, i consigli consumati, la moderazione placida, il buon senso. La sua non è ricerca sfrontata della colpa o della punizione ma sottolineare la sua linea, con coraggio, decisione, senza parsimonia, senza pensare alle conseguenze.
Al classicismo delle parole millenarie del Mito greco tracciato da Sofocle fanno da contraltare i video da una parte e la musica dall'altra che bilanciano il Tempo della Storia, inserendo questa Antigone nel solco di una giovinezza diffusa e trasversale, nella quale riconoscersi perché non ci si sente capiti, non supportati o esclusi dalle teorie degli adulti, delle persone responsabili considerate già morte perché non danzano più in faccia al pericolo, perché temono la perdita (chi teme la perdita è ricattabile), perché pensano troppo e agiscono troppo poco.
Negli inserti filmati scene di guerriglia urbana, di lacrimogeni e idranti, di attentati e cariche della Polizia, esplosioni e risse, derive autoritarie e manganelli, kamikaze e razzi, impastati (una miscela anche troppo “giovanilistica” che strizza l'occhio alle giovani generazioni ma che ha anche il pregio di rendere la vicenda commestibile e masticabile e vicina ai ragazzi) con le parole di Sarah Kane e ora Jhonny Cash, adesso Lou Reed per un composto finale molto “contemporaneo”.
Antigone (Valentina Carli ancora acerba, a tratti lascia andare le parole senza crederci, schiacciata dal poderoso personaggio maschile) ha ricevuto il ferreo divieto di andare a seppellire il fratello Polinice, pena la morte. La minaccia non la blocca, non ha paura della morte, si sente coerente e ferma, non cede, non rinuncia alle sue intenzioni, non fa un passo indietro come le chiede e le ordina di fare l'ora paradossalmente impotente Creonte (energico e irruento lo stesso Panici, vitale e baritonale, d'impatto e presenza fisica che riempie di voce e corpo la piccola scena calda dell'Argot trasteverino, che produce la piece).
La ragazza si sente sostenuta dalla Giustizia e non si mette a pensare se il suo sacrificio sia utile, se porti a qualcosa, se sia evitabile, ma sente che deve agire, che non può rimanere nello stallo, nel limbo, nel rimpianto di non aver dato degna sepoltura al fratello. Si immola ma senza alcuna vittoria futura, già sapendo che non otterrà niente con il suo gesto fine a se stesso, che non cambierà l'esito, il destino, l'andamento delle cose. Antigone combatte per la propria libertà, perché sente che la sua vita, senza quel gesto, non ha senso di essere vissuta, fa d'istinto l'unica cosa che le viene da fare, contro tutto, contro tutti, contro qualsiasi razionalità, già sapendo nel fallimento, nella sconfitta, nella condanna. Sa di non avere speranza di successo ma lo stesso si lancia nell'impresa, sa che nessun fattore è a suo favore ma, nonostante questo, non accetta di vivere nell'infamia, nell'ombra di un crimine, assecondandolo con il suo silenzio, facendosene complice con il proprio mutismo.
“Gli eroi son tutti giovani e belli”, diceva il pasionario Guccini. Ma giovani erano, e lo rimarranno per sempre, i partigiani, Giulio Regeni, Peppino Impastato e Giancarlo Siani, e mille altri volti e nomi sconosciuti. Guai a chi li chiama “gioventù bruciata”. Farsi ardere dall'adolescenza è la scelta di vivere da leoni invece che soccombere da agnelli.

Visto al Teatro Argot Studio, Roma, il 21 aprile 2016.

