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Singles, commedia scritta dai giovani autori francesi David Talbot e Rodolphe Sand, ha debuttato il 12 febbraio e sarà in scena al teatro Vittoria di Roma fino al 24 febbraio. I giovani autori sono riusciti a confezionare un piccolo gioiellino di intrattenimento, che in italiano non perde nulla della sua potenza comica, anche grazie alle interpretazioni degli affiatati Marco Cavallaro, Claudia Ferri e Antonio Grosso. Una commedia tragicomica sul mondo dei single, visto attraverso gli occhi disincantati di tre amici che, stanchi di ritrovarsi sempre e solo ai matrimoni dei loro ex, decidono di mettersi finalmente alla ricerca dell’anima gemella. Decisione che innescherà una serie di situazioni e scene ai limiti dell’assurdo, tra serate in discoteca per cuori solitari, campeggi per single, appuntamenti al buio e una marea di equivoci e scambi di persona a condire il tutto.
I tre personaggi sono il paradigma, volutamente e ironicamente stereotipato, di alcune tipologie di single esistenti: Giuliana, insicura e iperattiva bibliotecaria, segretamente innamorata di Bruno, aitante esperto di marketing che si definisce “single per scelta”, e Antonio, impacciato e timido biologo innamorato di Giuliana. Travolti dalle circostanze, il single per scelta, quella disperata, e quello rassegnato, si daranno da fare nella ricerca dell’anima gemella, strappando una risata al pubblico.
È proprio sulla grande chimica interpretativa fra i tre attori che ruota il perno comico di Singles, commedia che di per sé non inventa nulla in termini di intrattenimento, ma che riesce comunque a far ridere di gusto il pubblico presentando situazioni caricaturali, esagerate ma nelle quali ogni persona può riconoscersi. La vocazione macchiettistica di Marco Cavallaro, interprete di Antonio, unita alla spacconeria e alla sicurezza di Antonio Grosso, e all’instancabile energia e intensità espressiva di Claudia Ferri, creano un cocktail esplosivo di ironia, parodia e buon umore che fa passare un’ora e mezzo in allegria.
Molto simpatico e spontaneo anche il siparietto che i tre improvvisano a fine rappresentazione, ringraziando il pubblico presente alla prima, e scattandogli una foto con le mani alzate, sempre fra battute, scambi con la gente seduta in platea, ironia e autoironia. Una piccola curiosità: la voce registrata che si ascolta durante lo spettacolo è di nientemeno che Paola Cortellesi.
Singles è una commedia perfetta per passare una serata in spensieratezza, che siate single, coppie, o coppie che aspirano a diventare single, come sottolinea Antonio Grosso nel divertente fuori sipario dopo lo spettacolo. Una commedia sapientemente lanciata da teatro Vittoria a ridosso di San Valentino, per ridere delle proprie piccole e grandi tragedie sentimentali, in compagnia di tre bravi e affiatati attori.

Giulia Zennaro, 12/2/2019

«Non si può essere una cosa per tutta la vita». “Carl – Una ballata” è la storia del cupo Carl e della sua spumeggiante moglie. È la storia di chi sono, di chi appaiono e di chi credono di essere. Perché in questa storia nella storia, in cui non si capisce dove termini una e inizi l’altra, fino alla fine realtà e racconto sono amalgamati in una trama misteriosa. Lentamente la verità si svela, tra comicità, poesia e dramma.

Lo spettacolo di Giulia Bartolini (che ne ha curato anche la regia) ha aperto alla grande la rassegna “Salviamo i talenti” del Teatro Vittoria: quattro serate, quattro progetti teatrali promossi da giovani attori, autori e registi. Al migliore (votato anche dal pubblico che acquisterà l’abbonamento per l’intera rassegna e assisterà a tutti e quattro gli spettacoli) andrà il Premio Attilio Corsini, pertanto verrà prodotto e inserito in cartellone per la stagione 2018/2019 del Teatro.

Tre gli attori in scena per “Carl – Una ballata”: una sempre deliziosa Giulia Trippetta (che si cimenta anche nel canto e nella recitazione dialettale), Luca Carbone nei panni del protagonista e Francesco Cotroneo, in un ruolo ambiguo e in bilico fino all’ultimo tra menzogna e immaginazione.

