Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

                                                                                                             

FIRENZE – “Su una parete della nostra scuola c'è scritto grande I care. E' il motto intraducibile dei giovani americani migliori: Me ne importa, mi sta a cuore. E' il contrario esatto del motto fascista Me ne frego”. (Lorenzo Milani)

Le prime parole che escono, meglio sgorgano, spontanee sono “leggerezza” e “delicatezza”. Non c'è mezzo migliore, la carezza, il soffio, l'appoggiarsi, per far passare, per far arrivare temi grandi e ingombranti come macigni, la memoria, la famiglia, l'amore, la malattia, la vita e la morte, la perdita, argomenti che ci hanno toccato o che, lo sappiamo in anticipo, ci toccheranno, inevitabilmente nel prossimo futuro, ma che preferiamo, come struzzi con la testa sotto la sabbia, rimandare a data da destinarsi, prorogare, spostare nel tempo l'affrontare la caducità del nostro stare, minimale, infinitesimale, marginale, su questa terra, in questo mondo, in questa forma.kulkuna03
E dire che le maschere dei Kulunka Teatro non possono far altro, soprattutto all'inizio, che ricordarci i berlinesi della Familie Floz (altra scoperta per quello che riguarda l'occhio attento e allenato dei Pupi e Fresedde). Anche in Italia altri gruppi, pensiamo ai fiorentini Zaches o al giovane duo torinese Dispensa Barzotti, hanno proposto e stanno usando con particolare efficacia queste maschere spaurite, errabonde, impaurite, dai nasi adunchi e gli occhi cavi. Sono ferme, impassibili ma dentro ci puoi vedere il sorriso come la disperazione, l'allegria o lo sconforto, la maschera è soltanto lo specchio di chi in quel momento la sta osservando, è il riflesso dei nostri occhi che la stiamo guardando.
Siamo affetti da una malattia con prognosi riservata: l’esistenza” (Carlo Gragnani).
Parlavamo di delicatezza. Non esiste parola migliore per raccogliere il groppo e il grumo che provoca “Andrè e Dorine” del collettivo basco Kulunka. La storia è semplice, come qualsiasi esistenza, la parabola annunciata da nascita, crescita, morte. Non è il quando ma il come, non è l'inizio o la fine, che sono certi, ma lo svolgimento a rendere l'esistenza quel mistero da accettare e salvare, da indagare incuriositi e, perché no, anche divertiti. Siamo burattini legati ai fili del destino, o Dio o della Natura, che dir si voglia, ma abbiamo tutta la libertà sia di sbagliare sia di emozionarci, di dare e ricevere amore, di cadere e rialzarci con e grazie agli altri attorno a noi. Sale il pathos, la carica monta lentamente, ma inarrestabile, 01kulkunamostrandoci la vita di questa famiglia, appunto i due ormai anziani (un po' Sandra e Raimondo) che compongono il titolo della pièce muta, e il figlio ormai adulto che non vive più con loro, come ce ne sono tante, con i piccoli dissapori quotidiani, le lotte domestiche, i dispettucci che nel tempo sono diventati imprescindibili e segni distintivi del rapporto, piccole manie che sono divenute folclore caratteristico delle quattro mura casalinghe e che, se un giorno non ci fossero più, ci mancherebbero e ne sentiremmo profondamente il bisogno e l'assenza.