Tommaso Chimenti 26/04/2016

FIRENZE – Due sono i binari che Alessandro Riccio continua con tenacia e testardaggine a perseguire fortemente: da un lato il lavorare, il far ragionare e riflettere sulle diversità, dall'altro l'uso dell'ironia, anche della risata a tratti grassa altre lieve e fine, per far passare temi ingombranti, argomenti che se affrontati in maniera differente risulterebbero pesanti come macigni ma che declinati sul quotidiano, sul leggero, arrivano, magicamente e paradossalmente, ancora più in profondità, radicandosi, trovando appoggio e inserendosi in un discorso più ampio di integrazione, socialità, condivisione. Anche questo suo ultimo “Roba da duri” (continua l'alleanza artistica con il Teatro di Rifredi dove ha debuttato) non fa eccezione. Riccio è uno di quelli che produce, prova, sperimenta, in un assiduo frullare di idee, di costumi, di soluzioni, di interrogativi con la costante del colore, dell'invenzione, dell'inventiva che si trasforma in invettiva, ma mai lamentosa o rancorosa, cercando sempre il lato pop e lucente, sorridente e gradevole dell'esistenza.
Un ambiente che ricorda per certi versi, la numerosità degli oggetti, l'accatastarsi delle cose, la bulimia che ingolfa la vista, questo riempire la scena, un suo precedente cult “La meccanica dell'amore”. Anche qui la materialità, il numero, l'ingombro sembrano far da contraltare e da sostegno alla mancanza di sensibilità o, meglio, a quella parte di noi che rendiamo dura e impermeabile ai sentimenti perché non ammettiamo di avere paura delle nostre emozioni, di sentirci deboli e fragili di fronte alle avversità, di sentirsi naufraghi in un mondo di caterpillar, di persone che ci fanno credere di essere inamovibili, sempre certi e sicuri di se stessi e di ciò che fanno, delle parole che usano, dei concetti che esprimono. Nessuno intorno a noi sembra avere un difetto, un tentennamento, una balbuzie, un vacillamento. Ci sentiamo irrisolti, pecore nere in un gregge perfetto, inadeguati.
La reazione di Ivan (ovviamente Il Terribile) è stata, nel tempo, ornarsi e agghindarsi ad albero di Natale, con tatuaggi, borchie metalliche eccessive, tintinni aggressivi, catene inquietanti, look dark dalla faccia torva, sguardi noir dagli atteggiamenti cattivi, spicci e bruschi, zeppe e abiti in pelle lucente, cresta appuntita da ferirsi a pettinarsi. Un atteggiamento di difesa, chiaramente, per allontanare e proteggersi, per sentirsi diverso, stavolta non emarginato dagli altri, i cosiddetti “normali” (gli impiegatucci, come li chiama lui), ma autoelidersi, autotacciarsi d’indipendenza, di non assoggettarsi ai logo, scegliendo di non uniformarsi alle convenzioni, alle regole, alle leggi; essere diverso come scelta propria e non altrui.
Un duro, anche maleducato e volgare, acido e sboccato, cinico e disilluso, dal cuore fragile e bisognoso d'affetto, nel quale fa breccia (la Porta Pia scorbutica cade rovinosamente e apre speranze) davanti all'ingenuità, all'incoscienza, alla freschezza di un bambino (il bravissimo, sciolto, divertito, naturale e già pronto anche all'improvvisazione e al gioco sul palco, Gianmaria Corona di dieci anni, per la prima volta in scena) il nipote, anche lui in balia delle circostanze della vita che tutti ci rende sbattuti dalle onde: i genitori che si stanno separando, i bulli a scuola che lo prendono in giro perché non sa difendersi, lo chiamano “femminuccia”, gli rubano gli occhiali. Lo zio coriaceo e incattivito, spacciatore e frequentatore di persone poco raccomandabili, si rivede, anche grazie alle favole-metafore di Esopo che il bimbo gli legge, si rivede nelle mosse e movenze, gesti e insicurezze del nipote, ricordandosi di come era, quando aveva sogni e aspettative, di quello che poteva essere e di ciò che non è stato, essenzialmente perché aveva avuto timore nell'affrontare le sue paure e quindi superarle.
Aveva cercato invece di costruirsi una corazza di ferraglia, uno scudo violento di teschi e musica metal punk a volumi insostenibili per stordirsi, credendo che questi potessero allontanare il mostro da sotto il letto, quando il nemico, nella maggior parte delle occasioni, vive e vegeta e si autoalimenta proprio dentro di noi, anzi siamo proprio noi a remarci contro, a non credere nelle nostre possibilità, a non concederci nuove chance, a darci per morti e sconfitti ancor prima di averci provato con tutte le forze. Un testo adatto anche per le scuole perché è in quel delicato passaggio, dalla spensieratezza dell'infanzia ai cambiamenti dell'adolescenza, che si forma e si struttura la donna o l'uomo di domani e l'accettarsi e il relazionarsi con i propri limiti e le proprie debolezze è il primo passo per poter essere, in futuro, adulti che pensano con la propria testa, individui capaci d'amore, d'affetto, di solidarietà. La crescita è un trauma, ma scappare dalle piccole grandi prove che ci pone è solamente un rimandare il problema, farlo aumentare a dismisura, renderlo talmente grande, insormontabile e invincibile che, prima o poi, se non fronteggiato e relativizzato, ci fagociterà.

Visto al Teatro di Rifredi, il 12 aprile 2016.

