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“Ho avuto la critica più breve che sia mai stata pubblicata. Diceva: “Ieri sera al teatro è andato in scena “Domino”. Perché?” (Marcel Achard)

Chimenti intervista Porcheddu. Ritratto di Maestro. Che si è “maestri” quando si ha qualcosa da insegnare senza mettersi in cattedra, senza avere l'arroganza di farlo, senza far sentire il peso della propria competenza, esperienza, cultura. Andrea Porcheddu è maestro con l'esempio, con i suoi scritti, la sua passione, il suo saper raccontare le pieghe del sistema teatrale, i suoi occhi sempre un po' più in là di dove avresti pensato che si sarebbero posati. La sua visione è pennellata e farfalla, è scelta, autorevolezza e consapevolezza. Basta ascoltarlo negli incontri che cura da diversi anni per la Biennale Teatro di Venezia.PORCHEDDU21
Basta vedere le generazioni che ha tirato su, allevato, coccolato, e a volte anche bonariamente fustigato, ironicamente serio o coscienziosamente sarcastico, gli occhiali per riconoscere le giuste distanze, il sigaro a profumare l'aria d'antico. Generazioni di critici da lui allenati nella palestra del laboratorio di scrittura proprio a Venezia: i grandi Maestri internazionali, la visione degli spettacoli, la scrittura nell'open space guardando il Canal Grande scorrere sotto, la spinta a porre domande ai migliori registi, fino ad allora nomi letti sui libri e adesso ad un palmo, a pochi metri, lì pronti a rispondere proprio alla tua domanda. Porcheddu è spritz e cappello di panama, si porta addosso quella malinconia romana, che non è rassegnazione ma è “saper vivere”, senza lanciarsi in eccessi di soddisfazione, senza linciarsi sulla graticola.

I tuoi spettacoli del cuore.
“Difficile contarli, quasi impossibile. Ogni anno, ogni stagione, fortunatamente ce ne sono di nuovi. Potrei citare Dario Fo, visto al tendastrisce di roma, dove mi portarono i miei genitori quando avevo forse dieci anni. Oppure Santa Sofia della Raffaello Sanzio, visto quando cominciavo a scoprire il teatro da ragazzo. O ancora Le tre sorelle di Nekrosius, visto sul finire degli anni novanta all’allora Festival des Amerique di Montréal. Ma come dimenticare una Action di Grotowski vista a Pontedera, o Fratelli e sorelle di Lev Dodin, o la Trilogia della Villeggiatura di Massimo Castri? E che dire di Carmelo Bene? Non posso scordare il Vajont di Marco Paolini o la Tempesta di Peter Brook vista a Verona, o Nelken di Pina Baush? E resta indimenticabile il lavoro di artisti come Reza Abdoh, Heiner Goebbels, e il miracolo del Pasticciaccio di Luca Ronconi. E i Dieci Comandamenti di Mario Martone, e, per venire a anni più recenti, Ascanio Celestini, Emma Dante, Arturo Cirillo. Ma ricordo anche alcuni grandi attori del teatro italiano: Paolo Stoppa, ad esempio, che vidi in scena con un giovane Gabriele Lavia. Poi Valeria Moriconi, Anna Maria Guarnieri, Glauco Mauri, Marco Baliani con il suo Kolhaas, e ancora i grandi irregolari come Carlo Cecchi, di cui vidi Ritter Dene Voss a Firenze. Infine, naturalmente, gli ultimi spettacoli di Leo De Berardinis: incredibili. Però l’elenco potrebbe continuare all’infinito. Dall’evento eclatante al piccolo spettacolo fatto in periferia, la cosa bella del teatro è che ti costringe, sempre o quasi, a lasciarci un pezzo di anima. Mi piace di poter dire, dunque, che lo spettacolo del cuore è sempre l’ultimo che mi è piaciuto, quello visto l’altro giorno chissà dove e chissà perché”.

Porcheddu31Le persone del mondo del teatro (registi, attori, operatori, giornalisti) che, direttamente o indirettamente, ti hanno spinto a continuare a scrivere di teatro.
“Il primo che mi spinse con intelligenza a insistere a far il critico fu Maurizio Scaparro: dovevo ancora laurearmi in Giurisprudenza, gli chiesi un consiglio dopo un suo spettacolo e lui mi rispose: “intanto laureati, poi datti un anno di tempo: se resisti alle coltellate, ai sotterfugi, alle meschinità del teatro, sei vaccinato, e puoi continuare. Altrimenti hai sempre la laurea in Legge”. Poi certo Leo De Berardinis: ho avuto la fortuna di frequentarlo un po’, non molto, negli anni della sua direzione di Santarcangelo, ed è stato un grande maestro. Poi vorrei citare due maestri del giornalismo e della critica: Nico Garrone, scomparso troppo presto. Mi prese sul serio, anche se eravamo diversissimi. E l’altro è Ubaldo Soddu, a lungo critico del Messaggero. Mi diceva: “tu fino a quarant’anni non devi parlare”. Aveva ragione: avrei fatto meglio a stare zitto, in tante occasioni...
Ma assieme a queste figure ne ho incontrate altre: un collega come Antonio Audino, con cui mi confronto spesso; o lo storico del teatro Guido Di Palma. E certo, fonte costante di dialogo e verifica è Roberta Ferraresi, giovane critica sicuramente più avanti di me".

I tuoi attori/attrici davanti ai quali ti sei detto: “Ah, finalmente”.
“Credo che oggi gli attori e le attrici abbiano una grandissima responsabilità per tenere alte le sorti del nostro teatro: non solo artisticamente, ma politicamente e socialmente. Ho incontrato grandi attori e grandi attrici. Oltre a quelli già citati, potrei ricordare Elisabetta Pozzi, ad esempio, o Laura Curino; Paolo Bonacelli o Andrea Renzi, o ancora Roberto Latini e Ilaria Drago, che conosco praticamente dal loro debutto. Attori diversi, stili e percorsi diversi, ma ciascuno di loro – come altri – di straordinaria presenza e aderenza scenica. Però così facendo, faccio torto a molti altri artisti che amo: come Laura Nardi, Lino Musella, Paolo Mazzarelli, Gaia Insenga, Saverio La Ruina, Paolo Musìo. Allora, come sempre, penso a quelli notati, o scoperti, solo ieri. E voglio segnalare delle attrici: come Alice Arcuri, a Genova; o Camilla Semino Favro a Milano. Oppure ancora due attrici che lavorano con passione, come molti altri, nel teatro cosiddetto “sociale”: Francesca Mainetti e Chiara Pistoia della Compagnia Animali Celesti. Donne in gamba, attrici in gamba".