Una coppia, come quelle di una volta, unita da anni di piccole, continue, quotidiane azioni che ne denotano l'attaccamento vitale e feroce: lui, l'anziano con la faccia da Marco Pannella, autore di romanzi ma perennemente disturbato dal violoncello di lei, da giovane con il volto da Nina Moric dopo le varie “tirature” e da anziana simile a Moira Orfei, il ticchettio dei tasti di lui e l'archetto che oscilla orizzontalmente di lei. I pomeriggi sono mini battaglie di lievi prevaricazioni. Lei è il primo lettore del marito che non pubblica niente senza il consenso della moglie. Tutto sembra scivolare via tranquillo, giorno dopo giorno, violoncello dopo pagine scritte a macchina in un'armonia ovattata e leggermente noiosa, banale nella sua routine delle ore uguali alle altre. Ma la vita dà e la vita toglie. E allora è la malattia che arriva di soppiatto, non la senti, silenziosa non bussa nemmeno alla porta, si intrufola nelle stanze, nella mente e pian piano distrugge, si prende tutto, annulla i ricordi, azzera i contorni delle facce, cancella le fotografie, abbuia il passato, opacizza il presente, fa diventare tutto nebuloso, oscuro, svuota, smembra, rende l'intorno irriconoscibile.
La vecchiaia. E’ la sola malattia dalla quale non si può sperare di guarire”. (Orson Welles).02kulkuna
I salti temporali, i flashback, hanno molto di cinematografico; i piani sequenza si sovrappongono in un continuo rimando ad un “com'eravamo”, al prima, a quell'amore nato e sbocciato e coronato fino all'epilogo finale. La moglie, affetta da demenza senile o alzheimer, ci ha ricordato il padre de “Sul concetto di volto nel Figlio di Dio” di Romeo Castellucci. Una canzoncina allegra e dolce, nostalgica e amara (echi che sembrano usciti da una colonna sonora di un film di Almodovar) fa da refrain a chiudere le scene, con una fisarmonica che tranquillizza e insieme inquieta, torna e ritorna come le nenie degli horror e ci dice che qualcosa di funesto e inarrestabile sta per accadere senza prepararci al peggio, incute timori e cattivi presagi senza dare soluzioni o paracaduti al dolore. Spariscono i volti, spariscono le parole, si confondono i gesti semplici nella perdita impietrita, nel vuoto incolmabile di chi resta menomato senza più memoria e chi rimane accanto impotente in questo limbo degenerativo senza salvezza. Ma il ciclo dell'esistenza si perpetra ancora incurante e la vita vince sempre e comunque, per istinto o per incoscienza. Siamo criceti sulla ruota con il destino segnato ma nel mezzo, tra una nascita non richiesta e la morte mai voluta, abbiamo tutto il tempo e la possibilità di dire, fare, baciare, lettera e testamento. E allora scrivete libri e suonate violoncelli. E amate. E' tutto qua. “A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure”. (Italo Svevo)

