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TBILISI - Teatro muto. Anzi in “Murmel, murmel” dei berlinesi Volksbuhne il testo c'è, esiste, ma è composto soltanto dall'unica parola, ripetuta all'infinito, nelle situazioni più paradossali e imprevedibili, contenuta nel titolo. Come dire il “mumble, mumble” dei fumetti, quel pensiero che non si esplicita, quel frullare di cervello e sinapsi che non riesce a sgorgare se non in fumetto. Tipo un bla, bla, bla silenzioso, coloratissimo, psichedelico e onomatopeico. Tutti declinano la parola chiave in mille modi e modalità differenti in un impianto da party casalingo anni '60-'70 dove poter ballare con le gonne finalmente un po' più corte. Questo coro diviene quasi un concerto, rock e melodico, immerso in un immaginario dalle cromaticità sparatissime supportate dalle tastiere e sintetizzatori che ci aprono le doors della percezione.0murmel
Ma è il gioco, millimetrico e preciso di incastri e movimenti, dei sipari o paraventi sgargianti e saturi, laterali o che scendono dall'alto (ci hanno ricordato i filtri di Andy Warhol), a donare un significato profondo alle tante gag e quadri e performance. Si tratta proprio di profondità e di prospettiva, di vedute che si stringono fino a dare l'illusione ottica del rimpicciolimento, fino al suo opposto, lo zoom che tutto ingrandisce. Un continuo spostamento dei pannelli dentro la scena, con il conseguente scivolamento indietro del nutrito manipolo d'attori tedeschi a schiacciarsi, come a racchiudere l'immagine, come a creare un obiettivo (l'indice e il pollice del regista per trovare la miglior inquadratura), una camera nella quale far entrare la fotografia, lo scatto giusto e il suo allargamento, con l'uscita di scena dei pannelli, con il corpo attoriale esposto fino al boccascena, dava quel senso di nausea e spaesamento di stordimento che possono dare i binocoli o lenti di occhiali fuori fuoco. In questo perpetrare magico e magnetico di rimpicciolimento e ingigantimento (come accade alla protagonista di “Alice nel Paese delle Meraviglie” una volta caduta nel buco) dove la platea si sente attratta a vertigine e vortice, sta il climax e il punto di non ritorno.
00murmelIl suono, o lieve rumore o armonia di sibili, che i pannelli al loro muoversi producono, è un soffio, è un respiro, è il sollievo, la boccata d'ossigeno a pieni polmoni del tempo che scorre, fugge e se ne va. Il tempo che ci porta in questo ritratto di famiglia, amicale e sentimentale, che ha scattato le sue diapositive o polaroid che gli anni hanno sbiadito nel colore ma non nel ricordo, che seppur seppiato è sempre lì vivido nella memoria pronto a far capolino nei momenti in cui meno te lo aspetti. Pare di vederseli una dozzina di anziani che rievocano quegli istanti attraverso le immagini di un tempo, fotografie che li ritraevano giovani e freschi e pimpanti ballerini, e le scorrono oggi che non hanno più quell'energia nelle mani e negli occhi. Il Tempo che chiude e che apre, che ci fa miniaturizzati oppure giganti (come i disegni dei bambini che fanno grandi le persone alle quali vogliono più bene), che deforma la percezione dei nostri anni, quei giovani che ballano in queste istantanee non esistono più ma continuano a vivere dentro queste cartoline, queste foto in technicolor.
Sembra la scena della pellicola “L'attimo fuggente” quando il professore illuminato-Robin Williams porta i suoi allievi di fronte alla fotografia in bianco e nero di una classe di ragazzi della stessa000murmel scuola ma nel secolo precedente. Li fa avvicinare al vetro e chiede loro che cosa sentono: “Guardate questi visi del passato, si sentono forti, invincibili. Ma questi ragazzi ora sono cibo per i fiori. Se li ascoltate bene stanno dicendo: Carpe diem”. Cogli l'attimo, cogli la rosa quando è il momento. “Rendete straordinaria la vostra vita”. Senza rimpianti. Con il sole in fronte. In questo tempo, tra quel passato che fu presente gioioso e un presente ormai anziano stanno queste diapositive, questi grandangolo e queste miniature cristallizzate che ci riconsegnano giovani e sorridenti che forse continuiamo a ballare in un'altra dimensione parallela, in quel “Come eravamo” che ci fa tenerezza. Tutto cambia e si trasforma, in definitiva siamo energia in movimento ed evoluzione, che è il dondolarsi come gelatina di budino, tremolanti ma con i piedi bloccati in un altro tempo. “Murmel, murmel” ci consegna due lezioni da tenere bene in mente, che siamo uguali ai nostri predecessori ma allo stesso tempo unici, e che ogni tempo passato per qualcuno è stato un tempo presente.

Tommaso Chimenti 18/11/2016

COMO – Se Franco Quadri era il capostipite, la punta dell'iceberg del critico teatrale, Mario Bianchi è certamente il corrispettivo per quanto riguarda il teatro ragazzi. Che poi questa definizione limitativa, “teatro-ragazzi” appunto, a lui non è mai piaciuta. Un amore incondizionato per la lirica che nelle pause, nei foyer sorseggia a piccole dosi. Un anziano collega ma dentro giovanissimo: lo puoi trovare a latitudini sperdute, il pastrano sulle spalle, gli occhiali inforcati per bene chiarirsi la visuale, la leggerezza, l'ascolto, piccolezze che lo fanno amare indistintamente da tutti, da Como in giù. La sua creatura, il “Premio Eolo”, è un importante riconoscimento per chi mette in piedi spettacoli per i più giovani. Anche a lui abbiamo 00bianchifatto le nostre tre domande alle quali ha risposto con la dolcezza placida che lo contraddistingue, regalandoci un affresco colorato e tanti spunti, pezzi ormai introvabili, interpreti passati che non potremmo più vedere dal vivo. L'anagrafe non è un difetto. Mario Bianchi è qui a testimoniarlo con la sua presenza delicata mai ingombrante, con le sue parole mai urlate.