Tommaso Chimenti 14/04/2016

MILANO – Il titolo è dichiaratamente un omaggio a quelli tragicomici di Lina Wertmuller. E sta proprio qui lo snodo, lo scarto, l'ingranaggio tra il Nanni Moretti citato dalla piece e la regista napoletana presi a modello da due fidanzati trentenni o poco più. Lei gradirebbe un intellettuale contorto, pensoso e aggrovigliato sui massimi sistemi dell'esistenza, della sociologia urbana e dell'antropologia culturale, lui preferirebbe una donna ironica e pungente, senza peli sulla lingua, diretta, forte. In definitiva nessuno dei due realmente vorrebbe, perché non saprebbe gestirli e ne risulterebbero schiacciati, Moretti o la Wertmuller, troppo alti, troppo impegnativi, troppo avanti, troppo oltre le loro umane e misere possibilità di convivenza, di relazione, di scambio emotivo, umorale, sessuale.
Due comuni ragazzi cresciuti, un po' Peter Pan con la testa ancora ai jingle e ai fumetti generazionali, complessati, immersi in paure, fobie più indotte da falsi miti che reali, in quel limbo di postadolescenza infinito che non passa mai tra colorati interessi e frivolezze d'ogni tipo. E' il maschio di turno (e qui si capisce che testo e regia sono di stampo femminile, Livia Ferracchiati, anche se dolce e docile, quasi rassegnata ad avere davanti a sé un eterno bambino) che ne esce peggio, con le ossa rotte, con una descrizione a metà tra un primitivo che non ha coraggio fino in fondo delle proprie azioni, in quel liquido amniotico dove tutto sembra essere plausibile e concesso, in quella parentesi d'infanzia consolatrice, parco giochi dove la mamma è sempre lì al tuo fianco, in un angolo, pronta ad accorrere se l'ometto di casa si sbuccia le ginocchia.
Forse è proprio colpa delle donne, prima le madri e poi le fidanzate, se molti maschi non diventeranno mai uomini e saranno sempre perdonati per le loro scorribande e maldicenze, maleducatezze spicciole o gravi, le loro parole, le loro azioni scoordinate senza temere conseguenze. Questa donna (Chiara Leoncini, troppo comprensiva e indulgente) abbozza tentativi di redimerlo, cede e concede terreno, si scusa, fa finta di niente, rintuzza, ritorna, abbandona il campo della discussione, lo consola, lo ascolta, lo fa sfogare. Il maschio (Fabio Paroni, esagitato e sudato) è insicuro e traballante nelle sue poche certezze da cavernicolo (il possesso della donna come bene personale, la gelosia retroattiva), è rabbioso, abbaiante, sbraitante con la bava alla bocca, digrigna i denti in quella che potrebbe essere l'anticamera di una violenza domestica, aggredisce perché ha paura (e non deve essere in alcun caso una giustificazione).
Una giovane coppia con fondamenta instabili che mette sul piatto tematiche un po' retrò e argomenti di collisione superati, pseudo fratture insanabili, come le dispute di stampo sessuale, che i ragazzi d'oggi, quelli dell'amore liquido e dell'abbattimento della famiglia tradizionale e dell'ambiguità sotto le lenzuola, o hanno bypassato o azzerato o mai considerato come dubbio o problema da sviscerare. In audio passano le giovani voci di Nanni Moretti come di Laura Morante in “Bianca”, con entrambi che hanno costruito le loro vicende e fortune cinematografiche (e forse anche autobiografiche) sull'instabilità e sul tremolio dell'indagine personale, sugli interrogativi esistenziali applicati alle quisquilie e alle virgole, su quel ragionare aggrovigliante sul sesso degli angeli, su quella dissertazione enigmatica e problematica lontana dal contingente, dall'oggi, persa nell'idealismo, nel pensiero, nella dialettica.
La loro casa è un cubo di Rubik in discesa che si compone e si rompe, che si frattura e si riallaccia nelle sue divisioni e segmenti, distanze e ponti. Di fondo è la ricerca della felicità il mestiere più complicato e il cercarlo in due, o grazie all'altro, è esercizio fisico e psicologico ancora più complesso e articolato in questo mondo frazionato (multitasking è più alla moda), individualista e solitario. Si sente e percepisce astio e acredine, desiderio di ammansire e soffocare gli istinti dell'altro in questa casa-arena, abitazione-corrida dove invidia e gelosia si rincorrono, dove la libertà dell'uno (soprattutto del maschio pseudo-alfa) sconfina pericolosamente nello spazio vitale dell'altro, per assoggettarlo, come se fosse un Risiko, castrarlo, metterlo nell'angolo, prostrarlo ai propri voleri. Forse è questo l'amore: da una parte dipendenza, dall'altra patologia. Le frasi: “Se muori prima di me ti ammazzo”, “Per più porca non ti volevo dire di essere Peppa Pig”.