Tommaso Chimenti 10/02/2017

FIRENZE – “Extraterrestre portami via voglio una stella che sia tutta mia, extraterrestre vienimi a cercare voglio un pianeta su cui ricominciare” (Eugenio Finardi, “Extraterrestre”).

Una cosa è certa: non arriverà nessuno a salvarci dalle nostre piccole miserie quotidiane. Ed anche che “marziani”, strani, curiosi, diversi, lo siamo o ci sentiamo tutti, nel nostro intimo soli e incompresi, nei confronti degli altri, del mondo che ci ruota attorno troppo veloce e che non sappiamo fermare, regolare, controllare. Tutto sembra sfuggirci di mano, come la sabbia di Vada, da lontano tutto ci sembra bello e lucente per poi accorgersi che da vicino la spiaggia cristallina altro non è che scarti di produzione di scaglie di sapone. Ci si palleggia da una parte l'insoddisfazione dall'altra quella rassegnazione cinica che ha come faccia della medaglia ora una lucidità menefreghista e adesso una depressione cosmica. Che da “alieno” comunque deriva anche il verbo, con accezione negativa, “alienarsi”.00marziani
Se dieci anni fa “I marziani” di Alberto Severi (ecco la recensione dell'epoca: http://www.scanner.it/live/marziani3184.php), penna sottostimata dal sistema teatrale nostrano, prendevano il la dall'avvistamento collettivo di dischi volanti sopra lo stadio Artemio Franchi, durante una partita di campionato della Fiorentina, oggi i due coniugi agée se ne vanno in vacanza con quel “Life on Mars” di Bowie nelle orecchie che arriva, in cassetta, direttamente da Londra. Ma non sono le ferie di agosto che esploderanno con il boom fittizio e speculativo degli anni '80. “I marziani al mare” (la produzione è un bel connubio tutto fiorentino tra Teatri d'Imbarco del Teatro delle Spiagge e Pupi e Fresedde del Teatro di Rifredi) possono permettersi soltanto il litorale distante un centinaio di chilometri da casa, da quella Firenze che è tanto acida quanto culla accogliente, in un periodo, settembre, che potrebbe essere declinato come “partenza intelligente” o “scarsa liquidità”. Sono “beckettiani” nel senso che attendono qualcuno che non arriverà, la figlia, un nuovo amore, le notizie dal Sudamerica, un segretario di partito che conduca il PCI al governo, e al contempo sono “anti-beckettiani” perché qui non c'è niente di sospeso, di assurdo, ma tutto è, a tratti purtroppo, estremamente palese, terreno, reale, materiale.
001marzianiSiamo nel '73, precisamente l'11 settembre, data che ai più fa venire in mente quello newyorkese del 2001, più mediatico e culturalmente vicino, mentre quello degli anni settanta ci conduce al colpo di Stato cileno di Pinochet. I nostri due antieroi dell'epoca (c'è un'affinità alta e calzante, un'alchimia pizzicante, una chimica intrecciata tra la colorita Beatrice Visibelli e il carnale Marco Natalucci) sono ancora lì, con le loro convinzioni sempre meno certe in un mondo sempre più grande e globale, che ha appena passato il '68 e che respira un'aria di guerra, il Vietnam, come mode, trasgressioni, personaggi, atmosfere che provengono da ogni parte del globo e fanno immaginare e stuzzicano la voglia di andare, partire, anche solo con la fantasia sognando ad occhi aperti angoli felici e spensierati.
Invece, anche in vacanza, Alvaro, comunista convinto in pensione, e Mara, casalinga pia, nella solitudine di una spiaggia-limbo-Purgatorio, rimangono sempre loro stessi con gli odi, i rancori, le certezze conservative, consolatorie e traballanti sul Partito, la Chiesa, la società, le confessioni inconfessabili. Unico appiglio-gancio verso quell'esterno incomprensibile che viaggia troppo spedito per essere capito, è la figlia che abita nella terra di David Gilmour e si è fidanzata, addirittura, con un ragazzo di colore.0marziani
Alle loro spalle si muovono, ed è un fondale più che altro emotivo e dell'anima (la regia curata di Nicola Zavagli li mette su un bagnasciuga dove la linea del mare evocativa è rappresentata da scatoloni trasparenti), di colori accecanti e abbaglianti, arancione psichedelico, verde lisergico o filtri fucsia allucinogeni, la moglie che vuole fare citazioni colte ma sbaglia parole o lettere (“I Beatles si sono disciolti” o “Questo è un romanzo d'appendicite”; qui Severi tira fuori tutto il suo bagaglio e armamentario sarcastico, satirico, pungente, irriverente, alla faccia del cognome che porta), il marito retrogrado su questioni razziali e sessuali.
La scrittura di Severi è una poesia contadina e concreta, fresca e ingenua che ci porta non a un piccolo mondo antico e arcaico, sano e bucolico, ma in una sfera bonaria e perdonabile, un angolo carezzevole in bianco e nero, scusabile, e per questo amabile, leggero non perché stupido ma perché ignorante, non analfabetizzato, non studiato né colto, un piccolo antro da guardare con simpatia e nostalgia, un “com'eravamo” che non tornerà più, dove tutto era più semplice, lineare, con quella patina provinciale spaurita, incerta, minima, chiusa al borgo ma al tempo stesso croccante, tangibile, fatta di persone, di mani, di vicinato.
E poi c'è il grande gioco sintattico e bartezzaghiano che da “marziani” ci porta ai “mariani” (i devoti di Maria) dalla parte della pia moglie, e dall'altra ci instrada verso i “marxiani” (i seguaci di Marx) sulla sponda del “compagno”. Un viaggio interstellare che a Bowie affianca “The dark side of the moon” dei Pink Floyd perché la solitudine della coppia è amplificata dalla consapevolezza che “un altro mondo sia possibile” rispetto al loro piccolo guscio, “Gli anni sono volati via come dischi volanti”, e tutto sta scivolando verso una end che non sarà happy. Nessun buonismo, Severi non lo è mai stato.