“Ciò che ho sempre trovato di più bello, a teatro, è il lampadario” (Charles Baudelaire)

Tommaso Chimenti 11/10/2016

Giovedì, 06 Ottobre 2016 19:04

Solitudini in dissolvenza nella "Camera 701"

SESTO FIORENTINO – “Li incontri dove la gente viaggia e va a telefonare col dopobarba che sa di pioggia e la ventiquattro ore perduti nel Corriere della Sera nel va e vieni di una cameriera” (Pooh, “Uomini soli”)

Non c'è niente di più impersonale di una camera d'albergo. Dall'esterno. Ma per chi vi passa, vi sta, vi dorme, vi soggiorna, anche solo per una notte, diviene casa, luogo privato, scrigno, quattro mura che fanno confessione e vicinanza. Due sono i filoni di questo interessante testo rumeno, “Camera 701” di Elise Wilk, all’interno del cartellone di “Intercity Bucarest”, messo in scena per la regia solida e compatta di Ciro Masella, dai dialoghi che giocano sul sorriso come sulla Sinisiprofondità: la grande solitudine che attanaglia tutti gli otto personaggi (sette gli attori in scena nei quattro quadri) e il doppio binario vero/falso, reale/inventato che sottile e mellifluo entra e scorre, striscia e s'insinua nelle dinamiche di queste quattro coppie che abitano la stessa stanza d'hotel, per motivi diversi e in tempi e dimensioni temporali differenti che si sovrappongono e mischiano in passaggi senza soluzione di continuità con piani sequenza in dissolvenza semplici ed efficaci, leggeri tocchi in chiaroscuro che esaltano la cifra registica e le sue pennellate patinate d'ombre soffuse alla Hopper.
Merito di Masella anche l'essersi circondato di presenze importanti, di peso e cuore; ne citiamo tre facendo sicuramente torto agli altri: Michele Sinisi dona ai suoi personaggi quell'affabilità, quella naturalezza che solo i grandi interpreti riescono a far passare nelle pieghe del proprio ruolo, umanizzandolo, rendendolo tangibile e misero con piccoli colpi, con lievi imbarazzi, con qualche virgola; Monica Bauco è stata sottovalutata dal teatro italiano e sappiamo di quanto bisogno abbiamo di vedere sulla scena forza raffinata e gentilezza aggressiva e grandi doti brillanti; infine Giulia Eugeni (vista anche nel “Miseria e Nobiltà” proprio per la regia di Sinisi con un Masella delizioso) sempre sull'abisso tra una crisi di nervi e l'essere coccolata, e non puoi far altro che cadere attratto nella sua ragnatela di empatia e follia, con una fisicità e un impatto dirompenti, non rischiando mai di passare inosservata.
In una camera d'albergo non si dorme soltanto: è una parentesi staccata dalle nostre vite quotidiane, è un salto rispetto alle abitudini, anche se cerchiamo di riprodurre il più possibile un Giuliaqualcosa che assomigli ai nostri loculi con oggetti feticcio o movimenti consolidati tra le nostre consuete quattro mura. In una stanza d'albergo si sta per dimenticare, per prendere la rincorsa davanti alla finestra, per fotografare qualcuno dall'altra parte della strada, per bere e scordarsi il proprio nome e la propria fisionomia, per esibirsi a pagamento, per sfogare i propri desideri inconsci e repressi, per piangere la prima notte di nozze. Lo spettacolo corre veloce, senza pause, una boccata d'ossigeno fresco, sempre sull'altalena dei sentimenti, tra un pathos viscerale e un brio scattante, tra battute e voglia d'abbracci, immerso in situazioni mai al limite, mai così assurde e grottesche o letterarie, il ché le rende cariche di una forte rappresentazione e immedesimazione. Masella sceglie, cuce per ornare gli stacchi tra i quattro intermezzi, come un origami di pizzo, i Tiromancino che cantano Dalla, il velluto di Rihanna e l’urlo roco Vasco, pezzi che squarciano le ferite emozionali e sentimentali, aprono varchi di commozione dentro l'autostrada prodotta dalle parole.
Eccoci al vero e falso, archetipi e stratagemma finemente usati dalla Wilk che prima porta a credere alla tesi appena sostenuta con forza per poi smontare il castello di certezze tirato su Baucoa(ma)bilmente e ad arte con un momento, un'attesa, un'alzata di sopracciglio, un istante di pausa sospesa a mezz'aria, una parola strascicata buttata là piano ma che fa rumore dentro le coscienze dei personaggi ribaltando i piani di forza, mescolando le carte, rimettendo tutto in discussione. In questo luogo-non luogo ci sono le nostre paure, l'abbandono, il suicidio, l'emarginazione, l'incomprensione, ma qua, in questa boccia da pesci rossi, tutto è possibile perché un motel non è una casa e le ore qui dentro non scorrono come quelle là fuori.
Noi, qui tra queste mura, non siamo propriamente noi, tra questa carta da parati o quella moquette che non avremmo mai applicato alle nostre abitazioni; tutto è o più piccolo o più grande rispetto al nostro consueto, tutto è a portata di mano, chiusi claustrofobici dentro i nostri pensieri che adesso rimbalzano senza trovare sfogo né soddisfazione. La manager dura e sicura di sé perde i sensi e si mostra nelle sue debolezze con la stagista, la ragazzina che la vuol far finita per una storia d'amore andata al macero, un paparazzo che preferisce fotografare sconosciuti invece che passare l'ultimo giorno dell'anno con la moglie, uomini soli in disperata ricerca di un abbraccio, di un affetto anche momentaneo, due novelli sposi con scheletri nell'armadio ingombranti.

“Ma nascondiamo del dolore che scivola lo sentiremo poi abbiamo troppa fantasia e se diciamo una bugia è una mancata verità che prima o poi succederà” (Fiorella Mannoia, “Quello che le donne non dicono”)

Visto al Teatro della Limonaia, il 5 ottobre 2016

Tommaso Chimenti 06/10/2016

Foto: Enrico Gallina

A volte è solo uscendo di scena che si può capire quale ruolo si è svolto”. (Stanislaw Jerzy Lec)

Chimenti interpella Rizza. Ogni città, ogni mestiere, ogni professione ha il suo decano. Per anagrafe, per continuità, esperienza. Una figura che c'era, una memoria storica, una figura che c'è, alla quale puoi chiedere consiglio e illuminazione, una figura che ci sarà, salda nel suo scrigno, certezza dei foyer. Gabriele Rizza ha un passato da performer, da chansonnier (cantante è riduttivo), da direttore artistico (nel 2010 curò la programmazione del festival di Radicondoli traghettandolo dopo la scomparsa di Nico Garrone), un presente dove si destreggia tra teatro, cinema e Berlino.
Se lo guardi di profilo è l'iconografia perfetta della celebre illustrazione freudiana (“What's on a man mind”) con una donna nuda distesa con la schiena all'indietro sciolta nella stempiatura. Di teatro ne ha visto, ne ha masticato, morso, addentato, Rizza2mangiato, vergato in fiumi di parole. Rizza è il decano per autorevolezza imprescindibile della Firenze votata alla cultura, le conferenze stampa non hanno senso senza il suo approdo. Anche a lui le nostre tre domande-riflessioni dalle cui risposte poter capire meglio le strade, i percorsi, gli aneddoti di un mestiere bellissimo quanto vilipeso, maltrattato e, spesso, tradito. E siccome Rizza è e resta un artista anarchico ha accorpato i tre punti interrogativi in un bel fluire, tutto da leggere e godersi, immaginandosi le scene, le parole, quell'archeologia teatrale dalla quale non possiamo prescindere.
Cominciamo proprio da Gabriele Rizza, per anzianità, nel sottoporgli le nostre tre brevi, e aperte, domande (le stesse sono state fatte ad altri critici teatrali), più che altro un modo per conoscere e scoprire (non marzullianamente) il passato e il presente delle penne che, ancora curiose nonostante tanti anni e infinite ore scomodi con il culo sulle poltrone in platea, occhiaie e appunti carpiti nel buio assoluto, rendono, comunicano il teatro nostrano, senza spiegarlo ma cercando di illuminare i chiaroscuri, di far luce tra le pieghe dei discorsi che stanno alla base del teatro, dentro le sue viscere, distillando la polvere di stelle, la fatica del palco, smembrando parole, cercando rimandi e fili conduttori. Certamente, non un lavoro semplice.
Ecco i nostri quesiti dialettici: I tuoi cinque spettacoli del cuore. I tre personaggi teatrali (registi, attori, operatori) che, direttamente o indirettamente, ti hanno spinto a continuare a scrivere di teatro. I tuoi attori/attrici davanti ai quali ti sei detto: “Ah, finalmente”.