Carl – Una ballata” utilizza un allestimento scenico essenziale: un unico e massiccio mobile, con ripiani e cassetti, diventa lo stratagemma per strutturare la storia su più livelli e in più stanze. Così vediamo la Trippetta sbucare da un vano che funge da accesso alla cucina e Cotroneo e Carbone infilare la testa in fessure quadrate come fossero diversi uffici comunicanti di uno stesso edificio.

«Non chiamo per un contratto, volevo scusarmi per il ritardo, sto arrivando», dice una voce al telefono, squillato poco prima che Carl (scrittore per vocazione, di mestiere) e sua moglie stianoCarl una ballata mettendo piede fuori casa per andare a teatro. «Ma io non sto aspettando nessuno, stiamo uscendo», dice lui incredulo. «Ho le chiavi, entro da solo» taglia a corto il misterioso uomo dall’altra parte della cornetta. La storia si apre così, con questa telefonata paradossale che coglie i due sposi in un momento di tranquillità e quotidianità: lei si sta mettendo lo smalto alle unghie, lui sta scegliendo cosa indossare, innocentemente guidato (per così dire!) da sua moglie nella scelta. Quella al telefono è una voce che viene direttamente dal passato e che costringerà Carl a fare i conti con la storia della sua famiglia, con chi era prima di incontrare sua moglie e con chi i due sono diventati insieme, forse loro malgrado, forse senza neppure rendersene conto. L’eco del passato che il terzo personaggio porta con sé, insieme al conflitto e al capovolgimento delle certezze, diventa una storia tutta da scrivere per Carl, un romanzo che inizia così: «12 maggio, anno della Rivoluzione. Due ragazzini sulla sponda di un fiume pescavano con una piccola rete…». 

Man mano che la trama di questo romanzo (inventato, ma poi nemmeno troppo…) va avanti, scritto a sei mani dai protagonisti, emergeranno in Carl dolorosi ricordi e sofferte consapevolezze: in quel fiume qualcuno è morto e qualcuno è scappato. Fino al completo disvelamento della verità le carte in tavola vengono mescolate e rigirate, lo spettatore ride e si emoziona; viene condotto per mano nella piccola storia (quella del romanzo che Carl scrive col misterioso uomo che gli piomba in casa) e nella grande storia che fa da cornice (quella di Carl e sua moglie), fino a quando, nel finale, le due non si sovrappongono quasi annullandosi a vicenda.

Giuseppina Dente 31/05/2018

La rassegna del Teatro VittoriaLe donne erediteranno la terra” si chiude con un omaggio ad Augusta Ada Byron Lovelace, soprannominata “La fata matematica”, titolo dello spettacolo della regista Valeria Patera in scena fino al 16 maggio.

È lei a spiegare, la sera del debutto, l’importanza di questa grande donna nella storia dell’informatica: «Lei ha immaginato l’era digitale, ha immaginato quello che noi oggi facciamo» e lo ha fatto quando da immaginare c’era davvero tanto, perché di tecnologia invece ce n’era davvero poca. Siamo nel pieno della Rivoluzione industriale in Inghilterra, non esiste la fotografia, non c'è corrente elettrica domestica: non è un caso che lo spettacolo si apra proprio con Ada Byron che entra nel buio della sua stanza con in mano una candela. Il lume della sua intelligenza fu un faro nel buio di quegli anni ancora così lontani dall'essere ciò che lei prefigurava già nella sua mente geniale, capace di 'prevedere' un futuro dove «La macchina sarà in grafo di fare tutto quello che anche noi facciamo».  

Augusta Ada Byron Lovelace (Galatea Ranzi), figlia del noto poeta Lord Byron, è considerata la prima programmatrice della storia: fu lei, nella prima metà dell’Ottocento, ad avere intuizioni geniali e quasi profetiche sull’avvento della cultura digitale e della sua preponderanza crescente nell’era moderna. Charles Babbage, (Gianluigi Fogacci) che con lei lavorava al progetto della macchina analitica multifunzione, le diede il soprannome scelto dalla Patera per lo spettacolo: per lui la giovane era The mathemathical fairy, per le sue abilità coi numeri bilanciate da una estrema fantasia e una mente assolutamente libera da ogni vincolo.