Io vivo nei panni di un alieno che non vola, che non mi assomiglia ma io vivo ai margini di una vita vera e non mi riconosco” (“L'alieno”, Luca Madonia- Franco Battiato).

Tommaso Chimenti 06/01/2017

Venerdì, 04 Novembre 2016 08:56

Due polli senza galline alla riscossa

FIRENZE - Metti due galli in un pollaio. Che, si sa, ovviamente litigheranno. Ma, normalmente, e in natura, qualsiasi recinto da becchime che si rispetti, è così chiamato perché popolato da una moltitudine di polli. O meglio, di galline. E' proprio per questo che i galli, cresta alzata e bargiglio orgoglioso al vento (il pride), si inalberano e si adombrano fino ad arrivare ad affilare le loro unghie e i rostri per contendersi i favori dell’harem delle pennute. Due galli che combattono, a meno che non siamo in uno di quei luridi scantinati sudamericani di scommesse clandestine, per nessuna femmina da coprire, è proprio un ossimoro, un controsenso. Questi due galletti del cult “Un Poyo Rojo” (una settimana di repliche al Teatro di Rifredi) non vogliono ferirsi ma soltanto aversi, non vogliono combattersi ma soltanto prendersi, non vogliono uccidersi ma soltanto saltarsi addosso l'un l'altro.001poyo
Uno dei due è visibilmente su di giri (come la platea tenuta per un'ora sul sottile filo dell'eccitazione, di costumini attillati e adamitici, sui corpi sudati, sui continui strusciamenti e ammiccamenti) e tenta in ogni modo, fino a riuscire nel suo intento (vi abbiamo spoilerato il finale, tanto era prevedibile e scontato, e richiesto dal fremente pubblico che sfrigolava impaziente) di circuire l'altro maschio del cortile. Se poi a tutto questo ci aggiungete una scenografia fatta di armadietti in ferro (s)battuto, immagine convenzionale che richiama prurigini da caserma, saponetta in doccia e spogliatoio di una squadra di calcio, allora ci sono tutti gli stereotipi giusti per un velato spinto erotismo.
Uno stancante e sfibrante corteggiamento serrato, un lavorio continuo ai fianchi fino al momento in cui il gallo “etero” cede alla avance del gallo “omosessuale” (i topoi sono chiari e lampanti nei movimenti, nelle intenzioni, nei gesti dei due pur bravi danzatori argentini), ci instradano sulla teoria di fondo che lega le deboli scenette, sul fil rouge che cuce le fiacche gag e questi quadri slegati (le imitazioni degli animali, il playback di Mina, altro cliché mastodontico sui miti canori gay, il gioco portato all'esasperazione dell'improvvisazione sulle varie frequenze radio trovate casualmente): che ogni eterosessuale possa essere attratto, incuriosito e infine convinto.
003poyoUna pièce tendenziosa quindi che, sotto una parvenza di simpatia e divertimento, mette in campo forzature e tesi socio-antropologiche e ci dice che, tra un balletto sfiorandosi i capezzoli e una mossetta adocchiante, tra occhiolini furtivi e palesi cenni d'intesa, tra tic di labbra pronunciate e dita procaci a carezzarsi, sia non solo plausibile ma anche possibile e realizzabile riuscire nell'intento di scardinare le “presunte” convinzioni e “pseudo” certezze di questi eterosessuali “noiosi”. L'etero, secondo questo racconto in forma di danza contemporanea (e non di teatro fisico), se ben accerchiato si lascia andare, apre il ponte levatoio e si lascia volentieri assediare e invadere. Non è certo qui il caso di citare le teorie, che molti contraddicono, sulla “bisessualità congenita” di Sigmund Freud o la “Scala Kinsey” sull'orientamento sessuale nell'essere umano dell'omonimo professor Alfred.
Un sottendere continuo e costante, un lento bombardamento, lo stillicidio della goccia cinese per portare a conclusione e a pieno compimento l'idea iniziale, quel bacio prima negato e poi accordato, quell'incrocio di corpi tanto desiderato e agognato e che diventa reale dopo struggimenti e battaglie simulate, dopo martellanti aggressioni soft e assidue invadenze. Nel finale quasi una liberazione-concessione dopo tanti assalti coatti, ma furbescamente patinati di allegria, dopo tante cariche all'arma bianca, ma velate di gaudio. Il pollo rosso lo preferiamo quando è Tandoori.