Visto al Teatro Elfo Puccini il 19 marzo 2016

Tommaso Chimenti 21/03/2016

Lunedì, 14 Marzo 2016 15:24

Il buio del Macbeth tra le ombre di Buti

BUTI – Dario Marconcini non è Michael Fassbender. Meno male. Giovanna Daddi non è Marion Cotillard. Meno male. Il “Macbeth”, definito e autodichiarato “Mini” (ma non manca niente, né le atmosfere cupe, né la sostanza, né la cura dei passaggi psicologici all'interno del dramma shakespeariano), ci pone davanti agli occhi i due futuri Re di Scozia invecchiati nei corpi (ci ricordano gli anziani Romeo e Giulietta della prima parte nella trasposizione ammirevole di qualche anno fa di Federico Tiezzi) sempre freschi ed agili e flessibili, dei direttori del Teatro di Buti, in un'operazione senza tempo che ritorna infinita nella carne, che rievoca sembianze e spoglie, odori e struggenti malinconiche visioni. Messo in scena quindici anni fa, ha ancora, e sempre più forse, una carica distruttiva e suadente, acida e affascinante che ti spinge nelle spire segrete e nascoste, nelle piaghe purulente, nelle pieghe ombrose, nei meandri reconditi dei nostri incubi e sogni malcelati. “Ci sono due grandi tragedie nella vita. La prima è desiderare ciò che non si può avere, la seconda è ottenerla”, sentenziava Oscar Wilde, cinico ma pur sempre rigoroso nel delineare le derive del carattere umano.
Un tavolo solido e dalle gambe forti coperto di foglie secche fa da unione e ponte levatoio come da varco e vincolo ma anche distanza e passaggio, mano tesa aspettando quella dell'altro e allontanamento, spazio, lunghezza e incapacità, condivisione e lacerazione. I piccoli ammennicoli e componenti, le ciotole da incendiarci dentro lettere e ordini indicibili, martelletti da suoni gravi e campanelle acute in uno spazio scenico a stretto contatto portano a fare della platea (siamo in quaranta sul palco) gli astanti e attoniti cavalieri e dame, principi e baroni del regno, pericolosamente traballanti naufraghi nelle onde dei cambiamenti umorali del Re, assorbito e prostrato dalle sue stesse azioni, dal Male che lo ha prima pervaso e adesso fagocitato. E' un re dinoccolato e depresso questo che incarna con voracità Marconcini, nel suo maglione largo e lungo che sa di campo di battaglia marrone fango e paludi e sabbie mobili dell'anima, un re ramingo che cerca appoggio e soluzioni, approdo dentro il riparo di questa regina-madre, porto dove tutto scorre, tra onde di sangue, ma placidamente.
Salgono e scendono dal tavolo con grazia e disinvoltura l'erotica e lussuriosa Daddi, ora strega sulla sua scopa volante, e Marconcini, Pinocchio che felicemente si fa manovrare dal suo burattinaio, in un vortice di amore e perdizione, di sudditanza e disperato bisogno dell'altro, come serpenti si avvinghiano per amarsi e mordersi, mente e braccio sono una perfetta e organizzata macchina da guerra, caterpillar verso la realizzazione del loro sogno, nell'inscindibile intruglio tra sesso e potere. Ci richiamano vicende più spicciole della nostra cronaca nefasta recente, da Erika ed Omar a Novi Ligure fino a Olindo e Rosa di Erba.
E' un teatro povero il loro, ancestrale come la maschera che arriva direttamente da Bali, vicino e consunto come cuoio poroso nel quale senti la frange e le ruvidezze, lo scorrere dei polpastrelli sul granuloso, un teatro fatto di mistero e fitto di ombre che si ammassano sui teli bianchi intorno e si affacciano a mostrarci i denti e a sondare i nostri buchi neri, a cercare rima con le nostre possibilità, incertezze, prese di coscienza.
Sopra e sotto il tavolo è un gioco leggero e scenicamente felice a rincorrersi, a prendersi, attrazione e repulsione, caldo e freddo ad elastico che prima si tende e poi, per forza, ritorna, rientra, si ritira per poi riaprirsi. Lady Macbeth lucida, molto Cleopatra, qui è ancora di più incantatrice di serpi, macchinatrice che ordisce subdola, cucina dubbi e ripensamenti, scalcia e fa slalom tra i chiaro scuri delle voci di dentro. La cura nei dettagli: i piccoli fuochi accesi ci fanno sentire il freddo interiore che non scaldi con nessun ceppo ardente in un impianto che regala sempre l'incertezza delle fiamme e delle foglie che potrebbe avvampare da un attimo all'altro; e la corona di mattone cotto, salda e fragile allo stesso tempo, come il manipolo di cavalieri per riprendersi la corona e fare giustizia, un presepe che ci conduce al Teatrino Giullare di “Finale di partita” o ai pupi di Mimmo Cuticchio, o infine ai cinquecento guerrieri cinesi di terracotta di Qin Shi Huang, per arrivare alla fisica e materica traduzione di Andrea Taddei che illumina la partitura con la sua scorrevolezza, il suo fluido vitale, brindando all'energia e all'efficacia della parola detta contro la pomposità vuota.
Questo “Minimacbeth” dovrebbe essere riproposto ogni anno, e con una tiratura più lunga, e non ogni quindici, per l'intensità, la forza, il respiro, le aperture che da una parte continuano a donarci Macbeth e la nera consorte, dall'altra per la compiutezza, l'artigianalità, lo sguardo penetrante e feroce di Marconcini e Daddi, quella voglia sfrenata di mordere il teatro come una mela, senza sputare il torsolo.