La rappresentazione teatrale è un notturno articolato in tre quadri, supportati da musica (originale di  Francesco Rampichini) e sequenze video. Ciò su cui regia e testi (anche questi della Patera) puntano è proprio il carattere LaFataMatematica3indomito della Byron, il suo tentativo di evadere attraverso lo studio dalla ferrea disciplina, dalle rigide regole, dalla ridicola morale imposti dalla figura materna, donna opprimente la cui figura viene più volte richiamata. Nel lungo monologo c’è spazio per la figura paterna (mai conosciuta eppure tanto amata), il matrimonio (definito «Il maggiore errore, un’illusione»), gli amori (compreso quello per la musica, le scienze naturali e soprattutto i numeri).

Questi ricordi di vita intensamente vissuta sono quelli di una donna morente: la Byron portata in scena è appena 36enne, ma gravemente malata e sul punto di soccombere sotto i colpi di un tumore all’utero. La recitazione di Galatea Ranzi è appassionata, ci restituisce una Byron sofferente, sulla sedia a rotelle, ma ancora molto lucida, nonostante il frequente uso di oppiacei per limitare i dolori.

«Le giornate con Babbage, lavorare alla macchina analitica, sono state le più belle della mia vita» dice nostalgica Ada ByronLa maga che ha sparso la sua formula magica intorno alle massime astrazioni della Scienza e ha saputo penetrarle con una forza che pochi intelletti mascolini hanno avuto modo di mettere alla prova, come disse di lei l’affettuoso e stimato collega.

Giuseppina Dente  16/05/2018

Il 3 maggio, al Teatro Vittoria di Roma, Aldo Cazzullo ha inaugurato “Le donne erediteranno la terra”, rassegna che trae spunto proprio dal saggio omonimo dell'editorialista; un progetto ideato dalla direttrice artistica Viviana Toniolo che si concluderà il 16 maggio e che vanta un ricco calendario di eventi.
Il giornalista del Corriere della Sera ha così avuto la funzione di padrino d’eccezione per l’apertura di una rassegna in cui la figura della donna viene messa in risalto attraverso un’indagine sociologica, culturale, filosofica e storica sul suo ruolo e sulla sua importanza nel passato, nel presente e nel futuro che ci attenderà. Il libro, edito da Mondadori, diventa uno spettacolo teatrale, in cui all’autore si affianca l’attrice Beatrice Luzzi, la quale ha interpretato più figure femminili che, in un modo o nell’altro, sono state determinanti nella storia dell’umanità.

La consapevolezza della forza e della grandezza delle donne non viene meno, nell’immaginario di Cazzullo, anzi: "Voi donne siete meglio di noi. Non pensiate che gli uomini non lo sappiano; lo sappiamo benissimo, e sono millenni che ci organizziamo per sottomettervi, spesso con il vostro aiuto. Ma quel tempo sta finendo. È finito, comincia il tempo in cui le donne prenderanno il potere".

Dunque erediteranno la terra in quanto conoscono il significato profondo del sacrificio e sanno gestire fantasmi e paure, ma soprattutto perché sono in grado di mettere sempre in atto uno spirito esclusivo, quello materno; così potranno prendersi cura del destino di tutto ciò che le circonda.
Nel saggio, il giornalista marca la forza e la temperanza al femminile, a cui gli uomini al giorno d’oggi non danno così spazio nelle decisioni quotidiane. In questo gioco delle parti, la donna sa quale sia stato ed è il suo ruolo nella società e non le serve rivendicare un proprio spazio vitale in cui coltivare ideali; inoltre conosce esattamente l’umanità che le gira intorno e soprattutto sente bene ciò che gli uomini non potranno mai percepire, ovvero la bellezza nell’essere vita che dà alla luce la vita.
“Le donne erediteranno la terra” non vuole essere l’esaltazione fine a se stessa dell’universo femminile: è la prova di sensibilità e di ricerca che un intellettuale fine come Aldo Cazzullo, lontano dall’attività del semplice giudizio, scrive per raccontare storie in cui poter cogliere una filosofia basata su ammirazione ed amore e dove ricordare, pagina dopo pagina, aneddoti e vicissitudini di donne esemplari, coraggiose, determinate e determinanti per la storia.
Le donne erediteranno la terra, come lo faranno Lisistrata, Marie Curie, Franca Valeri; e ancora, Ilaria Cucchi, Giovanna D’Arco, Valeria Solesin e molte altre.
Tutte, in un modo sempre autentico, avranno cura nei confronti della loro porzione di mondo.