I tuoi spettacoli del cuore.
“In questa sezione segnalerei tre doppi spettacoli che in tempi diversi hanno segnato profondamente il mio sguardo. Inizierei da due Pirandello storici: “I Giganti della Montagna” di Giorgio Strehler e “I sei personaggi in cerca d'autore” della Compagnia dei Giovani, perché mi sfondarono per la prima volta la quarta parete. Anche qui due spettacoli, collegati tra loro: “Nelken” e “Kontakthof” di Pina Bausch, “Nelken” perché è stato il primo, suo, visto al Palazzo dei Papi di Avignone, che ha aperto il mio sguardo e il mio cuore a trecentosessanta gradi, facendomi capire che il teatro era qualcosa d'altro che conteneva ogni cosa. “Kontaktof”, poi visto quattro volte, due con i suoi danzatori, uno composto con anziani, un altro con adolescenti, perché pur contenendo le stesse coreografie, mi sembravano tre mondi diversi, irripetibili. Infine “ Giochiamo che io ero” del Teatro del Sole perché mi fece scoprire il valore di un teatro etico rivolto a tutti e “Elementi di struttura del sentimento” di Gabriele Vacis di Teatro Settimo perché ci/mi influenzò cambiando anche qui il mio sguardo sul teatro”.

000bianchiI tre personaggi teatrali (registi, attori, operatori) che, direttamente o indirettamente, ti hanno spinto a continuare a scrivere di teatro.
Peter Brook e Bob Wilson due maestri che in modi diversi da tanti anni mi entusiasmano sempre. Alessandro Sciarroni perché mi stupisce sempre, perché ogni volta mi fa scoprire il teatro anche dove penso non ci possa essere. Gigio Brunello e Romano Danielli, l'innovazione e la tradizione del Teatro di figura, un teatro vivo che non interessa quasi a nessuno e che proprio per questo mi invoglia a farlo conoscere con ostinazione”.

I tuoi attori/attrici davanti ai quali ti sei detto: “Ah, finalmente”.
Arianna Scommegna, attrice straordinaria nella sua semplicità di ragazza qualunque, che in scena riesce a stravolgersi e a stravolgere sempre. Gli attori e i drammaturghi di “Santa Estasi” di Antonio Latella, perché mi hanno fatto comprendere che il teatro esiste ancora e vive nelle nuove generazioni. Luca Micheletti perché mi ha fatto sperare che il bel teatro di una volta, anche con tutti i suoi birignao, esiste ancora”.

Tommaso Chimenti 09/11/2016

Per leggere gli altri "incontri con la critica":

Gabriele Rizza - https://www.recensito.net/rubriche/interviste/incontro-con-la-critica-gabriele-rizza,-il-decano-del-teatro.html

Andrea Porcheddu - https://www.recensito.net/rubriche/interviste/andrea-porcheddu,-un-infedele-alla-linea-tra-roma-e-venezia.html 

Gherardo Vitali Rosati - https://www.recensito.net/rubriche/interviste/gherardo-vitali-rosati-scrivere-di-teatro.html 

Venerdì, 04 Novembre 2016 08:56

Due polli senza galline alla riscossa

FIRENZE - Metti due galli in un pollaio. Che, si sa, ovviamente litigheranno. Ma, normalmente, e in natura, qualsiasi recinto da becchime che si rispetti, è così chiamato perché popolato da una moltitudine di polli. O meglio, di galline. E' proprio per questo che i galli, cresta alzata e bargiglio orgoglioso al vento (il pride), si inalberano e si adombrano fino ad arrivare ad affilare le loro unghie e i rostri per contendersi i favori dell’harem delle pennute. Due galli che combattono, a meno che non siamo in uno di quei luridi scantinati sudamericani di scommesse clandestine, per nessuna femmina da coprire, è proprio un ossimoro, un controsenso. Questi due galletti del cult “Un Poyo Rojo” (una settimana di repliche al Teatro di Rifredi) non vogliono ferirsi ma soltanto aversi, non vogliono combattersi ma soltanto prendersi, non vogliono uccidersi ma soltanto saltarsi addosso l'un l'altro.001poyo
Uno dei due è visibilmente su di giri (come la platea tenuta per un'ora sul sottile filo dell'eccitazione, di costumini attillati e adamitici, sui corpi sudati, sui continui strusciamenti e ammiccamenti) e tenta in ogni modo, fino a riuscire nel suo intento (vi abbiamo spoilerato il finale, tanto era prevedibile e scontato, e richiesto dal fremente pubblico che sfrigolava impaziente) di circuire l'altro maschio del cortile. Se poi a tutto questo ci aggiungete una scenografia fatta di armadietti in ferro (s)battuto, immagine convenzionale che richiama prurigini da caserma, saponetta in doccia e spogliatoio di una squadra di calcio, allora ci sono tutti gli stereotipi giusti per un velato spinto erotismo.
Uno stancante e sfibrante corteggiamento serrato, un lavorio continuo ai fianchi fino al momento in cui il gallo “etero” cede alla avance del gallo “omosessuale” (i topoi sono chiari e lampanti nei movimenti, nelle intenzioni, nei gesti dei due pur bravi danzatori argentini), ci instradano sulla teoria di fondo che lega le deboli scenette, sul fil rouge che cuce le fiacche gag e questi quadri slegati (le imitazioni degli animali, il playback di Mina, altro cliché mastodontico sui miti canori gay, il gioco portato all'esasperazione dell'improvvisazione sulle varie frequenze radio trovate casualmente): che ogni eterosessuale possa essere attratto, incuriosito e infine convinto.
003poyoUna pièce tendenziosa quindi che, sotto una parvenza di simpatia e divertimento, mette in campo forzature e tesi socio-antropologiche e ci dice che, tra un balletto sfiorandosi i capezzoli e una mossetta adocchiante, tra occhiolini furtivi e palesi cenni d'intesa, tra tic di labbra pronunciate e dita procaci a carezzarsi, sia non solo plausibile ma anche possibile e realizzabile riuscire nell'intento di scardinare le “presunte” convinzioni e “pseudo” certezze di questi eterosessuali “noiosi”. L'etero, secondo questo racconto in forma di danza contemporanea (e non di teatro fisico), se ben accerchiato si lascia andare, apre il ponte levatoio e si lascia volentieri assediare e invadere. Non è certo qui il caso di citare le teorie, che molti contraddicono, sulla “bisessualità congenita” di Sigmund Freud o la “Scala Kinsey” sull'orientamento sessuale nell'essere umano dell'omonimo professor Alfred.
Un sottendere continuo e costante, un lento bombardamento, lo stillicidio della goccia cinese per portare a conclusione e a pieno compimento l'idea iniziale, quel bacio prima negato e poi accordato, quell'incrocio di corpi tanto desiderato e agognato e che diventa reale dopo struggimenti e battaglie simulate, dopo martellanti aggressioni soft e assidue invadenze. Nel finale quasi una liberazione-concessione dopo tanti assalti coatti, ma furbescamente patinati di allegria, dopo tante cariche all'arma bianca, ma velate di gaudio. Il pollo rosso lo preferiamo quando è Tandoori.