Tommaso Chimenti 03/11/2016

Domenica, 16 Ottobre 2016 11:36

Essere padre non è biologia, è chimica

FIRENZE – C'è un rapporto di sincerità e amicizia, di stesso comune denominatore e fiducia che in questi anni si è consolidato tra il Teatro di Rifredi e Eric Emmanuel Schmitt, lo scrittore franco-belga da molti indicato per il Nobel per la Letteratura nei prossimi anni. Nelle ultime stagioni a Firenze abbiamo prima visto “Il visitatore”, portato in scena da Alessio Boni e Alessandro Haber, per poi passare ai “Piccoli crimini coniugali”, seguiti dalle “Variazioni enigmatiche”, con Saverio Marconi nella splendida sala della musica del Relais Santa Croce, fino a “L'intrusa” con Lucia Poli, sempre nello stesso scenario di poltrone in pelle e tappeti, con Schmitt presente che uscì dalla hall gioioso, soddisfatto ed emozionato. Un'abbuffata, felice, di EES. Stavolta ha scelto di passare il guado e da autore si è fatto anche attore per il suo “Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano” che nel 2003 vide tra i suoi interpreti al cinema Omar Sharif e Isabelle Adjani.
Una bella intuizione quella del Teatro di Rifredi (le uniche date italiane sono qui a Firenze nello spazio gestito da Angelo Savelli e Giancarlo Mordini che hanno conosciuto Schmitt al Festival di Avignone) quella di posizionare i sovratitoli in alto Schmitt2agli angoli del palco, proprio dove le mura fanno una curva a rientrare proprio verso il boccascena. In quest'onda si trova il francese suadente, in questa curvatura si sente l'arabo a scorrere, che fluisce come una danza, parole che scivolano dalla bocca ai ricordi, si perdono nei suoni, rimangono a far musica, leggere ballerine sul pentagramma della vita.
“Monsieur Ibrahim” è una grande lezione, anzi più d'una: è uno schiaffo al razzismo strisciante e all'ignoranza, intesa come la non conoscenza dell'altro e quindi la nascita del pregiudizio, è un inno alle carezze contro la durezza dell'indifferenza, è una critica sottile alla troppa importanza che diamo e concediamo alle religioni. Questi tre filoni si mischiano, si rincorrono, si intrecciano per tutto l'andamento che Schmitt, con grande presenza e padronanza scenica, conduce lasciando ogni tanto le briglie all'ironia, altre volte alla commozione. Chi di noi non è stato incompreso? Chi non è stato mai abbandonato? Un ragazzino che cerca di capire il mondo e un anziano proprietario di un emporio. Niente di più distante. L'adolescente è figlio di un avvocato ed è ebreo, il vecchio è un arabo, almeno così dice la gente; lui si definisce “musulmano sufi”. Cominciano a girarsi attorno, ad annusarsi, a sentirsi, e a divenire, poco a poco, per uno il vero padre che non ha mai avuto, per l'altro il figlio che non ha mai potuto abbracciare.
È tutto un incastro tra caldo e freddo, tra amore e odio, tra vicinanza e repulsione. Si conoscono poco alla volta e si danno una possibilità di crescita insieme, verso quella mancanza che si chiama amore. Sono entrambi pozzi senza fine di desiderio di avere un amico, un confidente, un legame più stretto. Il giovane rimasto solo con il padre, buio e cupo, che non lo degna di uno sguardo, che lo tratta come un servo, vessandolo con il ricordo di un fratello perfetto che non è mai esistito, abbandonato anche dalla madre. L'anziano (gli insegna la Schmitt3potente arma del sorriso), nella sua immensa saggezza e pacatezza e calma e lentezza, non indica la giusta rotta né la retta via ma, con il dialogo fa nascere nuove domande e quesiti dentro questo corpo giovane che si deve fare, dentro questa mente che si sta costruendo. Nessuna imposizione soltanto confronti e gentilezza, il parlarsi, cosa che il padre non aveva mai fatto con lui, la possibilità di appoggiarsi a qualcuno, il guardarsi negli occhi senza essere giudicati, il non sentirsi sbagliati o perennemente imperfetti.
Quello che entrambi fanno, grazie alla presenza dell'altro, è un viaggio alle origini, è un passaggio di consegne, è un cercare il profondo, l'atomo iniziale che tutto ha dato origine, è uno scandagliare l'immenso, tornare al prima, riconoscere l'Amore che è fatto di piccole cose, di piccoli gesti, di aprirsi per sentire gli altri, il mondo, le cose, gli animali, gli alberi, le stelle.
Ed anche, sul versante religioso, la trasformazione da Mosè, il vero nome del ragazzo, a Momò, diminutivo di Mohammed, ha in sé quel libero arbitrio che deve governare gli uomini, la possibilità di scegliere il luogo dove abitare, chi poter sposare, cosa mangiare, in che cosa credere. Senza odio, “esistono modi di pensare che sono come malattie”, senza contrapposizioni, senza barriere. Al contrario, in maniera propositiva, non in antitesi, perché il fine ultimo è la felicità e ognuno ha il suo percorso tortuoso e le sue strade da battere per raggiungere quell'oasi. Perché si può sempre scegliere di essere altro, di cambiare direzione, che non esiste giudizio: “La bellezza è dappertutto. E ti appartiene”. Una grande lezione. Con il sorriso, senza bacchetta in mano. In punta di penna.

Visto al Teatro di Rifredi, Firenze, il 16 ottobre 2016

Tommaso Chimenti 16/10/2016

Giovedì, 06 Ottobre 2016 19:04

Solitudini in dissolvenza nella "Camera 701"

SESTO FIORENTINO – “Li incontri dove la gente viaggia e va a telefonare col dopobarba che sa di pioggia e la ventiquattro ore perduti nel Corriere della Sera nel va e vieni di una cameriera” (Pooh, “Uomini soli”)