Lucia Santarelli 07/05/2018

"A lasciare i miei libri mi sembra di morire un po’ meno quando morirò. Proprio come succede quando si lascia un figlio e si continua a vivere attraverso di lui." O. Fallaci

Maria Rosaria Omaggio entra in scena dal fondo, con una sigaretta accesa tra le dita: da qui in poi sarà un flusso di parole ininterrotto il suo, accompagnato dalla musica suonata al pianoforte da Cristiana PegoraroMusica e parole, dunque: la prima, quella cara alla grande scrittrice e giornalista italiana Oriana Fallaci (1929 - 2006), le seconde quelle che questa grande donna ci ha lasciato nei libri scritti in sessant’anni di carriera. 

Le parole di Oriana in concerto” è una narrazione fatta in prima persona in cui Oriana si racconta, ripercorre la sua vita, i suoi drammi, le difficoltà, ricorda gli uomini della sua vita. Nulla di inventato o di ricostruito a tavolino, bensì una sorta di collage sensato e omogeneo ottenuto mettendo insieme estratti di “Lettera a un bambino mai nato”, “Il sesso inutile”, “La rabbia e l’orgoglio”, “Autoritratto di una donna scomoda”, fino ad “Un cappello pieno di ciliege” (libro pubblicato postumo, nel 2008). In questo montaggio trovano spazio tanti temi cari alla scrittrice: l'Islam, la figura della donna, la vita di coppia, la maternità. E tanti sono gli episodi rievocati: la staffetta partigiana col nome Emilia, l'incontro con Paolo Nespoli negli anni Novanta (con lui avrà una storia d'amore lunga cinque anni), l'intervista di fuoco all'Ayatollah Khomeini (26 settembre 1979). In quell'occasione si tolse il chador che le era stato imposto di indossare, definendolo «uno stupido cencio da Medioevo»: gesto di sfida che solo una come lei poteva compiere. 

Le parole di Oriana in concerto 2

Sullo sfondo, come a voler rendere visivi quei pensieri, immagini (elaborate da Carlo Fatigoni e Vincenzo Oliva) che ripercorrono spaccati di vita della Fallaci e materiali appartenenti al bagaglio culturale e storico comune, come l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, episodio indelebile nella mente di tutti e che ha condizionato tantissimo la scrittrice.

Schiva, riservata, seria, dura, disciplinata, coraggiosa, indipendente, asociale quasi: questi gli aggettivi che la stessa Fallaci riserva a se stessa. Ma soprattutto: libera. Non una santa, non una guerriera, non un mito, ma una donna libera e pronta a battersi in difesa di questa libertà, una che scrive non per soldi né per fama, ma per dovere innanzitutto. Un dovere che l’aveva forse limitata nella vita privata, ma non al punto da tollerare chi la descriveva come una donna incapace di amare e completamente dedita alla carriera. In questo quadro non si riconosceva. Certo, era abituata a ritmi frenetici di lavoro, ad ore ed ore dedicate ininterrottamente alla scrittura, senza vedere nessuno né uscire. In quei momenti necessitava di assoluta solitudine: unica compagnia quella della sigaretta, anche 50 in un solo giorno. Ma da donna appassionata e passionale quale era, aveva anche molto amato e molto era stata amata, certo non al punto da pensare ad un matrimonio, mai preso in considerazione perché contrario ai suoi principi e al suo modo di concepire la vita. 

I momenti più intensi dello spettacolo sono quelli dedicati all’11 settembre 2001 e all’omicidio di Pier Paolo Pasolini. Il primo evento toccò la scrittrice da vicino, non solo perché si trovava proprio a New York in quel momento, ma perché era da tempo che si dedicava alla questione islamica e al rapporto tra integralismo ed Occidente, tema delicato riversato in pagine e pagine di libri ed interviste, profonde e per certi versi profetiche, entrate nella storia. Al poeta italiano è dedicato un ricordo particolarmente commosso e coinvolgente, visto che in prima persona la Fallaci collaborò alle indagini e fu la prima a denunciare il movente politico dell'omicidio del caro amico.