Tommaso Chimenti 03/11/2016

FIRENZE – “Le donne sono fatte per essere amate, non per essere comprese” (Oscar Wilde).

Il bagno è il luogo principe delle confessioni, c'è lo scrosciare familiare dell'acqua, c'è il frizzante delle bollicine della vasca, c'è il soffice del cotone, c'è il calore del phon, c'è la morbidezza della spugna, c'è l'intimità del nudo. E ci siamo noi, svestiti, spogliati da ogni armatura, da ogni ruolo, struccati, finalmente veri, noi, i nostri pensieri e un momento per prenderci cura di noi stessi, della nostra pelle carezzandola, lisciandola, amandoci un po'.
Il bagno è grotta, il bagno è antro della sibilla, il bagno è porto sicuro, il bagno è mamma che ci asciuga da piccoli, il bagno è una parentesi di tempo privato sottratto alla nostra versione pubblica, il bagno è la sfera personale dove non esiste 002bagnopudore, dove possiamo tirare fuori il nostro vero io, quello che non ha timore dei propri difetti o inestetismi. In bagno non ci sono occhi indiscreti, in bagno nessuno ci giudica, il bagno è la stanza più piccola della casa ma la più affollata, desiderata, ricercata. Il bagno è quel claustrofobico che ci scalda, è soddisfazione dei bisogni primari, il bagno è pulizia e rituale, è l'anticamera dove ci prepariamo ogni mattina prima di affrontare il mondo-giungla, è la chiusura a cerniera ogni sera salutando un altro giorno vissuto o solamente andato e ormai trascorso. Il bagno (ottima l'idea di aprire con “Creep” dei Radiohead, anche se con una versione melensa e mielosa che ha privato dell'anima la canzone di Thom Yorke, la cui traduzione è “sgradevole”) ci vede per quello che siamo e ci accetta e ci rispetta.
Se “Il Bagno” (scritto dall'attrice francese Astrid Veillon e passato prima per l'adattamento spagnolo e infine arrivato alle nostre latitudini) solitamente è sinonimo di solitudine e di momenti d'intimità, in questo particolare messo in scena, bianco candido e immacolato, c'è un via vai continuo come in una plaza de toros, la porta si apre come in un saloon, in un andirivieni da mal di testa. Tutto si svolge qua dentro, mentre fuori infuria una festa a sorpresa, preambolo, escamotage, preludio, premessa che sembra non interessare a nessuna delle cinque chiuse nei loro conciliaboli, battibecchi, scontri dialettici e strette tra bidet e lavandino, tra vasca e water.
Cinque donne diversissime ma ugualmente deluse e sconfitte, ognuna con le proprie insoddisfazioni, aspettative scadute e amori andati a male. Tre amiche più una madre e una figlia e tutto il ventaglio dei cliché femminili: c'è la vamp fatalona, che infatti è in pelle e latex attillato, c'è la santa che si innamora del marito dell'amica ma non consuma il suo desiderio, e infatti è in rosa candido, c'è quella sopra le righe un po' avvinazzata e di mezza età (Amanda Sandrelli, la migliore in scena, il suo personaggio regge in piedi da sola tutta la fragile 004bagnocostruzione), e giustamente è vestita a fiori, c'è una madre egoista, adesso anziana (Stefania Sandrelli, il pubblico la ama) che ha preferito vivere la sua vita da donna single, capelli e scialle rosso fuoco, invece che invecchiare appresso alla figlia che compie quarant'anni, difatti luttuosa vestita in nero, che sta con un uomo ma è rimasta incinta di un ventenne danese.
Insomma ne esce fuori un ritratto composito delle donne di oggi per niente incoraggiante e rassicurante anzi banalizzante: isteriche, urlanti, problematiche, arpie, pettegole, acide, sole, lamentose, troppo legate agli umori degli uomini, nervose, bugiarde, inadeguate, volubili, conflittuali, ma soprattutto insicure. Molto unghie affilate e poco smalto lucido. Per dare un po' di brio poi ci sono state aggiunte e spruzzate da sit com che hanno, se possibile come se non bastasse, contribuito ad aumentare il caos in questo bagno: cocaina, un ministro (per giunta mafioso e siciliano, stereotipo all'ennesima potenza), la corruzione (questi tre parametri insieme ci fanno venire in mente “Jhonny Stecchino”), polizia, paparazzi, furti. Tanti scricchiolii, vuoti, pause.
Se l'intento era una costruzione alla Cristina Comencini, il testo manca di umanità e troppo si lascia facilmente andare alla risata scadente di pancia, se era quello di creare un'impalcatura alla Yasmina Reza la drammaturgia ha un deficit di profondità, di spessore sociale, di solidità.

“Il mondo sarebbe sarebbe un posto di merda senza le donne. La donna è poesia. La donna è amore. La donna è vita. Ringraziale, coglione!” (Charles Bukowski).

Tommaso Chimenti 31/10/2016

Lunedì, 31 Ottobre 2016 09:00

Chi non "Balla" nella vita gode solo a metà

LIVORNO – “Il ballo è la manifestazione verticale di un desiderio orizzontale” (Woody Allen).