Non c'è niente di più impersonale di una camera d'albergo. Dall'esterno. Ma per chi vi passa, vi sta, vi dorme, vi soggiorna, anche solo per una notte, diviene casa, luogo privato, scrigno, quattro mura che fanno confessione e vicinanza. Due sono i filoni di questo interessante testo rumeno, “Camera 701” di Elise Wilk, all’interno del cartellone di “Intercity Bucarest”, messo in scena per la regia solida e compatta di Ciro Masella, dai dialoghi che giocano sul sorriso come sulla Sinisiprofondità: la grande solitudine che attanaglia tutti gli otto personaggi (sette gli attori in scena nei quattro quadri) e il doppio binario vero/falso, reale/inventato che sottile e mellifluo entra e scorre, striscia e s'insinua nelle dinamiche di queste quattro coppie che abitano la stessa stanza d'hotel, per motivi diversi e in tempi e dimensioni temporali differenti che si sovrappongono e mischiano in passaggi senza soluzione di continuità con piani sequenza in dissolvenza semplici ed efficaci, leggeri tocchi in chiaroscuro che esaltano la cifra registica e le sue pennellate patinate d'ombre soffuse alla Hopper.
Merito di Masella anche l'essersi circondato di presenze importanti, di peso e cuore; ne citiamo tre facendo sicuramente torto agli altri: Michele Sinisi dona ai suoi personaggi quell'affabilità, quella naturalezza che solo i grandi interpreti riescono a far passare nelle pieghe del proprio ruolo, umanizzandolo, rendendolo tangibile e misero con piccoli colpi, con lievi imbarazzi, con qualche virgola; Monica Bauco è stata sottovalutata dal teatro italiano e sappiamo di quanto bisogno abbiamo di vedere sulla scena forza raffinata e gentilezza aggressiva e grandi doti brillanti; infine Giulia Eugeni (vista anche nel “Miseria e Nobiltà” proprio per la regia di Sinisi con un Masella delizioso) sempre sull'abisso tra una crisi di nervi e l'essere coccolata, e non puoi far altro che cadere attratto nella sua ragnatela di empatia e follia, con una fisicità e un impatto dirompenti, non rischiando mai di passare inosservata.
In una camera d'albergo non si dorme soltanto: è una parentesi staccata dalle nostre vite quotidiane, è un salto rispetto alle abitudini, anche se cerchiamo di riprodurre il più possibile un Giuliaqualcosa che assomigli ai nostri loculi con oggetti feticcio o movimenti consolidati tra le nostre consuete quattro mura. In una stanza d'albergo si sta per dimenticare, per prendere la rincorsa davanti alla finestra, per fotografare qualcuno dall'altra parte della strada, per bere e scordarsi il proprio nome e la propria fisionomia, per esibirsi a pagamento, per sfogare i propri desideri inconsci e repressi, per piangere la prima notte di nozze. Lo spettacolo corre veloce, senza pause, una boccata d'ossigeno fresco, sempre sull'altalena dei sentimenti, tra un pathos viscerale e un brio scattante, tra battute e voglia d'abbracci, immerso in situazioni mai al limite, mai così assurde e grottesche o letterarie, il ché le rende cariche di una forte rappresentazione e immedesimazione. Masella sceglie, cuce per ornare gli stacchi tra i quattro intermezzi, come un origami di pizzo, i Tiromancino che cantano Dalla, il velluto di Rihanna e l’urlo roco Vasco, pezzi che squarciano le ferite emozionali e sentimentali, aprono varchi di commozione dentro l'autostrada prodotta dalle parole.
Eccoci al vero e falso, archetipi e stratagemma finemente usati dalla Wilk che prima porta a credere alla tesi appena sostenuta con forza per poi smontare il castello di certezze tirato su Baucoa(ma)bilmente e ad arte con un momento, un'attesa, un'alzata di sopracciglio, un istante di pausa sospesa a mezz'aria, una parola strascicata buttata là piano ma che fa rumore dentro le coscienze dei personaggi ribaltando i piani di forza, mescolando le carte, rimettendo tutto in discussione. In questo luogo-non luogo ci sono le nostre paure, l'abbandono, il suicidio, l'emarginazione, l'incomprensione, ma qua, in questa boccia da pesci rossi, tutto è possibile perché un motel non è una casa e le ore qui dentro non scorrono come quelle là fuori.
Noi, qui tra queste mura, non siamo propriamente noi, tra questa carta da parati o quella moquette che non avremmo mai applicato alle nostre abitazioni; tutto è o più piccolo o più grande rispetto al nostro consueto, tutto è a portata di mano, chiusi claustrofobici dentro i nostri pensieri che adesso rimbalzano senza trovare sfogo né soddisfazione. La manager dura e sicura di sé perde i sensi e si mostra nelle sue debolezze con la stagista, la ragazzina che la vuol far finita per una storia d'amore andata al macero, un paparazzo che preferisce fotografare sconosciuti invece che passare l'ultimo giorno dell'anno con la moglie, uomini soli in disperata ricerca di un abbraccio, di un affetto anche momentaneo, due novelli sposi con scheletri nell'armadio ingombranti.

“Ma nascondiamo del dolore che scivola lo sentiremo poi abbiamo troppa fantasia e se diciamo una bugia è una mancata verità che prima o poi succederà” (Fiorella Mannoia, “Quello che le donne non dicono”)