Visto al Teatro Francesco di Bartolo, Buti (Pisa), il 12 marzo 2016.

Tommaso Chimenti 14/03/2016

Foto: Giulia Focardi

FIRENZE – E' il primo esperimento della loro trilogia teatrale. Il più datato, anche se parliamo di soli quattro anni fa. Da questo “Reality”, al netto di premi Ubu, sono arrivati poi “Rewind” e “Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni”. Con queste tre onde il duo Deflorian – Tagliarini ha sconnesso, sparigliato, smosso le acque ferme della stagnante situazione teatrale italica. C'è un gusto francese con bagliori berlinesi. Danzatori che non danzano, attori che imprimono al testo la loro non-recitazione come modo non solo di interpretare o di stare sul palco ma di affrontare l'argomento, la tesi, l'ipotesi, il tema. Perché i nodi da sciogliere sono sempre pesanti e c'è di mezzo sempre la memoria, il passato, il nostro stare nel mondo, la riproducibilità del gesto, il passaggio, la comunicazione del nostro essere ed esistere. Il tutto affrontato con la leggerezza di una discussione aperta, di una chiacchierata dentro e fuori i personaggi che altro non sono se non ponti per una migliore connessione ed empatia, conoscenza e trasmissibilità di informazioni. Si impara, si apprende, ci stimola il loro non-dialogo, quel canovaccio che è sempre fluido e malleabile, quell'essere un passo nella Storia e un passo in quell'hic et nunc ricreato come mero fatto teatrale, quindi finto e fiction, ma talmente vero, reale, possente, da poterne sentire gli scricchiolii dello sterno quando in alcuni passaggi la respirazione ha un'estasi di fermezza e timore.
Se in “Rewind” riuscivano a farci vedere “Cafè Muller” di Pina Bausch mimandoci le mosse da un pc che dava le spalle alla platea e parlandoci del loro rapporto, viscerale e lontano, con il mito di Wupperthal, quindi un lavoro intenso di analisi e al tempo stesso autobiografico, scandagliando i gesti come in una lectio magistralis sentita e carnale dove le molte competenze vengono miscelate con l'aneddotica e il cuore pulsante della vita vissuta e trascorsa, se in “Ce ne andiamo” si parlava della crisi economica europea dal punto di vista marginale e laterale, piccolo e spoglio della quarta età che non ha più niente da chiedere e con i sogni ormai aridi e avvizziti, in questo “Reality” (da considerare anche il volume “La trilogia dell'invisibile”, targato Titivillus a cura di Graziano Graziani, 160 pp, 14 euro) si affronta il tema da una parte della solitudine, dall'altra del racconto del sé.
Nel 2000 muore d'infarto in mezzo ad una strada di Cracovia una signora polacca. Sembra una storia come un'altra, uguale, purtroppo, a mille altre, di quelle che non fanno nemmeno cronaca né notizia. Ma a casa i parenti più prossimi ritrovano quasi 800 quaderni dove l'anziana fin da giovane, da ben cinquantasette anni, annotava tutti i gesti della giornata, categoria per categoria, colazione, pranzo, regali fatti e ricevute, le telefonate, eventi inaspettati, le visite, i programmi televisivi, i libri letti, le persone incontrate. Un lavoro immenso e maniacale da monaco amanuense, in bella calligrafia, che però non si può ascrivere soltanto ad una lucida follia della signora rimasta sola con tutta una vita davanti impiegata nel compiere sempre le stesse ripetitive azioni. Numerare oggetti e situazioni serve a rendere l'imponderabile e l'ignoto del mondo