“Per chi ha la mia età, come dire, per quel poco che vale, per chi ha fatto il '68 (l’anagrafe però non mente: gli anni erano allora 20, tondi tondi) un palinsesto teatrale che ne giustifichi la formazione “critica” e la spinta “professionale”, gode di precise coordinate spazio temporali. L’architrave, o se volete la curva di riferimento, prende forma e contenuti a metà dei ’70. Si fortifica e ramifica negli anni a venire (irrobustiti, personalmente, da copiose frequentazioni transalpine), scollina e declina, nella sua esplosiva, farneticante elaborazione, sulla metà degli ’80. Si arena? Si sfalda? Si esaurisce? Si sgretola? No di certo. Ma inesorabilmente (inevitabilmente) chi ebbe la ventura di attraversarlo, e di assistervi, da quel decennio ricavò “impressioni” che si sarebbero rivelate in qualche modo uniche e irripetibili. Diciamo incomparabili epperò continuamente raffrontabili. Insomma, su quello che poi avremmo visto da “critici”, pesava un originario vizio di forma, un peccatuccio originale che, la verginità perduta, avrebbe fatto da paraocchi, generando una presunzione appunto da “critico” navigato. Non scevra di ombre e ingiustificati pregiudizi.
rizza3Ora, non per sfilarsi, ma scindere, isolare in/da questo mosaico alcune tessere, singoli episodi, nomi, titoli esemplari e protagonisti capitali, è davvero impossibile. Che la memoria si affastella mentre improvvisi flash si affacciano in proscenio: Leo e Perla che fanno Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir (e giù a trincare), Carmelo che recita Dante affacciato alla Torre degli Asinelli di Bologna, Tino Carraro che veste Lear, il Puntila di Tino Buazzelli, il Malato immaginario di Romolo Valli, la Winnie di Gabriella Bartolomei. Più che singoli spettacoli allora, ma la memoria al volo ne aggancia di classici (l’Amleto di Bergman e l’Amleto di Ljubimov, il Principe di Homburg di Peter Stein, i Personaggi di Vasiliev) e d’avanguardia, soprattutto d’oltreoceano (Living, Squat, Mabou Mines, Richard Foreman, La Mama) valgono alcuni autori, del cui viaggio, dato l’abbrivio in quegli anni di festa, abbiamo avuto la fortuna di essere in parte testimoni. In casa Giorgio Strehler (L’opera da tre soldi, La tempesta), Luca Ronconi (in principio fu Utopia più di Orlando, poi il Laboratorio pratese e sublime l’arrivo in via Merulana), Massimo Castri dai tempi di Ibsen (Rosmersholm), Carlo Cecchi dai tempi di Pinter (Il compleanno), Romeo Castellucci alias Raffaello Sanzio dai tempi di Santa Sofia.
In trasferta Peter Brook alle Bouffes du Nord (La tempesta in primis), Ariane Mnouchkine alla Cartoucherie (Tartufo su tutti), Pina Bausch in giro per l’Europa, Bob Wilson “incontrato” alla Biennale ’77 (Einstein on the Beach), Tadeusz Kantor “scoperto” sui banchi della Classe morta, Bartabas rivelatosi a cavallo sotto lo chapiteau del suo Zingaro. Infine, se ci è consentita una digressione coreografica, non possiamo dimenticare la favolosa, impareggiabile fluidità compositiva di Juri Kylian”.

Se la gente vuole vedere solo le cose che può capire, non dovrebbe andare a teatro; dovrebbe andare in bagno”. (Bertolt Brecht)

Tommaso Chimenti 04/10/2016

Nelle due foto (partendo dall'alto): Gabriele Rizza con Federico Tiezzi e Francesco Colella; Gabriele Rizza con la sua band Per certi versi

CASCIANA TERME – Abbinare le parole “spettacolo di burattini” con la dicitura “Vietato ai minori” è un ossimoro in piena regola, audace, curioso. Pieno di idee, scoperte, vie di fuga e riflessioni è questo dolce e macabro, tenero e inquietante “Maledetta Metropoli” ricreando un piccolo palco sul palco, quasi un cinema, un anfratto buio da “Cinema Paradiso” carbonaro, una catacomba con in fondo una feritoia 16:9 a proiettare storie fantastiche e purtroppo reali, grottesche e quotidiane. Maledetta Metropoli (ideato dall'aretino, e molto schivo, Fabio Modesti, tra i protagonisti della pellicola “Con gli occhi chiusi” della Archibugi), con le sue marionette col nasone adunco un po' Cyrano e un po' Dante, è un'imprecazione, una bestemmia, un urlo inascoltato al cielo con quelle due emme assonanti e musicali che fanno mamma, quindi delicatezza, ma sono anche rincorsa per lanciare strali e sciagure verso l'Altissimo. Siamo piccoli e fragili contro le avversità che ci accadono, le casualità che ci piegano, ci infrangono, ci battono. Metropoli qui fa rima con necropoli.
Maledetta Primavera. Le atmosfere sono francesi, i colori pastellati, un po' sfibrati, densi, dilatati. Sembra di sentire in sottofondo le note di Paolo Conte e Gianmaria Testa, le parole sferzanti di Gianni Brera, quelle rotonde e per niente accondiscendenti di Gianni Mura. L'impasto è da “Appuntamento a Belleville”, l'impianto da “La bottega dei suicidi”. MM ti accarezza con la sua parvenza familiare, domestica, infantile, per poi pugnalarti con il cinismo, l'acidità, la violenza urbana che ogni giorno ci troviamo a dover combattere, soppesare, dalla quale difenderci subendola. Tinte fumè, seppiate, sfumate, flambé, sbiadite ci portano a metà strada tra l'irrazionale dei peggiori sogni kafkiani e la purtroppo reale vita di tutti i giorni tra divieti assurdi, comportamenti inspiegabili delle persone attorno a noi, burocrazie irrazionali, lungaggini d'ogni sorta e tipo.Maledettametropoli1
Ogni maledetta domenica. Dalla campagna alla città è un salto nel buio, nel vuoto; dagli ulivi al cemento, dalle vigne all'asfalto è un carpiato che fa perdere punti di riferimento e sbalestra e disarciona. In piccolo una Commedia dell'Arte prestata alla disciplina dei burattini per una deriva dentro un girone dantesco dove il “nostro” sperduto è vagabondo che si ritrova a camminare tra situazioni e personaggi che ne mettono in crisi la sanità mentale con i loro comportamenti illogici e privi di alcun perché. Ma è il linguaggio (coraggioso anche il direttore del teatro, Andrea Kaemmerle, che ha scovato questa piccola perla e l’ha proposta senza filtri, né paraventi o censure), che ad un primo ascolto può sembrare e apparire volgare e spinto, smodato, offensivo e senza freni, che dona (finalmente) una pasta casalinga e desueta, contadina e rurale con quel retrogusto sanguigno e terreno, felicemente popolare e popolano e ruvido, essenziale, rude e scarno, senza fronzoli, che arriva al sodo, al punto, centra. Dialoghi come schegge in un mondo attentissimo al politicamente corretto, frasi come frecce contro l'omologazione, parole rancide contro il perbenismo.
Maledetto il giorno che ti ho incontrato. La metropoli sullo sfondo (ci appare come il “tragitto” disegnato ne La Linea di Cavandoli oppure un elettrocardiogramma) sono palazzoni che richiamano lo Z.E.N. evocato da Edoardo Bennato, Le Vele di Scampia di Gomorra, i casermoni della periferia campana di “E' stato il figlio”, le borgate del primo Eros Ramazzotti in “Adesso tu” o il grigiore esistenziale de “L'ultimo terrestre” di Gipi. In questa urbe tentacolare il protagonista è un forestiero che in questa via crucis capisce di non essere il benvenuto, un randagio malcapitato bucolico che soccombe sotto le angherie. Come un Pinocchio immerso e perduto dentro quello che credeva essere il Paese dei Balocchi, viene truffato, sedotto e abbandonato, avvelenato da una megalopoli dove convivono i peggiori istinti e reati nella più totale normalità e accettazione: “Maledetta Metropoli” (maledettametropoli.ti) non ha paura di toccare temi spinosi e scivolosi come la prostituzione, le violenze domestiche, lo sfruttamento e lo sbando minorile, la pedofilia, l'alcool, l'abuso di sostanze mettendo sul piatto della bilancia opposto una decrescita felice che punta sull'incontro delle persone, agli sguardi, sullo stare insieme, sui rapporti di vicinanza. La recessione, prima umana e poi economica, prima valoriale e successivamente finanziaria, si combatte con il “restare umani” di Vittorio Arrigoni, con quel mano nella mano che non è il classico e banale “e vissero tutti felici e contenti” ma può essere la soluzione ai nostri mali. Quella maledetta ultima meta.