Ballano i topi quando il gatto non c'è, balla il ballerino di Dalla, e c'è chi balla coi lupi, mentre Bruce Springsteen balla nel buio. Sembra che il ballare o il danzare sia il verbo, e questo fin dalla notte dei tempi, dai riti magici ancestrali e primitivi, che più identifichi per l'uomo l'essere vivo, attivo, nel pieno delle sue forze, felice, integrato con il proprio corpo, con la Natura circostante, con il Creato. Come diceva John Dryden: “Ballare è la poesia dei piedi”. Come i dervisci rotanti che attraverso la forza centrifuga di gambe, piedi e braccia raggiungevano il Nirvana o uno stato di catarsi che li avvicinava a Dio ripulendoli dalla polvere terrena, dalla banalità della piccola vita umana. Se ballare è appunto l'azione per eccellenza per 01ballafotografare uno stato di grazia tra il proprio corpo e l'Universo, in questo “Balla” (visto al Teatro delle Commedie, atto conclusivo della rassegna “Utopia del Buongusto”) la posizione predominante e lampante è la staticità, la fermezza, l'immobilità. Andrea Kaemmerle, attore selvatico e sensibile, qui intreccia i fili della sua verve noir e comica con le parole di un racconto cechoviano (“Il violino di Rotschild”) e le fa risuonare nella sua grancassa ovattandole di risa amare, velandole di una mestizia in chiaroscuro, di una malinconia che dilania e morde nell'impossibilità di cambiare le cose, nell'impassibilità, nell'impotenza.
E' un Kaemmerle diverso questo, che cerca nuove sponde, meno clownesco e più dedito e devoto alla riflessione. Non è vero, non è giusto: all'introspezione analitica esistenziale ci ha sempre abituato ma nelle precedenti prove la profondità, per pudore, per paura di pesantezza, era sempre lastricata o spalmata come marmellata da una dose carica di venature poetico-suadenti, dal sorriso sornione e sarcastico. Qui viene fuori l'animo tragico, la cappa che incombe sulle nostre vite. Il nostro, faccia bianca funerea e naso rosso da patologia, è il falegname Joseph, che potrebbe essere Geppetto, che costruisce bare, abbrutito, perdente, perennemente arrabbiato e corroso. E' un povero suonatore di violino, e qui si aprono delle parentesi che ci portano prima a Nathan Zuckerman, il personaggio chiave dei romanzi di Philip Roth, e dall'altro lato alle figure di Edgar Lee Masters. Una stanza ombrosa, come le parole che colano in questo monologo a due voci, un salotto cupo e claustrofobico come il rapporto ultradecennale tra marito e moglie, dove si respira miseria senza alcuna nobiltà, povertà tangibile e metaforica, disperazione.
02ballaIn una sedia a dondolo giace la moglie Marfa che va avanti e indietro in un movimento ossessivo molleggiante. Marfa (nel cui nome sono racchiusi il “mare” e il “fare”, termine e verbo che indicano lo spostarsi, l'essere in azione, ossimoro della vita da “segregata” che aveva condotto la donna nel piccolo borgo) è in realtà un manichino costruito da Federico Biancalani (scenografo, tra gli altri, anche di Michele Sinisi o Ciro Masella) con movenze, scatti e gesti che la fanno sembrare inquietantemente viva. Il falegname becchino si sfoga con la donna che solida resta impassibile nel suo incedere autistico, resiste alle invettive del marito incattivito e ingiallito dall'astio, alle sue lamentele continue senza soluzione, al suo restare imprigionato e impigliato in un'esistenza scalcinata e sgangherata che non ha regalato loro alcuna comodità o felicità.
Ma è quando quella sedia, prima occupata dal manichino realistico si fa vuota per il decesso dell'anziana compagna che si percepisce netto e salato il contraccolpo dell'assenza; quella poltrona adesso ferma è un monito contro l'indifferenza. Il monologo a due non si spezza con la mancanza, prima silenziosa, della moglie che anzi adesso sembra riempire l'incolmabile, spiegare il miracolo dell'inspiegabile, sembra avvicinarci al mistero insondabile della vita. Che va vissuta senza rimpianti. Come quel ballo a due che non c'è mai stato tra Joseph e Marfa.

E coloro che furono visti danzare erano ritenuti pazzi da coloro che non potevano ascoltare la musica(Friedrich Nietzsche).

Tommaso Chimenti 31/10/2016

FIRENZE – Le case dei villaggi dei film sul Far West sembrano solide. Da lontano, in campo largo, appaiono stabili, di legno massello, con salde fondamenta massicce nella sabbia. Ma è tutta apparenza, esiste soltanto la facciata, tenuta su, dietro, da assi in diagonale per sorreggere la messinscena. La parvenza non ha il suo corrispettivo con la profondità. Entrando in quei saloon c'era solo terra riarsa. Tentando di cercare un minimo di profondità nella nuova opera del Cirque du Soleil si finisce a terra nella sterpaglia, si rotola al tappeto, si inciampa sui nostri stessi passi. Da molti anni il Cirque cambia il titolo alle proprie produzioni ma la salsa è sempre la stessa, pur nell'altissima qualità degli ingredienti: tecnica, interpreti e strumentazione. Un gran fiorire di costumi, un impasto tra musical e circo, atletismi d'ogni sorta e coreografie da etoile che creano immagini impeccabili e splendide suggestioni. Il Teatro latita, rimane la maraviglia, le botole che si aprono e si chiudono, che ingoiano o che lanciano fuori, le altezze e le costruzioni aeree, le funi e le altalene, i geyser che sputano fumo zolfino dal basso, le verticalità e le trazioni, i corpi scolpiti.Varekai2
Di fondo un grande perché che lascia insoddisfatto il palato, un vuoto che sentiamo concreto e tangibile sotto la spessa scorza di colori e girotondi, giravolte e piroette. Sembra che tutto l'armamentario di risorse messe in campo per "Varekai" (quaranta eccezionali professionisti sul palcoscenico del Mandela Forum; dieci repliche soltanto a Firenze) serva per distrarre e non per concentrare, serva per perdere contatto e controllo invece che fare adesione e abrasione. Una volontà di non far pensare a nient'altro che alla superficie della visione, usare gli occhi e le retine e non le sinapsi del cervello, fermarsi e fissarsi al bidimensionale imbrattando e infarcendo il tutto di decibel da stadio e cromature psichedeliche frastornanti.
In questa sorta di mondo alternativo e trasognante, molto ripreso da “Avatar”, tra grugniti e ruggiti e un vento ancestrale, si muovono questi esseri umanoidi primordiali e immaginifici misti ad animali preistorici, epici o mitologici che in alcune loro parti ci ricordano i caproni o il Dio Pan, i pesci degli abissi o anfibi pericolosi e serpenti biblici, altri sono fiammelle-anime da Divina Commedia, fino ad arrivare a spiriti veri e propri, diavoli per ogni gusto, giullari di corte, creature vitruviane, contornati da regine e folletti, elfi, stelle di mare e demoni, entità metà Varekai4Diogene e metà Zio Fester, centauri e tartarughe ninja, iguane e troll, dinosauri di squame e code e pinne, teschi e galli cedroni. C'è tutto il ventaglio e il panorama per Halloween e dintorni, cosparso di riti aztechi e sfide a colpi di spade che scintillano come in “Star Wars”. Un'immensa precisione, cura dei dettagli, forza e pulizia tecnica sono messe al servizio di una storia che sempre estratta da “Le mille e una notte” dove l'amore vincerà sull'odio e sulle diversità.
Tra gioco e inquietudine, cadute negli Inferi e riscosse, apparizioni e sparizioni, questo mondo sottosopra offre il suo lato più umano e accoglie l'angelo caduto dal cielo (potrebbe essere Lucifero), appunto scivolato dal blu dipinto di blu e dalle nuvole placide e pannose e ritrovatosi inerme, stavolta strisciante, in territorio sconosciuto e nemico. Ribelle tra i ribelli. Ha perduto le ali, non può rialzarsi ma viene comunque aiutato a rimettersi in piedi e infine, come qualsiasi favola infantile che si rispetti, trova pure il tempo di sposarsi. E vissero tutti felici e circensi.
Qui molta bellezza e perfezione nel gesto paradossalmente ammantano e guastano, occludono e anneriscono, consapevolmente, un risvolto debole che si sfalda con un grissino, un vuoto che fa eco. Rimane un grande cartoon d'animazione in carne ed ossa per famiglie. Abbiamo ancora bisogno di virtuosismi, orpelli e svolazzi, di merletti e origami scenici? Forse la risposta è Sì, e non è un gran sollievo. Esci fuori e hai una gran voglia di un panino alla porchetta per ritrovare poesia e mistero.