esterno conoscibile e malleabile al nostro volere. Se la realtà è in continuo movimento e trasformazione, cambia ad ogni istante e non dà punti di riferimento, la sua elencazione e catalogazione la porta ad essere comprensibile, schiacciata in un solo segno tangibile su di un foglio casalingo, quindi il massimo del comfort e del controllo su quella particolare circostanza che nel mentre del suo accadimento ci mette in ansia e agitazione perché non prevista e di fronte alla quale, forse, proviamo imbarazzo perché non siamo pronti ad affrontarla.
E' una sorta di diario di bordo, senza interlocutori né possibili lettori, quello che la donna traccia e dal quale, come storici, possiamo risalire ad abitudini e movenze, e nel quale stanno soltanto i fatti, depurati dal merito, dal giudizio, dalla passione, la vita così com'è, bidimensionale e spicciola anche squallida, come si è formata e affermata in quel determinato tempo e in quel dato spazio. E' lei il suo segretario che registra in maniera consolatoria una serie infinita di azioni, più o meno sempre le stesse, è lei il suo controllore e carnefice. Sembra che viva in funzione di quei quaderni, di quest'azione che è divenuta la vera essenza della vita, anzi ne è divenuta la vita stessa. Forse provava piacere e soddisfazione e utilità personale nel riepilogare punto per punto, passo per passo, le sue giornate e il sentirle piene di cose da riportare le dava il senso del tutto, riempiva quel vuoto debordante e assordante che non riusciva a controllare se non con il suo conteggio e ordine.
Gli attimi, i momenti, gli accadimenti, importanti e non, tutto è visto con il binocolo e con il microscopio, con il grandangolo e con il caleidoscopio del suo mondo intimo, tutto viene annotato, anche le minuzie piccolissime e prive di qualsiasi fascinazione, narrazione e curiosità facendo diventare ogni giorno ricordabile, proprio perché è stato trasposto su carta, e al tempo stesso dimenticabile, proprio perché simile a mille altri. Con gli schemi riesci a sezionare la realtà, con le ascisse e i riquadri provi a renderla più addomesticabile e mansueta, più morbida e commestibile. E' tutto lì nero su bianco e non può più fuggire, scapparti di mano. E una vita minima, vissuta nell'ombra, nella massa in dissolvenza di un unico paesaggio, di molti passaggi, diventa letteratura innalzandosi ad un grado speciale tanto da essere raccontata, vista, ascoltata, letta, studiata.
Ogni vita è un'opera d'arte e nel solco tra l'indifferenza e l'infinito Tagliarini e Deflorian camminano sul cornicione tra verità e finzione nascondendo adesso, svelando ora, celando a più riprese esaltando esponenzialmente successivamente perché per dare senso alla realtà ci vuole il concreto del gioco e la poesia della riflessione. Se il minuscolo diventa eccezionale è la conferma che ogni esistenza dovrebbe essere assorbita e compresa, annusata e bevuta. Siamo tutti simili, banali, consuetudinari, abitudinari nel nostro scorrere dei secondi, dei minuti, delle ore, dei giorni, delle settimane, dei mesi, degli anni. Siamo corpi, piedi, parole, sorrisi, siamo sabbia al vento spazzata via in un soffio, siamo un gigantesco enigma, grottesco inganno al quale cerchiamo di dare una soluzione. Per questo siamo, ognuno di noi, Dio, per questo siamo Infinito, siamo imperscrutabili misteri che nessun elenco potrà mai sciogliere.