Visto al Teatro Verdi di Casciana Terme, il 1 ottobre; il 10 ottobre al “Lato B”, Milano

Tommaso Chimenti 03/10/2016

Martedì, 27 Settembre 2016 18:03

A Terni il teatro non in teatro

TERNI – Al di là dell'inconveniente d'opportunità legato alla piece “Schonheitsabend” e dei loro “atti osceni in luogo pubblico”, in teatro, sul palco, appunto, il Terni Festival (16-25 settembre) è una bella fucina di idee, un Caos (il nome anche del luogo dove si svolge la rassegna, un parco ex Acciaierie Siri, con annessi locali, ampi spazi, il Teatro Secci da trecento posti, con boschetto, ludoteca, ristorante) fervido dove si sviluppano concetti e mostre e dove sperimentare è non solo possibile ma anche auspicabile. Abbiamo già parlato della bella idea del pianista in vetrina per dieci ore consecutive in un negozio del centro per una settimana. Qui sottolineeremo a flash, a stralci, a lampi, altri innesti, altre visioni, altri passaggi. Partiamo dal teatro quando il teatro non c'è, soprattutto come luogo-contenitore. Due momenti hanno attirato la nostra attenzione ma, seppur la qualità del progetto fosse valida e certa, in entrambi è mancato un qualcosa, un quid, lasciandoci ad un palmo di distanza dalla piena soddisfazione.
L'apprezzata compagnia svizzera Trickster con il loro “Twilight” ci ha condotto in una specie di bunker sottoterra. Venti persone, carbonari, rifugiati silenziosi, in attesa nelle nostre catacombe. Come Hansel e Gretel, come Anna Frank. Rumori di terni3automobili che sfrecciavano in superficie, attorno cemento e tante lucine ad intermittenza in alto e lampade dai fili aggrovigliati sul pavimento. L'esile comitiva del pubblico si è guardata molto negli occhi senza trovare un perché forte a quello stare se non luci pseudostroboscopiche (era utile e necessaria un'avvertenza per eventuali persone affette da epilessia) e suoni che dopo alcune reiterazioni hanno creato un tappeto sonoro consueto e accettato, senza scossoni né sussulti. E' mancato un passaggio, fondamentale, un'incursione, un cambio di status, un'invenzione attoriale (non c'erano performer, manca l'umano), ma anche semplici incastri ed escamotage per far scatenare e scaturire relazioni e parole tra i presenti. Ognuno è rimasto in attesa, nel proprio guscio senza mischiarsi: troppo poco per essere esperienziale, troppo poco per essere teatro. Attendendo l'arrivo del Messia, che non arriverà. Aspettando Godot.
Una bella dose di aspettativa e curiosità racchiudeva anche il “Todo lo que està a mi lado” di Fernando Rubio. L'idea è suggestiva e potente. Pochi eletti, gruppi di sette persone, per una piece collettiva e singola allo stesso tempo. All'interno di un parco archeologico (Carsulae, da visitare), passando da colonnati e chiese in pietra, strade levigate secolari e archi pesanti e possenti, sette letti candidi a formare un cerchio, vicini e distanti allo stesso tempo, so far so close. Sotto le coperte sette attrici. Sette spose per sette fratelli. Infilarsi sotto il piumone e, vicinissimo, sentire un racconto universale che ci parla di infanzia, di passaggi, di momenti, di consapevolezza, di sogno. Alcuni limiti però hanno trattenuto la piece in una parentesi: i sette racconti erano lo stesso racconto, mentre sarebbe stato bello potersi scambiare, con gli altri partecipanti, impressioni differenti sui diversi temi che ci erano stati assegnati casualmente e trovare vicinanze e attinenze alla propria biografia trovando coincidenze. Sarebbe stato interessante se le attrici avessero avuto un canovaccio ma anche che gli spettatori, in questo rapporto uno ad uno, avessero potuto parlare, scambiare, raccontare a loro volta, interagire, cosa invece terni2vietata, facendo così diventare un possibile dialogo un monologo. Forse anche il luogo doveva essere in accordo con il tema e con la condizione: incontro vis a vis, tete a tete, parole soffuse, ma dette all'aperto e con accanto altri letti, altri spettatori, altre attrici. Un po' più d'intimità non avrebbe guastato.
Il circo, con il suo tendone cadente come salice piangente, i suoi colori vivaci e sbiaditi insieme, quella sabbia a terra, quell'odore rancido di vita vissuta e sudore, ha in sé malinconia a chili, secchiate di mestizia, amarezza a litri di lacrime, metri d'afflizione. Il Circo Ronaldo, in “Fidelis fortibus”, è tutto questo e ancora di più, se possibile. Né Ronaldo il centravanti brasiliano, né Ronaldo l'asso portoghese ma un povero circense che si guarda attorno sconsolato urlando il suo dolore: “Tutta la mia famiglia è morta”. Infatti attorno a lui cumuli di sabbia con croci annesse. Il circo è morto, è rimasto solo, abbandonato. Non sa più chi è. E allora, come rievocazione, seduta spiritica o transfert (come Psycho con la madre), tenta di riprodurre gli stessi esercizi, con fortune alterne nella sua sbadataggine e (finta) cialtroneria, nei quali erano campioni i suoi compagni di viaggio ora defunti. L'atmosfera è da Santa muerte messicana dove il sacro si mischia col profano, le tinte forti, il cinismo e il sangue, il declino e il delirio. Chiama a rapporto tutti i suoi ex amici di una vita, una vita passata in gruppo, in comunione e in comunanza, una vita girovaga e confusionaria, piena di gente, di parole, di occhi e bocche. Adesso è tutto solitario e depresso, silenzioso e vuoto, senza “famiglia”, senza affetti. Un circo tutto per lui, come un torero senza toro. E' proprio tentando di mettere in scena gli atteggiamenti e le doti, le prodezze e le bravure di ognuno degli scomparsi che, catarticamente, riesce a superare la crisi esistenziale riconoscendosi come individuo al di là del tutto che lo contiene. “Non è comico”, continua a ripetere il mantra. Qui c'è tutta l'anima corrosa, lacerata, unta, incompresa del circo.