Tommaso Chimenti 30/10/2016

ROMA - “Per tutte le violenze consumate su di Lei, per tutte le umiliazioni che ha subito, per il suo corpo che avete sfruttato, per la sua intelligenza che avete calpestato, per l’ignoranza in cui l’avete lasciata, per la libertà che le avete negato, per la bocca che le avete tappato, per le ali che le avete tagliato, per tutto questo: in piedi, Signori, davanti ad una donna”. Lo scrive William Shakespeare. Lo stesso che vergò con l'inchiostro “Chi dice donna dice danno”, ma questo è un altro discorso. Nessuna quota rosa da invocare. Qui parliamo di donne già emerse nell'ambito teatrale, attrici under 35 da segnalare, supportare.2reitherAntoniaTruppo
Il “Premio Virginia Reiter”, alla dodicesima edizione, nel ventunesimo anno (la prima fu nel '95; in principio era biennale), tra Modena e Roma, è dedicato alla memoria dell’attrice emiliana che ad inizio Novecento fu la prima a “fare ditta” in un mondo prettamente maschile come quello del palcoscenico. Contemporanea della Duse, fece tournée mondiali, ed era apprezzata per la voce. Il premio vuole valorizzare una giovane attrice italiana, un'attrice in ambito europeo, e un premio alla carriera. Il tutto declinato al femminile: “Essere donna è un compito terribilmente difficile, visto che consiste principalmente nell’avere a che fare con uomini” (Joseph Conrad).
Il "Premio come miglior attrice europea" è andato ad Antonia Truppo che evidentemente fa diventare oro tutto quello che tocca; dopo l'Ubu come attrice non protagonista con “Serata a Colono” con Carlo Cecchi, Premio “Maschera d'oro” come attrice emergente per “La dodicesima notte” sempre di Cecchi, e, dulcis in fundo, “David di Donatello” per “Lo chiamavano Jeeg Robot”. Il “Premio alla carriera” invece è andato a Paola Mannoni, attrice e doppiatrice dalla voce inconfondibile: “Essere donna è così affascinante. È un’avventura che richiede tale coraggio, una sfida che non annoia mai” (Oriana Fallaci).
Le tre finaliste del Premio che sarà assegnato il 27 ottobre al Teatro Argentina di Roma (la giuria è composta dal presidente Sergio Zavoli, e da Gianfranco Capitta, “Il Manifesto”, Ennio Chiodi, Rai, Rodolfo Di Giammarco, “La Repubblica”, e Maria 3AnahiTraversiGrazia Gregori, “L'Unità”, mentre la direzione artistica è affidata a Laura Marinoni, la finale è al Teatro Argentina) sono Eugenia Costantini, Sara Putignano e Anahì Traversi. Un premio che negli anni ha visto trionfare da Manuela Mandracchia a Debora Zuin, da Maria Pilar Perez Aspa a Francesca Ciocchetti, da Anna Della Rosa a Caterina Simonelli, da Licia Lanera a Silvia Calderoni. Donne di sostanza e spessore, fuori e dentro la scena: “Sulla scena facevo tutto quello che faceva Fred Astaire, e per di più lo facevo all’indietro e sui tacchi alti”. (Ginger Rogers)
Tre attrici con tre percorsi, curriculum, background e scelte professionali molto differenti: Eugenia Costantini è figlia d'arte, di Laura Morante, e ha alle spalle corsi di teatro internazionali, in Francia sul metodo Lecoq e a New York, esperienze con Carlo Cecchi, su Shakespeare in versi, e nella serie “Boris”; Sara Putignano invece arriva dall'Accademia d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" di Roma, passando per Nekrosius e Luca Ronconi, Paravidino, Cesare Lievi e Carmelo Rifici; infine Anahì Traversi proviene dalla scuola del Piccolo di Milano, dai laboratori diretti da Federico Tiezzi con una carriera divisa tra Italia e Svizzera: “Qualsiasi cosa facciano le donne devono farla due volte meglio degli uomini per essere apprezzate la metà. Per fortuna non è difficile” (Charlotte Witton, politico canadese).
Alla prima classificata andrà un gioiello disegnato da Daniela Izzi mentre il manifesto della rassegna è stato ideato da Andrea Marchi: gemma e locandina hanno un qualcosa che ricorda l'art4reitherPutignanoSara decò, immersi in figure geometriche spigolose gialle e nere e un tocco orientaleggiante. “In Italia abbiamo formidabili attrici ma pochissimi ruoli disponibili; – chiosa Caterina d'Amico, preside del Centro Sperimentale di Cinematografia – gli aspiranti attori sono numericamente più donne e, dal punto di vista qualitativo, le donne sono certamente e oggettivamente più brave. Questo premio deve servire per dire ai drammaturghi di oggi di dare più spazio alle attrici che sono tante, ma soprattutto sono bravissime”. In fondo rimaniamo sempre d'accordo con Oscar Wilde che diceva: “Date alle donne occasioni adeguate ed esse saranno capaci di tutto”.