Le parole di Oriana in concerto” è un’occasione per approfondire questa figura per certi versi ‘scomoda’, personaggio italiano tra i più famosi nel mondo, a lungo studiato dall’interprete, che la porta in scena da ormai undici anni. Proprio Maria Rosario Omaggio dice: «Ho imparato che solo Oriana può raccontare la Fallaci e solo attraverso le fessure dello sguardo osservatore, arguto e sensibile della Fallaci è possibile rivelare Oriana nella sua natura più intima e quotidiana. Così la messa in scena diventa anche la riscoperta del suo instancabile lavoro, di tante pagine della sua grande opera, stimolando a leggerla o rileggerla. “Le parole di Oriana in concerto” è un omaggio ad una grande italiana, un’ammirata attenzione agli scritti preziosi che ci ha lasciato e che l’hanno resa famosa nel mondo intero».

Giuseppina Dente 07/05/2018

Al Teatro Vittoria di Roma va in scena “La Divina Sarah”, un omaggio alla celebre Sarah Bernhardt diretto da Marco Carniti a partire dal testo “Memoir” di John Murrel. Sul palco Anna Bonaiuto nel ruolo della protagonista e il rosa antico, colore della memoria. Come ne “I preludi colorati”, piccole composizioni per giovani pianisti firmate Remo Vinciguerra, il ricordo della grande attrice prende la forma labile della musica. Il suono della voce risalta nel silenzio mentre un pianeta illumina la scena e la tinge di colori tenui che rimandano all’infanzia, alla giovinezza, alle emozioni più intime, agli odori più antichi e personali. AnnaBonaiutoeGianluigiFogacci2

È la seduta psicanalitica in cui ognuno, alla resa dei conti, assume il duplice ruolo di paziente e dottore. Al crepuscolo della vita, Sarah Bernhardt come Re Lear guarda in faccia il vuoto avvenire e si lascia alle spalle un mare in tempesta; riflette sul senso della vecchiaia e su tutta sé stessa. È un momento in cui si concede tempo e spazio a quella segreta introspezione che nella frenesia vitale non trova una propria dimensione che la salvaguardi dall’essere eterea. L’andamento narrativo prosegue attraverso un progressivo riordino. La scenografia di Francesco Scandale è funzionale alla drammaturgia. Nel primo atto una linea immaginaria divide lo spazio scenico tra ordine e disordine: la parte sinistra rappresenta l’esteriorità di Sarah, una donna anziana ma elegante, autoritaria, decisa; a destra la memoria trova dimora e deriva attraverso i simboli del grammofono e di faldoni di carte disordinate. Anche le logge sullo sfondo, se a sinistra sono ben allineate, a destra sono posizionate asimmetricamente. La Bonaiuto è supportata da un eclettico Gianluigi Fogacci, non solo maggiordomo ma personalità camaleontica che, tra risata e serietà, assume il colore di ogni personaggio che la mente di Sarah rievoca: la madre, l’amante, il produttore, l’amico. È un trasformista al servizio dei ricordi. “La Divina Sarah” esalta l’importanza della memoria sia per la storia comunitaria che per l’emozione personale. Diari e biografie sono fonti preziose per studiare e conoscere nel profondo i grandi personaggi della storia dello spettacolo, per conferire loro uno spessore al di là del volto esteriore che giornalmente costruiscono allo specchio. Tra vita e palcoscenico, il retropalco delle dive è amaro e miseramente umano: «Quel capriccio inappagato le guastava il trionfo della sera prima. Possibile che, tra tutti gli uomini che l’avevano acclamata, non ce ne fosse uno che le portasse quindici luigi? Poi non si potevano accettare dei soldi così. Mio Dio! com’era sfortunata!». È quel che accade anche alla giovane Nanà di Émile Zola, in teatro dea, fuori da esso prostituta, povera, infelice. Carniti sceglie di raccontare La Divina Sarah non attraverso i successi ma esplorando l’umanità, il temperamento e l’anima del personaggio.

L’attrice tende lo sguardo verso il viale del tramonto ma insegna che il sole non scompare, se non dal nostro punto di vista. E la luna, nella notte della vita, può apparire più luminosa del sole, amichevole, rivale, ospite: conviene farsi belle e prepararsi ad accoglierla. Dopo aver giocato con la morte dormendo in una bara, dopo essere deceduta così spesso in scena e con tale successo, la vecchia stella contempla la fine e condivide la propria malinconia con un rassicurante Oscar Wilde seduto in riva al mare. L’epilogo vede Sarah allontanarsi verso l’orizzonte con il sorriso di chi sente di avere sempre quindici anni e con le parole di Wilde che riecheggiano lontano: «tu non morirai mai».

Benedetta Colasanti 09/04/2018

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