Visto al Teatro Cantiere Florida, Firenze, il 10 marzo 2016.

Tommaso Chimenti 13/03/2016

FIRENZE – “Garko mio collega? No, non sono nel settore della plastica”
“Mio padre mi regalò “Profondo rosso” perché da comunista pensava che fosse un disco politico”

Sul rapporto tra la musica e l'evocazione del passato nostalgico potremmo comporre un pezzo soltanto di citazioni illustri. E sarebbe soddisfacente, e sarebbe esaustivo. Note e parole si aggrovigliano in un groove inscindibile con la memoria, personale e singolare di Anna Meacci, dei suoi trascorsi intimi e familiari, per aprirsi ed ampliarsi all'infanzia di tutti, ai primi timori e turbamenti, le insoddisfazioni, le perdite, le sconfitte, ma anche le piccole gioie, gli amori e le delusioni che accomunano tutti quanti. “Una musica può fare”, spiegava Max Gazzè. Può fare molto: ricordare, rievocare, riportare in vita, far ridere, far piangere, sospendere il tempo, estraniare, far trasognare dentro una bolla di sapone, aprire porte, spiragli, sospirare, respirare, fermarsi a riflettere.
Senza musica la vita sarebbe un errore”, argomentava Nietzsche. Con i capelli ad ananas, il tacco altissimo, i pantaloni in pelle attillatissimi, la Meacci prende a pretesto la colonna sonora della propria vita per il suo “Volevo fare la dj”. La musica è importante, sottolinea momenti che, volenti o nolenti, torneranno, ritorneranno prepotenti a bussare alla porta del presente. E' un battimano folle quello che accompagna i dischi, rigorosamente in vinile old style, con il sottofondo croccante come pop corn a graffiare, prima i 45 giri da bambina (ognuno legato ad una storia familiare), poi i 33 di ragazza. E si sconfina nel rapporto con la madre, con il proprio corpo, con la propria crescita, la propria inadeguatezza, i primi amori.
Siamo lei, siamo con lei. Ognuno pesca dal suo racconto gli spunti simili, le assonanze, spesso spiacevoli, del crescere, i dolori dei passaggi d'età, il prendere consapevolezza ed il perdere d'innocenza. A cinquant'anni è un report, un riassunto, un bilancio esistenziale questo “Volevo” (che già dal titolo nasconde desideri taciuti e voglie represse) a cavallo tra gli anni '60, '70 ed '80, nell'osmosi tra infanzia, adolescenza, gioventù, che poi saranno i momenti che più ricorderemo, proprio perché avevamo tutta la vita davanti e tutte le scelte erano ancora possibili, le porte ancora aperte, niente precluso e nessuno poteva dire chi sarebbe stato e che cosa avrebbe fatto del suo tempo su questa Terra. Tutto era da scoprire, tutto da mordere ed assaggiare, sbocconcellare e bere, era ancora il tempo per poter essere sprovveduti e ingenui ma anche agguerriti e spavaldi: ecco Stay Hungry, Stay Foolish.
La musica aiuta a non sentire dentro il silenzio che c'è fuori”, arpeggiava Sebastian Bach. Si sorride e ci si commuove nello scorrere di questo diario di provincia dove si sentono gli odori casalinghi come la polvere della noia, lo scivolare della ghiaia sotto le ruote delle biciclette, la pesantezza della nebbia, il gelo di certe stagioni della vita che ti rimangono appiccicate addosso, pur crescendo, pur cambiando prospettive e domicilio. Non puoi dimenticare le origini, che saranno tenerezza e traumi, sogni incantati o brividi di paura. Come certe canzoni che ripartono nella mente quando meno te lo aspetti, quando pensavi di averle dimenticate, esorcizzate, quando pensavi ormai di esserne finalmente immune. E' anche una geografia familiare, la madre sarta, dura ma a suo modo amorevole, il padre amante di Puccini e della Russia rossa, la sorella bella che le passava i vestiti che smetteva. E' un'altalena di pathos e risate, di calore e mancanze, di struggimento e spasso corposo di pancia.
La musica è il solo passaggio che unisca l'astratto al concreto”, sedimentava Antonin Artaud. Un disco ed un ricordo appassionato, leggero e profondo, da starci dentro, da respirarselo con gusto e tatto, con rispetto ed in punta di piedi, da ascoltare silenziosamente per poi deflagrare in uno scoppio di denti che aprono le labbra a mezzaluna come una liberazione. “La musica è l'arte che è più vicina alle lacrime e alla memoria”, decretava Oscar Wilde. E girovaghiamo come cani randagi dentro i percorsi ed i sentieri di Anna Meacci bambina assorta, poi adolescente tradita, dopo ragazza che voleva ribellarsi al piccolo mondo antico. E' un juke box dell'anima, un giradischi che magicamente apre le danze sui segni e le crepe del passato.
La musica è una delle più importanti cose inutili del mondo”, punzecchiava Caetano Veloso. Un sound che rimbalza dal piatto dei dischi a sotto lo sterno, fa cassa e rullante mentre passa la Barbie come le hit sensuali degli Abba o Barry White. E' la fiaba della crescita, che è sempre difficile e difficoltosa, amara e mai indolore, e la musica in questo caso è il bosco del passaggio tra le varie età, musica che segue e che protegge, che fa da pugnale e parafulmine, musica che accompagna o scava, che è sollievo o coltello nella piaga. “La musica è la scienza delle emozioni” jazzeggiava George Gershwin. E scivolano “Je t'aime” come Battisti, Modugno e “Non ho l'età”, o lanciandosi in un'imitazione “avatariana” di Patty Pravo prima di sconfinare nel grande gioco sanremese. E' tutto amore che cola come rimmel, come lacrime luccicanti, che siano di gioia o di sconforto. “Non si vende la musica. La si condivide”, dirigeva Leonard Bernstein. Quello che ha fatto Anna Meacci.

Visto al Teatro delle Spiagge, Firenze, il 20 febbraio 2016.