Tommaso Chimenti 27/09/2016

Domenica, 25 Settembre 2016 13:39

In vetrina piccoli tocchi di pianoforte

TERNI - Il pianista sull’oceano non ha il mare sotto di sé ma lo crea. Attorno a sé, come scialuppe di salvataggio, come ancore a argani, come mozzi a scrutare un istmo di terra brulla all’orizzonte, letti, brandine, materassi. L’aria sembra da accampamento in questo negozio sfitto di due locali nel centro di Terni, le grandi vetrate che danno sulla strada dove passanti ignari buttano un occhio, spiano, alcuni tirano dritto incuriositi ma timidi, altri mettono la mano alla porta e spingono piano, incerti, gli occhi spauriti nel vedere questa cashba di coperte e cuscini e un suono idilliaco, celestiale che colma e protegge, satura gli interstizi nel cemento, tra le mura bianche sporche di grigio, di matita, di segni, numeri e lettere.
Siamo sfollati attorno al falò della musica che ci nutre. Un evento, vicino alle estremità del Guinness dei Primati: Marino Formenti e il suo pianoforte suonano in solitaria da un sabato all’altro (al Festival di Terni da sabato 17 a sabato 24), dalle 10 della mattina alle 23 della sera, in loop continuo con pochissime pause. La curiosità dei passanti che si fermano: due ciclisti, sudati, caschetto colorato, maglie attillate e scarpette chiodate, si affacciano, entrano in punta di piedi. Tutto è rarefatto. Piano di nome e di fatto. Piccoli tocchi leggeri sui tasti. Si sente caldo dei neri, si sente la carezza dei bianchi. Un Alfonsi a coda, la scritta dorata, come le rotelle a chiudere le gambe slanciate. Formenti è in mise completamente formenti1noir: camicia, pantaloni, scarpe lucidissime, occhiali spessi come il primo Gino Paoli d’annata. Mentre lui suona in continuazione, tu puoi rilassarti. C’è chi si pettina, chi dorme, chi legge, chi si appunta qualcosa, un’immagine, una frase, un verso, una poesia. Qui la memoria torna a bussare, pressa comodamente, si infila, si infiltra in queste due stanze vuote riempite dalle note e dai piedi distesi.
Siamo tutti in vetrina, chi suona e chi ascolta bivaccato. Sulle pareti, scritte con la matita lapis direttamente dall’esecutore alla fine di ogni brano, gli orari e le arie o le canzoni o le opere appena eseguite. C’è la “Sarabanda” di Bach, “Mi sono innamorato di te” di Tenco. Non parlate al pianista. Non sparate sul pianista. Da John Cage con “In a landscape” a Brian Eno con “By this river”, da Froberger con “Reditation sur ma mort” a Feldman con “Palais de mari”. Essenza. Subilime. Vige il silenzio, senza che questo sia una regola imposta, il vuoto, l’orecchio annulla gli altri sensi, soffocandoli. Il pianista si riposa un attimo, gli occhi chiusi, le palpebre che cercano pulviscoli e ispirazione. Poi rinvigorito riprende, riparte, si riaccende. E’ una grazia, una messa stare qui, le dita sicure che premono morbide i parallelepipedi. Siamo in un tempo sospeso, tra le righe del pentagramma, noi siamo i piccoli pallini neri disegnati tra queste linee che a volte sembrano gabbie e filo spinato altre, come oggi, sono soltanto libertà. Un tempo intimo, individuale e espropriato al tempo là fuori, quello sociale che scorre con altre logiche, con altre dinamiche, quello comunitario. Da Chase con “Shukarise” a John Lennon con “Oh my love”, da D’Anglebert con “Praludium”.
E non vorresti venire mai via. Non ti alzeresti mai da questo giaciglio. Sdraiato con i tuoi pensieri, sospetti, lacrime, colpi di tosse repressi, imbarazzi, villanie, sospiri, ascessi, colpi di testa, fili di barba. Siamo dentro la tenda del “Tè nel deserto”. A ciclo continuo, come in una dolce lavatrice, schiaffeggiati dalle note. Perdi il conto dei minuti che risuonano là fuori nella via. Ti sei sottratto allo scorrere. E poi Ederlezi. Qui tutto è fluido, nuvolare, pannoso. E’ un adagio a riscoprire, sentire, sentirsi. Ci suona addosso, senza farci male. Le note scendono a valle, si fanno largo, senza agitarsi, senza sgomitare, senza aggressività. Da Frescobaldi “Toccata n.2” all’inno zingaro “Djelem Djelem”. Si sta lunghi, chi le braccia conserte, chi si è tolto le scarpe; una ragazza sfoglia Erri De Luca, “Il contrario di uno”. Un concerto privato, per carbonari alla luce del sole, in mezzo alla pornografia della strada dove gli occhi passano veloci, lascivi a consumare l’immobilismo che non comprendono da fuori, nell’insonorizzazione, nell’ovattatura impercepibile, impercettibile.
Formenti2Questo è un limbo, un’attitudine, un’altitudine, una vertigine calma, un’onda placida, surfiamo come abbandonati su una spiaggia, micro tartarughe a scavare nel nostro passato. Ecco Satie con “Gnossienne n.2”. E’ una ricreazione, adepti ad ascoltare queste variazioni che toccano zone lontane nell’ego di ognuno dei fortunati qui assiepati. Nell’aria sta una cappa tormentata e asciutta, inquieta che si placa, ci culla. I tasti pigiati come acini nei tini. Rimaniamo in apnea, in attesa, discepoli adoranti schivi di questi gesti semplici che aprono le porte dell’infinito. Siamo e non siamo. Siamo ma abbiamo deciso di isolarci, di fermarci. Quel che resta del giorno è uno spartito. Un accompagnamento di supporto, carezzevole ma senza indulgenze, senza perdono. Il fuori, l’oltre qui, l’al di là da queste vetrine viene relativizzato, non assume più i contorni di importanza.
Come ad Amsterdam siamo in vetrina, siamo in peep show. Andarsene è un piccolo lutto, ma prima o poi dobbiamo abbandonare la nave che veleggia armonica. Le cellule sono state rigenerate dalla bellezza, l’ossigeno viaggia nelle vene, la testa è sgombra, limpida. Piano piano, il piano ha fatto pianura dentro noi qui a terra, ha azzerato i nostri piani, spianandoci la strada, piantando nuovi rami freschi. Il solo respiro sembra far rumore. E non abbiamo bisogno di parole. Sembriamo sul ponte di una nave, la traversata notturna, zaini a fianco, borse a scaldare.
Si crea una piccola comunità silente, che non si conosce né si conoscerà ma che ha diviso e condiviso questa sottile magia lenta, equa e solidale. Siamo più pieni adesso, e paradossalmente più leggeri. Non esiste più il tempo. C’è pudore nell’esserci. I suoi occhi sfuggono. Ti puoi addormentare, nessuno qui ti farà del male, qui sei al sicuro, dentro la pancia della mamma, nella gomma piuma. Il nostromo pizzica il suo galeone, i remi sono i polpastrelli, i mari da solcare sono dentro di noi. Take your time. I movimenti al rallentatore, il cuore che pulsa ad un’altra velocità. Pace. Una soluzione ai ritmi frenetici della città. E non avere più un corpo. Un volteggiare. Un volare. Non avere più peso. Finalmente senza forze. Inutile resistere.