Tommaso Chimenti 26/10/2016

Nelle foto, dall'alto: Eugenia Costantini, Antonia Truppo, Anahì Traversi, Sara Putignano

Il Premio è stato vinto da Sara Putignano.

EMPOLI - “Qualsiasi pazzo con delle mani veloci può prendere una tigre per le palle, ma ci vuole un eroe per continuare a strizzarle” (Stephen King).
Gli eroi sono quello che non siamo riusciti ad essere noi comuni mortali, sopra le righe, irriverenti al potere, al destino, non si sono piegati, non hanno chinato la testa, non hanno cercato compromessi, non si sono scusati, non hanno fatto un passo indietro. L'eroe è chi ci ha messo la faccia, quello che non ha pensato alle conseguenze, quello che non ha avuto paura di mettere la propria vita a repentaglio per un'idea, per un principio.
Quello che la gente ama più dell’eroe è vederlo cadere(film Spiderman).
Proprio per questo gli “Heroes” che Ippolito Chiarello porta in scena con calore e decisione, qui in forma di primissimo studio e work in progress, con la faccia bianca metà cerone attoriale e metà incarnato da defunto, tradiscono fin dal principio, nella sintassi e nella parola, i personaggi ai quali l'epiteto etichettante positivo è affibbiato. Nessuno dei personaggi ritratti dalla penna di Francesco Niccolini (qui messi in scena otto sui dieci, mancano all'appello Andy Warhol e Mia Zapata) era un eroe, voleva essere un eroe, o era visto come tale.Ippolito1
Per fortuna gli eroi muoiono di morte violenta(Gesualdo Bufalino).
L'eroe è puro, integerrimo, pulito, sopra ogni sospetto, limpido, senza macchia. Robert Leroy Johnson, Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison, Jeff Buckley, Kurt Cobain o Amy Winehouse (quasi tutti appartenenti al Club 27, ovvero “suicidatisi” alla soglia dei trent'anni) erano corrosi dal veleno di vivere, mangiati dal verme della depressione, distrutti giorno dopo giorno dalla loro voglia di annientarsi, sparire. Erano miti, per gli altri, per i fan accaniti, ma mai eroi.
Non ci sono mai stati dei grand’uomini vivi. È la posterità che li crea(Gustave Flaubert).
Ippolito Chiarello (in residenza al Giallo Minimal Teatro di Empoli dopo aver partecipato a “Verso Terra” di Mario Perrotta e che si appresta a volare a Vancouver per portare in Canada il suo “Barbonaggio Teatrale”) è un Lucifero (che nel finale si trasforma inspiegabilmente in un Dexter che brandisce una sega elettrica) deejay dietro il suo microfono, che ci ricorda “Jack Folla” o “I cento passi” e “Radio Freccia”, la bocca rossa carnosa ne “I guerrieri della notte” o “Radio days”, ci presenta la carrellata di artisti, musicisti più che maledetti, fragili.
Chi c’è di più solo di un eroe?(Boris Vian).
Proprio per questo non ci è chiaro l'appiglio ai “supereroi”, che hanno poteri oltre il consueto e la natura umana e lo mettono a disposizione del Bene e a favore della comunità, mai li usano in termini egoistici, né l'escamotage registico della sedia sul palco, tirando dentro dalla platea uno spettatore al quale viene chiesta la vita per poter diventare un “semidio”; il fatto che ognuno di noi possa, nella sua piccola esistenza, essere o diventare un eroe è un altro grosso filone da approfondire oppure accantonare visto che porterebbe in tutt'altra direzione il lavoro. Niente di più lontano dai personaggi dilaniati dal mostro interiore dell'incomprensione, dalla tenia dell'infelicità, dal baco strisciante della non accettazione. L'eroe non cerca la morte, tanto meno il supereroe, che per definizione non può morire.
Sventurato quel popolo che ha bisogno di eroi(Bertold Brecht, “Vita di Galileo”).
ippolitoQuesti erano soltanto uomini e donne bisognosi d'affetto, con un talento innegabile, che hanno messo in musica il loro travaglio. Il nostro Caronte ci porta nelle pieghe delle patologie, psichiche più che fisiche, di questi corpi malati che cercavano disperatamente il silenzio e l'oblio, la negazione di sé e che, invece, erano stati catapultati nell'occhio di bue della popolarità, nella luce della responsabilità.
Non v'è eroe vivo che valga un eroe morto(Oriana Fallaci).
Il peso che li schiaccia e li trita è enorme: se prima non si sentivano accettati, non erano stati amati, adesso sentono che l’affetto smisurato che proviene dall'esterno è fuori controllo, è basato soltanto sulla copertina, sulla superficialità, sulla morbosità, sulla curiosità.
Gli eroi son tutti giovani e belli(Francesco Guccini, “La Locomotiva”).
Che poi tutti alla fine si aspettano la canzone-citazione di David Bowie, omonima del titolo della pièce, che invece viene estromessa dalla sentita e lancinante ed emozionante playlist, e viene sostituita, incomprensibilmente, nell'ouverture come nella chiusa, da “Space Oddity”, sempre del Duca Bianco: “Sebbene nulla, nulla ci terrà uniti, possiamo batterli, ancora e per sempre. Oh possiamo essere Eroi, anche solo per un giorno(David Bowie, “Heroes”).
Ancora di più, rimaniamo convinti che i veri eroi siano altri: “Sono un eroe, perché lotto tutte le ore. Sono un eroe perché combatto per la pensione. Sono un eroe perché proteggo i miei cari dalle mani dei sicari dei cravattari. Sono un eroe perché sopravvivo al mestiere(Caparezza, “Eroe”).