Tommaso Chimenti 21/02/2016

FIRENZE – Il nodo è se prendere alla lettera “I duellanti” oppure astrarsi ed estrarre dal plot quell'intimismo, quel grado di introspezione e psicanalisi utile a mordere la polpa che pulsa sotto l'ossatura del testo. Se vogliamo cioè trattare la storia dei due ufficiali napoleonici che si sfidano ripetutamente nel corso di vent'anni di guerre europee ottocentesche, dettate dal basso Imperatore con la mano nel panciotto, come reale contesto oppure se, contrariamente, vogliamo leggere dietro le righe e scandagliare e usare la superficie come coperta, orpello ammiccante ed abbellente, messa lì proprio per essere scostata e mostrare il vero interesse della faccenda. Propenderei per il secondo, ovvero che Napoleone e le sue battaglie, ma anche gli stessi duelli di cappa e spada all'ultimo sangue non siano altro che ingranaggi ed ingredienti per arrivare al nocciolo della questione: l'uomo contro se stesso, l'uomo e la sua ombra, l'uomo e il suo alter ego, l'uomo e quel nemico impossibile da sconfiggere, da uccidere.
Ne “I duellanti”, dal racconto di Joseph Conrad, passando al grande schermo per la regia di Ridley Scott, per la prima volta in teatro, trattato dalla penna di Francesco Niccolini e dalla regia di Roberto Aldorasi, è forte il richiamo al Don Chisciotte e al suo scudiero Sancho Panza. Certo qui il ruolo di sudditanza e di fedeltà dovuta non sono così sbilanciati e chiari, ma questa forsennata ricerca dell'altro, per sfidarlo e batterlo, ma realmente poi in fondo senza volerci davvero riuscire, li tiene in vita l'un l'altro, legati a doppio filo, come forza, come possibilità, come idea di futuro. Avere qualcuno da odiare è un motivo per vivere e pensare al domani al pari di avere qualcuno da amare. Li stringe un patto, un sentimento forte e preciso, intenso, un piacere contorto, perverso e paradossale del quale non riescono a fare a meno. Si riesce ad annusare il Buchner del “Woyzeck” così come i tratti passionali, disfattisti e autolesionisti del romanticismo.
Però in questa versione teatrale ci si impegna molto, con la scena piena d'oggettistica, la violoncellista (bravissima Federica Vecchio che detta i tempi con ritmi sincopati e carnali e anche il “Lascia ch'io pianga” è stereotipato ma al tempo stesso pervasivo e pugnace), vari aiutanti e doppi ruoli, a confondere le acque rimanendo ad un grado impercettibile della vicenda senza riuscire a poter andare a fondo a scavare. Rimangono le dinamiche, le gesta, i movimenti, l'anima non esce appieno. Molte aggiunte formali (sono quelle che vogliono e necessitano i grandi Teatri nazionali di giro e i loro pubblici attenti più all'abbondanza e all'opulenza del palcoscenico che al contenuto intimo) che potevano benissimo essere scartate per regalarci un bello, corposo e fitto duello (non c'era bisogno nemmeno delle spade, bello lo scontro con le luci stroboscopiche) dialettico e verbale, uno di fronte all'altro nella loro essenzialità, mettendo in campo una battaglia di parole argomentate, un dialogo stretto occhi negli occhi, una seduta psicanalitica per giungere all'essenza di questa unione, di questo vortice che pare indissolubile, di questo legame aggrovigliato che pare impossibile sciogliere.
Forse Conrad voleva dirci altro, né presentarci la storia napoleonica (usata per fare da sfondo e niente più) né descriverci duelli di sciabola, fioretto e pistola, né di raccontarci di gradi militari o di suturazione delle ferite. Qui ci sono due uomini (e Alessio Boni e Marcello Prayer, in blu e rosso come i colori delle matite per segnare gli errori, sono più lanciati e inclini sul versante fisico energico e virile guerrigliero) che potrebbero guardarsi allo specchio (le note di regia di Francesco Niccolini, che ne ha curato l'adattamento, vanno in tale direzione, però la scena ha risucchiato questa ottima intenzione) oppure essere una sola persona, la luce e il buio, la ragione e l'istinto, il bianco e il nero che si rincorrono, si scontrano, si feriscono, che non si capiscono né si ascoltano.
La guerra con noi stessi non l'abbiamo né chiesta né cercata ma è lì presente ed ogni giorno il nemico che è dentro di noi, quello che rema contro, fa capolino, frena, fa deragliare, cerca di ostacolarci, di portarci su altre strade. Dentro di noi abbiamo un Pinocchio e un Lucignolo e a volte è facile seguire l'uno o più semplice dar ragione all'altro. Ma i nodi vengono al pettine e quei cappi lì neanche una spada ben affilata può dissolvere.

Tommaso Chimenti 12/02/2016

Foto: Federico Riva

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