Tommaso Chimenti 25/09/2016

FIRENZE – I sogni, l'infantile gioco continuo del teatro declinato in versione circense. Che cos'è in definitiva il circo? E' l'impossibile rattoppato, è il vintage dai colori sbiaditi e sgualciti ma che contiene in sé luce e bellezza senza eguali, è contorsionismi e camminare sulle mani ovvero un mondo ribaltato dove tutto è possibile, un universo capovolto dove i bambini comandano e gli adulti stanno a guardare, un paradiso dove ci sono figure incredibili e donne alte tre metri. E così con “Extravagante” i MagdaClan hanno cucito le maschere fatte di pezza appena uscite dalla mente creativa e fervida della sarta, vera deus ex machina degli spettacoli di strada: ago e filo idea e produce anime che produrranno emozioni e meraviglia. Che il circo è anche riciclo, ridonare vita a quello che, nel mondo capitalista e consumistico, è stato messo da parte, allontanato, emarginato. Qui, in questa bolla di sapone atemporale, i freaks, qualsiasi essere, ha una sua valenza e importanza, una sua dignità di esistere.Magda2
Sotto questo tendone colorato, come le tende berbere o mongole o indiane, si raccontano storie millenarie spruzzate di fantasia. Perché, a volte, è bello credere all'impossibile e così facendo renderlo plausibile. Con la sua Singer che pedala e sferruzza e sferraglia, al sapore di “Fantasia”, compone un ventaglio di personaggi-alieni tanto inquietanti quanto teneri: esseri allungati, spilungoni come giocatori di basket e allampanati con al posto della testa (viene alla mente “L'uomo senza volto” con Mel Gibson) chi un lampadario, chi una abatjour, chi un megafono (sembrano la lampadina della sigla iniziale della Pixar).
Attorno a loro, ossimoro e matrioska, una sorta di cane da guardia piccolo circo in miniatura (li vendono all'Ikea; ogni bambino dovrebbe averne uno in camera, per nascondersi, crea mondi paralleli personali), prima tremante e tremolante, un tendoncino nano, timido e impaurito e poi morsicante come pitbull o rottweiler sbavante, alligatore o squalo bianco assassino, o addirittura troll fagocitante e cannibale come pianta carnivora famelica o piranha satanico. Ma è tutto un susseguirsi di figure e apparizioni, epifanie sul filo eterno del gioco, della parodia, mischiata con sottile e leggera arte alla poesia, frullata con la malinconia dei Noir Desire, velata di nostalgia, profumata di magia. Ne viene fuori un impasto gustoso, fragile e croccante dove trova spazio anche il critico che cerca parole altisonanti e paragoni eclatanti per spiegare l'inspiegabile, per cercare di razionalizzare ciò che non può essere tangibile, concreto, del nostro mondo terreno.
Magda1La danza incantata con un foglio bianco (le lettere mai spedite, le parole mai dette, le scuse mai pronunciate), che pare la piuma di Forrest Gump, che vola, rimbalza, senza mai toccare terra e sembra telecomandata o legata ad un filo, incollata alle mani e ai piedi del performer che lo accarezza delicatissimo come aquilone piegando le forze di gravità al suo volere, quasi domatore o incantatore di serpenti melliflui. E la donna che si rimpicciolisce in un sarcofago e lo scala come King Kong sull'Empire State Building, e l'uomo che gioca con le scale, da sempre simbolo di caduta ma anche di approdo alle nuvole, a Dio come Torre di Babele o novello Icaro, la scala che è fuga e libertà. Ma i trucchi sono belli proprio perché sono finti ma mai falsi, sono appunto deviazioni dalla realtà ma mai illusioni per frodare. Il velo cade e questo mondo stralunato e strampalato, vive e convive dietro le quinte pronto ad entrare in scena, a mostrare il proprio numero provato infinite volte e imparato a memoria, tutti dietro il paravento della felicità, aspettando il proprio turno, scalpitanti e frementi se ne stanno a rimettere a posto, rammendare, perfezionare il passo, la mossa, l'abito di scena. Un'iniezione di polvere di stelle: la stardust di Ziggy, dritta, sparata nelle vene.

Tommaso Chimenti 23/09/2016

FIRENZE - “Nel quartiere borghese c'è la pace di cui ognuno dentro si contenta, anche vilmente, e di cui vorrebbe piena ogni sera l'esistenza” (P.P.Pasolini)

In punta di piedi, come a socchiudere un'anta, da piccoli, durante il nascondino, vedere e non essere visti, scrutare luoghi familiari, sempre uguali e sempre diversi, farsi presenza, aleggiare per prendere e respirare quell'imprendibile e intangibile essenza che vola e veleggia per le strade conosciute, per le vie consolidate di ricordi e quotidianità. Maria Cassi si affaccia nel proprio quartiere e a “Schegge” ci porta dentro un piccolo mondo fatto di personaggi e storie circoscritte quanto universali, temi e topos che raccontano molto più di un angolo di cemento e intonato, molto più a fondo di marciapiedi e scritte sui muri. Scende giù in strada in una notte insonne, “buia e tempestosa” per dirla con la dolcezza dello Snoopy scrittore sul tetto della propria cuccia, e incontra le figure care, sembrano pascoliane o leopardiane, che gli gravitano attorno, uno sciame di umanità gonfia e divertente nelle consuete manie, negli stessi stilemi che creano quell'amalgama, Cassiquel denso e vischioso composto che forma l'anima (che non si può raccontare ma solo vivere e stratificare giorno su giorno) di ogni quartiere.
E compaiono il suo gatto che imperturbabile le fa le fusa come colbacco a coprirle le orecchie, la Cupola di Firenze grassa e bellissima a proteggere, lo sbandato innocuo e bonario che cerca incessantemente una sigaretta, il classico anziano che porta fuori il cane (o è il cane che porta fuori lui, ormai), le dirimpettaie pettegole di un'era che va a scomparire, fatta di inquadrature seppiate neorealiste che ci portano dirette alla pasta che trasudano le righe di Vasco Pratolini o, per altri versi più ruvidi, quelle pungenti di Jean Claude Izzo. Il tossico che si aggira come zombie, lo spacciatore magrebino in bicicletta come vampiro, la signora “ex bella” avvelenata e arrabbiata con la vita e con il tempo che passa.
E' una fotografia quella che scatta Maria Cassi, un'istantanea scolpita di appunti di un viaggio immobile, fermo alla porta di casa ad osservare (mai voyeuristicamente né morbosamente, ma con amore pieno) questo groviglio di anime, questa Spoon River che si avvia a terminare un'altra giornata che andrà ad assommarsi alle migliaia di altre, a formare quel panetto di burro, solido e spalmabile insieme, che è l'ordinarietà, fatta delle tante piccole certezze delle quali continuiamo a sobbalzare, ad esserne ingordi e gelosi e grati. Il quartiere della Cassi sono i suoi occhi, che fanno da riflesso e contraltare con quelli del vecchietto lucido (qui il mimo viene fuori con delicatezza e potenza espressiva nei silenzi cassi2carichi), in un'altalena a rimbalzarsi la stessa visione presa da due punti diversi, un'immagine bloccata da angoli opposti. Questa flotta di gente che vaga, torna e parte e va, questa ciurma che cammina e si perde, questa folla indifferente che si muove e sgomita o guarda e s'appoggia solamente, si fa strada tra l'odore del pane e quello che prende a calci una lattina contro una saracinesca, tra i vicini di casa e i loro accenti terreni e caldi e quella civetta che sorvola, controlla, spiega le ali quasi a benedire un'altra giornata portata a termine come fieno in cascina.
Una novella (buona) che frulla la vita privata e quella pubblica del rione, guardando dal buco della serratura l'equipaggio di questa nave sgangherata, questa moltitudine di corpi e gesti e occhi che si accendono in cerca di comprensione e affetto. In “Schegge” ci sono le facce e le mani di tutti quegli sconosciuti che ormai ci sono familiari anche se non ci siamo mai presentati, pezzi di un puzzle che ci è caro, parti di un quadro che sentiamo nostro. Ci senti Simenon tra le pieghe del discorso, tra i solchi dei vinili che scricchiolano come ogni esistenza.
Vedere il quartiere con occhi diversi, provare a guardarlo giù in tutte le case, andare col vento su per le finestre, sentirne gli umori che ne escono fuori. È come scostarsi un peso dal cuore, è come scoprire che esiste l'amore, sapere che i muri son gonfi di vita che sta prorompendo con forza infinita”. (Pierangelo Bertoli, “Vedere il quartiere”)