Tommaso Chimenti 19/10/2016

Domenica, 16 Ottobre 2016 11:36

Essere padre non è biologia, è chimica

FIRENZE – C'è un rapporto di sincerità e amicizia, di stesso comune denominatore e fiducia che in questi anni si è consolidato tra il Teatro di Rifredi e Eric Emmanuel Schmitt, lo scrittore franco-belga da molti indicato per il Nobel per la Letteratura nei prossimi anni. Nelle ultime stagioni a Firenze abbiamo prima visto “Il visitatore”, portato in scena da Alessio Boni e Alessandro Haber, per poi passare ai “Piccoli crimini coniugali”, seguiti dalle “Variazioni enigmatiche”, con Saverio Marconi nella splendida sala della musica del Relais Santa Croce, fino a “L'intrusa” con Lucia Poli, sempre nello stesso scenario di poltrone in pelle e tappeti, con Schmitt presente che uscì dalla hall gioioso, soddisfatto ed emozionato. Un'abbuffata, felice, di EES. Stavolta ha scelto di passare il guado e da autore si è fatto anche attore per il suo “Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano” che nel 2003 vide tra i suoi interpreti al cinema Omar Sharif e Isabelle Adjani.
Una bella intuizione quella del Teatro di Rifredi (le uniche date italiane sono qui a Firenze nello spazio gestito da Angelo Savelli e Giancarlo Mordini che hanno conosciuto Schmitt al Festival di Avignone) quella di posizionare i sovratitoli in alto Schmitt2agli angoli del palco, proprio dove le mura fanno una curva a rientrare proprio verso il boccascena. In quest'onda si trova il francese suadente, in questa curvatura si sente l'arabo a scorrere, che fluisce come una danza, parole che scivolano dalla bocca ai ricordi, si perdono nei suoni, rimangono a far musica, leggere ballerine sul pentagramma della vita.
“Monsieur Ibrahim” è una grande lezione, anzi più d'una: è uno schiaffo al razzismo strisciante e all'ignoranza, intesa come la non conoscenza dell'altro e quindi la nascita del pregiudizio, è un inno alle carezze contro la durezza dell'indifferenza, è una critica sottile alla troppa importanza che diamo e concediamo alle religioni. Questi tre filoni si mischiano, si rincorrono, si intrecciano per tutto l'andamento che Schmitt, con grande presenza e padronanza scenica, conduce lasciando ogni tanto le briglie all'ironia, altre volte alla commozione. Chi di noi non è stato incompreso? Chi non è stato mai abbandonato? Un ragazzino che cerca di capire il mondo e un anziano proprietario di un emporio. Niente di più distante. L'adolescente è figlio di un avvocato ed è ebreo, il vecchio è un arabo, almeno così dice la gente; lui si definisce “musulmano sufi”. Cominciano a girarsi attorno, ad annusarsi, a sentirsi, e a divenire, poco a poco, per uno il vero padre che non ha mai avuto, per l'altro il figlio che non ha mai potuto abbracciare.
È tutto un incastro tra caldo e freddo, tra amore e odio, tra vicinanza e repulsione. Si conoscono poco alla volta e si danno una possibilità di crescita insieme, verso quella mancanza che si chiama amore. Sono entrambi pozzi senza fine di desiderio di avere un amico, un confidente, un legame più stretto. Il giovane rimasto solo con il padre, buio e cupo, che non lo degna di uno sguardo, che lo tratta come un servo, vessandolo con il ricordo di un fratello perfetto che non è mai esistito, abbandonato anche dalla madre. L'anziano (gli insegna la Schmitt3potente arma del sorriso), nella sua immensa saggezza e pacatezza e calma e lentezza, non indica la giusta rotta né la retta via ma, con il dialogo fa nascere nuove domande e quesiti dentro questo corpo giovane che si deve fare, dentro questa mente che si sta costruendo. Nessuna imposizione soltanto confronti e gentilezza, il parlarsi, cosa che il padre non aveva mai fatto con lui, la possibilità di appoggiarsi a qualcuno, il guardarsi negli occhi senza essere giudicati, il non sentirsi sbagliati o perennemente imperfetti.
Quello che entrambi fanno, grazie alla presenza dell'altro, è un viaggio alle origini, è un passaggio di consegne, è un cercare il profondo, l'atomo iniziale che tutto ha dato origine, è uno scandagliare l'immenso, tornare al prima, riconoscere l'Amore che è fatto di piccole cose, di piccoli gesti, di aprirsi per sentire gli altri, il mondo, le cose, gli animali, gli alberi, le stelle.
Ed anche, sul versante religioso, la trasformazione da Mosè, il vero nome del ragazzo, a Momò, diminutivo di Mohammed, ha in sé quel libero arbitrio che deve governare gli uomini, la possibilità di scegliere il luogo dove abitare, chi poter sposare, cosa mangiare, in che cosa credere. Senza odio, “esistono modi di pensare che sono come malattie”, senza contrapposizioni, senza barriere. Al contrario, in maniera propositiva, non in antitesi, perché il fine ultimo è la felicità e ognuno ha il suo percorso tortuoso e le sue strade da battere per raggiungere quell'oasi. Perché si può sempre scegliere di essere altro, di cambiare direzione, che non esiste giudizio: “La bellezza è dappertutto. E ti appartiene”. Una grande lezione. Con il sorriso, senza bacchetta in mano. In punta di penna.