Visto al Teatro della Limonaia, il 5 ottobre 2016

Tommaso Chimenti 06/10/2016

Foto: Enrico Gallina

FIRENZE – Due sono i binari che Alessandro Riccio continua con tenacia e testardaggine a perseguire fortemente: da un lato il lavorare, il far ragionare e riflettere sulle diversità, dall'altro l'uso dell'ironia, anche della risata a tratti grassa altre lieve e fine, per far passare temi ingombranti, argomenti che se affrontati in maniera differente risulterebbero pesanti come macigni ma che declinati sul quotidiano, sul leggero, arrivano, magicamente e paradossalmente, ancora più in profondità, radicandosi, trovando appoggio e inserendosi in un discorso più ampio di integrazione, socialità, condivisione. Anche questo suo ultimo “Roba da duri” (continua l'alleanza artistica con il Teatro di Rifredi dove ha debuttato) non fa eccezione. Riccio è uno di quelli che produce, prova, sperimenta, in un assiduo frullare di idee, di costumi, di soluzioni, di interrogativi con la costante del colore, dell'invenzione, dell'inventiva che si trasforma in invettiva, ma mai lamentosa o rancorosa, cercando sempre il lato pop e lucente, sorridente e gradevole dell'esistenza.
Un ambiente che ricorda per certi versi, la numerosità degli oggetti, l'accatastarsi delle cose, la bulimia che ingolfa la vista, questo riempire la scena, un suo precedente cult “La meccanica dell'amore”. Anche qui la materialità, il numero, l'ingombro sembrano far da contraltare e da sostegno alla mancanza di sensibilità o, meglio, a quella parte di noi che rendiamo dura e impermeabile ai sentimenti perché non ammettiamo di avere paura delle nostre emozioni, di sentirci deboli e fragili di fronte alle avversità, di sentirsi naufraghi in un mondo di caterpillar, di persone che ci fanno credere di essere inamovibili, sempre certi e sicuri di se stessi e di ciò che fanno, delle parole che usano, dei concetti che esprimono. Nessuno intorno a noi sembra avere un difetto, un tentennamento, una balbuzie, un vacillamento. Ci sentiamo irrisolti, pecore nere in un gregge perfetto, inadeguati.
La reazione di Ivan (ovviamente Il Terribile) è stata, nel tempo, ornarsi e agghindarsi ad albero di Natale, con tatuaggi, borchie metalliche eccessive, tintinni aggressivi, catene inquietanti, look dark dalla faccia torva, sguardi noir dagli atteggiamenti cattivi, spicci e bruschi, zeppe e abiti in pelle lucente, cresta appuntita da ferirsi a pettinarsi. Un atteggiamento di difesa, chiaramente, per allontanare e proteggersi, per sentirsi diverso, stavolta non emarginato dagli altri, i cosiddetti “normali” (gli impiegatucci, come li chiama lui), ma autoelidersi, autotacciarsi d’indipendenza, di non assoggettarsi ai logo, scegliendo di non uniformarsi alle convenzioni, alle regole, alle leggi; essere diverso come scelta propria e non altrui.
Un duro, anche maleducato e volgare, acido e sboccato, cinico e disilluso, dal cuore fragile e bisognoso d'affetto, nel quale fa breccia (la Porta Pia scorbutica cade rovinosamente e apre speranze) davanti all'ingenuità, all'incoscienza, alla freschezza di un bambino (il bravissimo, sciolto, divertito, naturale e già pronto anche all'improvvisazione e al gioco sul palco, Gianmaria Corona di dieci anni, per la prima volta in scena) il nipote, anche lui in balia delle circostanze della vita che tutti ci rende sbattuti dalle onde: i genitori che si stanno separando, i bulli a scuola che lo prendono in giro perché non sa difendersi, lo chiamano “femminuccia”, gli rubano gli occhiali. Lo zio coriaceo e incattivito, spacciatore e frequentatore di persone poco raccomandabili, si rivede, anche grazie alle favole-metafore di Esopo che il bimbo gli legge, si rivede nelle mosse e movenze, gesti e insicurezze del nipote, ricordandosi di come era, quando aveva sogni e aspettative, di quello che poteva essere e di ciò che non è stato, essenzialmente perché aveva avuto timore nell'affrontare le sue paure e quindi superarle.
Aveva cercato invece di costruirsi una corazza di ferraglia, uno scudo violento di teschi e musica metal punk a volumi insostenibili per stordirsi, credendo che questi potessero allontanare il mostro da sotto il letto, quando il nemico, nella maggior parte delle occasioni, vive e vegeta e si autoalimenta proprio dentro di noi, anzi siamo proprio noi a remarci contro, a non credere nelle nostre possibilità, a non concederci nuove chance, a darci per morti e sconfitti ancor prima di averci provato con tutte le forze. Un testo adatto anche per le scuole perché è in quel delicato passaggio, dalla spensieratezza dell'infanzia ai cambiamenti dell'adolescenza, che si forma e si struttura la donna o l'uomo di domani e l'accettarsi e il relazionarsi con i propri limiti e le proprie debolezze è il primo passo per poter essere, in futuro, adulti che pensano con la propria testa, individui capaci d'amore, d'affetto, di solidarietà. La crescita è un trauma, ma scappare dalle piccole grandi prove che ci pone è solamente un rimandare il problema, farlo aumentare a dismisura, renderlo talmente grande, insormontabile e invincibile che, prima o poi, se non fronteggiato e relativizzato, ci fagociterà.

Visto al Teatro di Rifredi, il 12 aprile 2016.