Visto al Teatro del Sale il 1 settembre 2016

Tommaso Chimenti 02/09/2016

VOLTERRA – Diffidate sempre da chi vi dice: “Diffidate dei maestri”. Forse chi ve lo sta dicendo è proprio un maestro. “Ho sempre preferito le persone ai luoghi” può divenire campo di battaglia, terreno comune, sentire allargato, atmosfera impalpabile, pathos rarefatto, motto di un’esistenza. Sembra di sentirle ruvida la barbetta di Massimiliano Civica che fruscia dentro ogni sua parola, la cadenza leggera e flebile, dolce e feroce assieme nella sua ricerca dialettica sui “Concittadini ideali”. Quelli, per dirla alla Salinger, per dirla come l’avrebbe detta il giovane Caulfield, gli autori di quei “libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira”. Passeggia, rumina sciolto parole come mietitrebbia, cammina, si dondola da un piede all’altro, sposta il peso, sottolinea la potenza delle sillabe, maglia grigia e idee colorate, in questo excursus - lectio magistralis, spremuta di citazionismo e nozionismo mai bidimensionale o puramente superficiale, ma spolverato di quell’effervescenza saggia, spruzzato dell’anidride carbonica di un’ironia che frizza di umanità e occhi veloci che scintillano, atletico salta da un ramo all’altro della conoscenza, spulciando i suoi quaderni rossi dove ha appuntato, vergato, solcato, versato pezzi di storia teatrale, filosofica, religiosa. Il guru è in viaggio, in atto, la beatificazione punge.civica3
E non sono solo frasi quelle appuntate da MC ma virgolettati (veri, presunti, falsi, mistici, traslati, verosimili, tradotti in un telefono senza fili infinito, aggiustati, mai detti; non ha importanza) ma suggelli, marchi, timbri su ceralacca bollente che fermano e immobilizzano il tempo aprendo dimensioni di pensiero sempre verde, spalancano buchi di spazi paralleli dove poter affrontare Robert Mitchum o John Ford e vederseli lì davanti con il volto da Far West del regista romano.
Parole dure, altre lancinanti, anche dolorose, gettate sul piatto come cip di un poker drammatico e leggero, la vita, nella sua voce da uccellino spaurito che fa a pugni con uno sguardo che arriva in profondità, scardina sottopelle. Lancia la frase estrapolata a fare cerchi come il sasso nello stagno, fragore, clamore, rumore, clacson nel silenzio assordante.
Sembra di poter sentire il graffio rauco di Andrea Camilleri, saltando a piedi uniti nell’antica Grecia, baciando la ruvidezza di John Wayne, carezzando Pinter, e rimanendone sempre incollati, appiccicati, densi e maldestri, rovistando nelle pieghe laiche bibliche, sfiorando De Sica, ovviamente senior, colpendoci alle spalle con la dolcezza amara della Duse.
Con quel suo incipit o postprefazione, prima di delineare un nuovo personaggio attraverso le sue parole, “una persona squisita”, fa abbassare le difese e la guardia alla platea ormai merce in balia del regista che giostra come croupier esperto le carte e le fiches sul suo tavolo-puzzle di ammonimenti e indicazioni, consigli e rivendicazioni, esortazioni e veti.
Un regista (Premio Ubu per “Il mercante di Venezia” e “Alcesti”) che si mette dall’altra parte della trincea, nelle vesti dell’attore, ne fa le veci, diviene chansonnier e pusher di parole secolari e millenarie, diventa narratore e affabulatore. I registi ruberanno il mestiere agli attori? “Il poeta migliore è quello che dice le bugie migliori”. L’alloro, in tempi di Olimpiade, è sul capo di Civica.

Tommaso Chimenti

SIENA – A Siena confliggono due anime, quella dei turisti con i loro obbiettivi e gelati e cappellini e scarpe da ginnastica colorate, e quella antica delle contrade. Mattoni rossi e tradizioni in mezzo a tante pizzerie e kebab sorti negli ultimi anni in un mangia mangia ad ogni angolo, di cestini stracolmi e mani a scattare e nessuno che chiede più alcuna notizia o informazione sul Monte dei Paschi. Tutto messo a tacere. Il tempo è galantuomo solo per alcuni. Ogni tanto una bandiera, un foulard, un accenno acceso a qualche animale fantastico e fantasioso e mitologico e la Piazza del Campo come polo attrattivo che tutti ci spinge e ci attira ai suoi piedi in discesa. Le finali del premio “In-Box” quest'anno si sono svolte a casa degli Straligut, la compagnia senese che ha ideato il progetto. Da tre anni la fase conclusiva viene aperta al pubblico: è successo nel '14 a Firenze al Cantiere Florida, lo scorso anno dagli Scarti a La Spezia, quest'anno dislocati tra il Teatro dei Rozzi e il non agevole, geograficamente e soprattutto come visuale coperta da vetri alti e spessi che occludevano il palco, Auditorium della Casa dell'Ambiente, bello esteticamente ma assolutamente non funzionale per il teatro.astorritintinelli
Ai sei spettacoli finalisti, l'organizzazione ha aggiunto tre spettacoli di alcune compagnie che nelle scorse edizioni avevano ben figurato: gli Zaches con “Il Minotauro”, i Lab 121 (vincitori 2015) con “L'insonne” e i Vico Quarto Mazzini con il debutto di “Little Europa”. Tra i sei, lo spettacolo vincitore dell'edizione '16, e quindi che avrà la possibilità di effettuare più repliche, a cachet fisso e garantito, tra i 46 soggetti gestori di teatri, è stato “Gianni” di Caroline Baglioni con 19 repliche ottenute, “I giganti della montagna - Atto III” di Principio Attivo, 9 repliche, così come “Come un granello di sabbia - Giuseppe Gulotta”, Compagnia Mana Chuma Teatro, mentre “Il sogno dell’arrostito" di Astorri Tintinelli (4 repliche), “Luna Park - Do you want a cracker?” de Leviedelfool (2 repliche), “L'inferno e la fanciulla” della Piccola Compagnia Dammacco (1 replica).