Visto al Teatro di Rifredi, Firenze, il 16 ottobre 2016

Tommaso Chimenti 16/10/2016

CLUJ – Siamo nel nord della Romania proprio nei giorni in cui il Teatro della Limonaia mette il suo focus con “Intercity Bucarest” sulla drammaturgia rumena. Qui ce l'hanno con gli ungheresi; dicono che gli portano via il lavoro. Paese che vai, stessi problemi che trovi. Siamo a quattrocento chilometri da Bucarest, con il treno undici ore. Una sola autostrada chiamata “Del Sole”, come la nostra Milano-Napoli, arteria del sistema del traffico su asfalto, dalla capitale a Costanza, sul Mar Nero. Per il resto strade e binari a scorrimento lento. Siamo in Europa ma si paga ancora con la vecchia moneta, il Leu. Cluj è una cittadina viva, per lo più universitaria, un'aria austroungarica di fondo, viali borghesi ed eleganti, la vecchia cittadella con i ciottoli. Impossibile lasciarla senza aver addentato, più e più volte, i covrigi alle visciole da Gigi, bagel caldi riempiti di salsa alle ciliege. Infiniti i rotoli di fili neri dell'elettricità aggrovigliati ai pali.
Soltanto ad ottobre fioriscono due festival di cinema, tre teatri, quello Nazionale dell'Opera, con mille posti, e due spazi più piccoli, una Casa della Cultura molto attiva, un teatro in lingua magiara. La gente è affamata di cultura, il teatro è una pratica comune e consueta, da esercitare molti giorni alla settimana, le persone si innamorano dei testi, li seguono, tornano più volte a vedere le stesse piece, ne imparano a memoria pezzi e stralci. Una passione smisurata.rodrigiogarcia
Il Teatro Nazionale di Cluj ha una compagnia stabile composta da una quarantina di attori. Il sistema che gestisce le attività è assai curioso per un italiano: la nuova piece prodotta dal teatro, dopo il suo debutto, rimane in cartellone per pochi giorni per poi essere ripresa più volte nei mesi successivi ma mai per lunghe teniture, poche serate alla volta. Quindi ci si può imbattere in mesi dove oggi c'è Shakespeare, domani Moliere, a seguire Pirandello e infine Cechov. Ogni giorno uno spettacolo diverso: una goduria per un pubblico di appassionati, una bella sfida e fatica per gli attori ogni sera impegnati con importanti testi e messinscene.
All'interno del festival internazionale “Intalnirile International de la Cluj”, alla sesta edizione, quest'anno dal titolo “In cautarea Autorului” (In cerca d'autore), abbiamo scelto di portare alla luce due spettacoli, il “Mort et reincarnation en cow boy” di Rodrigo Garcia (qui è stato messo in scena anche il suo “Agamennon”) e il “Richard III will not take a place” di Matei Visniec, uno dei maggiori drammaturghi rumeni viventi (qualche anno fa vedemmo il suo “I cavalli alla finestra” messo in scena con successo dall'ITC San Lazzaro di Bologna).
Una decina d'anni fa abbiamo incontrato Rodrigo Garcia proprio a Sesto Fiorentino dove ha sede il Teatro della Limonaia, nel quale fu Barbara Nativi, la direttrice e regista purtroppo scomparsa prematuramente, a “scoprirlo”. In quell'occasione parlammo più del “suo” Atletico Madrid che di altro, lui argentino d'origine e spagnolo d'adozione, adesso alla direzione del Teatro Nazionale di Montpellier, contratto che scadrà a fine 2017 e già deciso che non gli sarà rinnovato. E' curioso, disponibile, cappello calato sulla testa o cappuccio, gli occhi veloci, parla un esperanto svelto e fruibile tra spagnolo, italiano, francese e inglese, beve solo acqua. In Italia fece scandalo la sua performance dove un astice veniva rosolato su una piastra e mangiato in diretta. Al festival “Contemporanea” di Prato, diretto allora come oggi da Edoardo Donatini, intervennero animalisti e carabinieri e sia l'autore che il direttore furono denunciati per maltrattamento ai danni di animali.
visniecIl suo “Morte e reincarnazione di un cow boy”, che abbiamo visto in una delle ultime edizioni della Biennale veneziana nel suo adattamento originale, viene qui, dal regista rumeno Andrei Majeri, completamente stravolto, rivoluzionato (e non è che questo sia necessariamente un male): al posto dei due cow boy che giocano rabbiosi e violenti con pulcini e gatti, come nella versione al Teatro delle Tese all'Arsenale, il discorso è stato suddiviso in quattro attrici divenendo un vero e proprio inno al femminile gioioso, colorato, pop. Quattro donne, vagamente tarantiniane, una diversa dall'altra, vestite in giallo, blu, grigio e rosso, spicca per presenza fisica e scenica, voce e temperamento Sanziana Tarta, parlano di sé e dei problemi delle donne (è dura essere donna, ieri come oggi) giocando a biliardo (le palle in buca, metafora), tra birre e cactus, riducendo la poetica provocante e antisistema di Garcia ad una commedia inframezzata da canzoni godibili folkeggianti (potrebbe somigliare al “Due partite” di Cristina Comencini). Sono rock, toste e country queste donne che non vogliono cedere alla loro voglia di essere femmine e madri e ancor prima donne e persone, sono tutte wonderwoman nell'arena della vita, si fanno torere nel mezzo della corrida quotidiana, sono Charlie's Angels che rivendicano il loro ruolo nella società.RiccardoIII
Il “Riccardo III” di Visniec, per la regia Razvan Muresan, è un affondare nelle viscere, nella ferita ancora aperta del comunismo, nelle imposizioni, nel controllo e nella censura della dittatura. Il teatro nel teatro, come nei “Sei personaggi in cerca d'autore”, fa vivere le figure d'inchiostro ideate dal drammaturgo in una sorta di sogno-incubo tra donne incinte, Stalin che appare come il padre di Amleto, ora comprensivo adesso punitivo, topi giganti. Nodo centrale è la libertà negata e la follia, baratro nel quale vengono spinti i pensatori autonomi, gli intellettuali non allineati al sistema che tutto sgranocchia e appiattisce in melma, in melassa, nella solita pappa uniformata. Non può esistere satira né critica e la tortura è la soluzione, la panacea a tutte le deviazioni dell'individuo che vuole rivendicare la sua unicità. I nove attori si muovono con millimetrica disinvoltura in un piccolo spazio, non lesinando forza, sudore, corse, gioco sporco, cuore, impegno. Gli attori, la miglior cosa vista a Cluj.

Tommaso Chimenti 12/10/2016

Nelle foto (dall'alto): Rodrigo Garcia, Matei Visniec, gli attori del "Riccardo III"

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