Tommaso Chimenti 14/04/2016

FIRENZE - “Senza piccioli e rispetto sei il nulla mischiato al niente”, Totò Riina.
“Quando c'è un delitto di mafia, la prima corona che arriva è quella del mandante”, Gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa
“Gli farò un’offerta che non potrà rifiutare”. (“Il Padrino”)

E' la nostra industria più florida, quella che guadagna e fa guadagnare, che ha più fatturato. Se gli Stati Uniti non sono riusciti ad esportare la democrazia a suon di bombe tra Iraq e Afghanistan, noi siamo stati capaci di esportare la mafia negli Stati Uniti. “La mafia è il miglior esempio di capitalismo che abbiamo”, Marlon Brando.
Pasta, pizza, mandolino. E mafia. Potremmo essere polemici e dire che parlare di Mamma Santissima e lupare qui da noi sarebbe come andare in Spagna e parodiare su quello che è stata l'Eta, le bombe, gli agguati, gli attentati. Non sarebbe bello, non sarebbe giusto. Puoi dire mafia e accennare a “Terapia e pallottole” oppure al “Padrino” o “Donnie Brasco” e spingerti fin verso “Bronx”, “Gli intoccabili” o “Quei bravi ragazzi” dove il crimine si mischia alla leggenda di certe frasi epiche, di certi registi e registri, di certi attori che la sanno lunga, di certi sguardi che forano, che bucano, che trafiggono. “Un bravo ragazzo ha sempre ragione; anche quando ha torto, ha ragione”, Donnie Brasco)
Oppure pensare, peschiamo un po' a caso nella memoria, a Salvo Lima e Peppino Impastato, Carlo Alberto Dalla Chiesa e Don Diana, Don Puglisi e al piccolo Giuseppe Di Matteo disciolto nell'acido, a Falcone e Borsellino, ai Georgofili e ti passa subito la voglia di ridere e pure quella di sorridere. E come gli Yllana (yllana.com), il gruppo spagnolo che torna spesso al Teatro di Rifredi di Firenze (il trio Mordini-Savelli-De Biasi ci porta sempre in un mondo di raffinato teatro internazionale), hanno ironizzato sul mondo del mare, “Splash!”, e sui toreri, “Muu!”, sui Safari, “Zoo”, e pure sugli Spaghetti Western, “Far West”, allora gli passiamo anche questa pantomima che nel mondo ci identifica, ci inquadra nell'equazione italiani uguali mafiosi e dalla quale è difficile staccarsi e sottrarsi. Ridiamo di noi stessi senza dimenticare però la scia di sangue, le ferite ancora non rimarginate, la mafia tumore non debellato. “La mafia uccide, il silenzio pure”, Peppino Impastato.
Più che della mafia (delineata con tratti di demoni o mostri tra Frankenstein e Lerch della Famiglia Addams) dai contorni di chiaroscuri pennellati da Museo delle Cere, maschere deformi, macellai (viene in mente la Cianciulli) storpi e gobbi, sembra che “Baciamo le mani” sia più un confronto tra una squadra di investigatori stupidi, alla “Scuola di Polizia” o la trilogia “Una pallottola spuntata”, con un gruppo di criminali da strapazzo in stile rapinatori di “Mamma ho perso l'aereo” o di rapitori nei “Goonies”. L'atmosfera a tratti si fa splatter e pulp, molto humour nero, portandoci in atmosfere da “Seven” o “Collezionista di ossa”, da serial killer tipo Dexter, Jack lo squartatore o Freddy Kruger.
Le luci sul fondale, rossissimo come in Shining quando avvengono torture (ricordando “Le iene” di Tarantino) o assassinii brutali, o blu nei quadri più leggeri, fanno il loro effetto, così come gli incastri, nel gramelot spagnoleggiante, tra i quattro, eclettici, elettrici, che a turno, a ciclo continuo, sono poliziotti e criminali, in un veloce trasformismo. Ci sono i proiettili e gli spari, le mazze da baseball per le punizioni, le intimidazioni e le esecuzioni, cazzotti, soldi e cocaina. Guns senza roses. Spuntano altre citazioni e rimandi: puoi scovare pezzi di “Kill Bill” o “Full Monty”, “Buried”, il sepolto vivo nella bara, fino a “Rocky” e Jason, il pazzo sanguinario con la maschera da hockey, “Scarface” o “Il Grande Lebowsky”, le ceneri dei caduti. Tra i difensori della legge, emuli dei b movie all'italiana di Lino Banfi o seguaci di Mel Brooks, e i dannati, la morale finale non aiuta certo i primi. E la tarantella italiota conclusiva, al sapore del “That's amore” di Dean Martin, chiaro riferimento nostalgico tricolore, ci riporta alla riflessione iniziale.

Visto al Teatro di Rifredi, Firenze, il 31 dicembre 2015

Tommaso Chimenti 01/01/2016

Libro della settimana

Facebook

Formazione

Sentieri dell'arte

Digital COM