In questa occasione parleremo delle piece di Vico Quarto Mazzini e degli Astorri Tintinelli. Il quadro generale non è tra i migliori, non è rassicurante il panorama. Partiamo dagli AT nei quali, a distanza di anni da quel “Titanic” che già vinse In Box '11 (perché hanno potuto ripartecipare?), riscontriamo gli stessi cliché e stilemi che già non ci convinsero allora. Anche questo “Il sogno dell'arrostito” parte bene, veleggia sicuro, per poi affondare poco dopo, al largo, in assenza di un pensiero al quale si possa dare l'etichetta di drammaturgia. L'idea di arrostitofondo sembra esserci, è lo sviluppo che si affossa presto e velocemente e i quadri danno la sensazione del mosaico a tavolino, del lavoro per accumulo e somma dove i guizzi e le aperture si riscontrano difficilmente e con grande fatica si procede verso l'approdo. Gli oggetti anche qui la fanno da padrone (tanti, troppi, offuscanti, abbondantemente inutili), come se la drammaturgia scaturisse dalla necessità forzata di appigliarsi, di chiedere aiuto ad arnesi vari e attrezzi artigianali che inondano la scena.
Non eravamo partiti affatto male, anzi. Mentre il lui di questo duo stralunato e beckettiano leggeva da un foglietto le varie azioni-istruzioni da compiere, lei (visivamente si incastrano fisicamente a meraviglia, lui grosso come Bruto, lei smilza come Olivia) le metteva in atto. L'assurdo prendeva la platea tra sogno e frasi poetiche e la voce di Astorri che sottolineava caldo e il corpo della Tintinelli a creare delicatezza e armonia. Sgualciti e clochard, carbonari e nascosti come appartenenti ad una setta vessata, sembravano essere in una dimensione futura (“Siamo 12 miliardi di persone”) dove, presumibilmente dopo il terzo conflitto mondiale, la tecnologia era regredita ad una sorta di pre-rivoluzione industriale. Sono operai di una ditta dai rumori gutturali (insopportabili e disturbanti, eccessivi, acuti, fastidiosi) e vengono alla mente le battaglie sindacali e i partigiani, Chaplin e Marx: “Qui si onorano i morti per mortificare i vivi”. Renzi e il suo Job's Act erano velatamente chiamati in causa. Dopo quest'inizio accattivante e pieno di senso, qualcosa s'inceppa, nei megafoni, nei suoni molesti e smodati di una gag sommata all'altra senza un vero filo conduttore, perdendo la linea, il fulcro del discorso, il centro dell'idea iniziale.

Ai VQM ci si avvicinava con attesa dopo l'“Amleto fx” che aveva persuaso e trascinato i più, anche se poi c'erano stati i “Sei personaggi” a far ricredere molti. Prendendo spunto da Ibsen, (“Il piccolo Eyolf”, 1894) questo loro “Little Europa” travisa, travalica, tradisce, metaforizza il discorso ibseniano che era portato più alla responsabilità individuale che alle vicende transnazionali alle quali sembra, forzando la mano palesemente, far riferimento il gruppo pugliese. Più performance che prosa con pochissimi dialoghi e soprattutto una voce fuori campo invasiva che tutto spiega. La tesi di fondo è che nazioni diverse e totalmente dissimili si siano messe insieme creando un mostro, un colosso dai piedi d'argilla dal nome Europa. Qui un italiano e una scandinava, in un interno hopperiano VicoQuartoMazziniscenograficamente impegnativo, tra infinite urla e grida e latrati, hanno generato un essere deforme (Gabriele Paolocà che sembra improvvisamente perdere le doti energetiche emerse nell'Amleto, qui con imbarazzo recluso dentro un infagottante costume carnevalesco kafkiano che ci ha ricordato Chernobyl), con bitorzoli tumorali repellenti, un ammasso informe disgustoso e inguardabile. Il tema è assolutamente politico e si teorizza che i problemi dell'Europa attuale derivino dall'Europa stessa facendo un esercizio di negazionismo rispetto a tutto quello che gira attorno al Vecchio Continente, non considerando la storia del dopoguerra, annullando e non prendendo in considerazione gli eventi epocali e mondiali che ultimamente hanno sconvolto l'Occidente.
Dire che l'Europa affonda per colpa dell'Europa stessa è non vedere la trave nell'occhio sottolineando la pagliuzza. Certo l'Impero Romano fu affossato prima negli ozi poi, o di conseguenza, per l'arrivo delle popolazioni barbare del nord. Quello che sta accadendo anche ai nostri vecchi e stanchi popoli immersi nei diritti e nel benessere. Non inserire nel contesto e in questo disegno la crisi economica, l'11 settembre, le guerre in Iraq e Afghanistan, la caduta di Saddam e Gheddafi, la crescita esponenziale demografica e in termini di Pil di Paesi come India, Brasile e soprattutto Cina, la Primavera araba e la Rivoluzione Verde, Al Qaeda e l'Isis, per concludere con la guerra in Siria e l'arrivo di milioni di africani sulle nostre coste, è quantomeno semplicistico.
L'Europa, al contrario dell'indesiderato e non voluto bambino Europa, fu una scelta consapevole nel fronteggiare, soprattutto con la moneta unica, il dollaro statunitense a livello commerciale. Tutto da allora è cambiato, la bilancia finanziaria si è spostata e l'Europa vira verso il tracollo a causa del suo poco decisionismo, del suo lassismo, del suo poco nerbo nel fronteggiare le crisi, nell'accoglienza (vedi i fatti di Parigi e Bruxelles e prima ancora di Londra) di chi vuole mettere in dubbio il nostro stile di vita fondato su valori come libertà e laicismo. E' il perbenismo, il benpensantismo e questo cattocomunismo diffuso che ci affosserà. Se qui l'italiano (Michele Altamura) abbandona il figlio volontariamente, avuto con la svedese (Gemma Carbone, imbrigliata in un ruolo di contenimento non riesce ad emergere), nella cruda realtà i figli dell'Italia abbandonano la propria terra perché il ventennio berlusconiano ha affossato scuola e università (creare un popolo di tv dipendenti è mossa politica che si traduce in consenso o in astensionismo) non competitive a livello globale. Europa fu sedotta con l'inganno, e violentata, da Zeus che prese le sembianze di un toro, la cui testa riprodotta è appesa alle pareti di questa casa nordica. Toro che è anche simbolo di fertilità e prosperità economica (il toro davanti alla Borsa di Wall Street). L'Europa è un mostro perché il mondo è mostruoso. Il senso di colpa sulla nostra incapacità di generare bellezza oltre ad essere astorico è anche fondato su falsi miti esterofili.

Ci sono tre principali gruppi di uomini: selvaggi, barbari inciviliti, europei”. (Novalis)
Noi italiani siamo il cuore d’Europa, ed il cuore non sarà mai né il braccio né la testa: ecco la nostra grandezza e la nostra miseria”. (Leo Longanesi)
L’Europa non è un luogo, ma un’idea”. (Bernard-Henri Lévy)

Tommaso Chimenti 23/05/2016

Foto di copertina ("Gianni"): Cristiano Proia 

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