Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

                                                                                                             

FIRENZE – Facciamo un ripasso, un riepilogo. Che è sempre importante capire dove siamo per poi tracciare una linea sul futuro. Che cosa abbiamo visto, a teatro, in questo 2016 che va a concludersi che ci ha fatto sobbalzare dalla poltrona vellutata, che ci ha fatto rimanere incollati con gli occhi fissi sul palco, che ci ha fatto esclamare o respirare o applaudire come forsennati alla fine in un moto non di liberazione ma di gratitudine infinita per il tempo e l'arte che gli interpreti ci avevano regalato. L'elenco è, come deve essere, personale e parziale. Nessuna classifica. Questi sono i “miei” spettacoli di quest'anno che, al mondo del teatro, ha portato via principalmente Giorgio Albertazzi, Paolo Poli, Anna Marchesini e Dario Fo. Quelli in cui ho goduto e riso e mi sono commosso e ho detto alleluja.ChimentiCamera701
Cominciamo random, senza una scaletta cronologica. Accanto ad ogni spettacolo citato sarà presente il luogo, lo spazio, il teatro dove ho visto la piece. Li abbiamo visti in piccole rassegne o in giganteschi festival internazionali, la maggior parte in Italia, a Milano, Modena, Genova, Firenze, Messina, alcuni all'estero. Ecco la mia pattuglia, la mia ciurma, il mio esercito.

Non si può definire spettacolo muto “Murmel, murmel” (foto di copertina) dei tedeschi della Volksbuhne (Festival Gift, Tbilisi) perché dalle loro bocche esce ossessivamente un'unica parola, appunto quella che nel titolo appare due volte. Un grande incastro di paraventi, con precisione millimetrica, che scendono dall'alto o si chiudono dai lati, che danno l'effetto dello zoom di una macchina fotografica, portandoci, grazie ai costumi e alle musiche, nei favolosi anni '60 quando, per i protagonisti, oggi forse anziani, tutto era ancora possibile.
ChimentiGeppettoA che punto di svolta sia la drammaturgia dei Paesi dell'Est ce lo comunica, con piacere, “Camera 701” dell'autrice rumena Elise Wilk e visto per la regia di Ciro Masella (Intercity, Teatro della Limonaia, Sesto Fiorentino); il pubblico diventa voyeur spiando e sbirciando dentro questa room d'albergo dove si avvicendano persone, vite, futuri, perplessità, messe in gioco e in discussione. Come affrontare lo scottante tema dell'omogenitorialità che tanto recentemente ha fatto discutere ce lo spiega Tindaro Granata con il suo nuovo “Geppetto & Geppetto” (“Primavera dei Teatri”, Castrovillari), altra sua prova di maturità di scrittura, tutto giocato tra profondità di temi, senza dare niente per scontato né voler impartire nessuna verità o lezione, ma anche con ironia e leggerezza, che non guasta mai per far passare temi complessi.Chimentisanghenapule

Riuscire a trovare l'alternanza ideale e la sponda ad un campione della narrazione come Roberto Saviano non era facile ma in “Sanghenapule” (Piccolo Teatro, Milano) Mimmo Borrelli fa da contraltare perfetto con questa sua cifra classica che sempre si rinnova di sudore, corpo e parole che vengono da lontano, dal profondo, dal vulcano, dalle viscere per spiegare l'inspiegabilità di Napoli.
Da lontano arrivano anche le parole centenarie del “Minimacbeth” (Teatro di Buti, Pisa), la tragedia shakespeariana ma contratta, non accorciata né ridotta, ma ristretta come un caffè nerissimo e per questo ancora più potente. Marconcini e la ChimentiminimacbethDaddi, con la loro età, sulle spalle sono riusciti a dare ancora più umanità ai due regnanti usurpatori e più sostanza ai fantasmi che gli girano intorno.

C'è un qualcosa in più del teatrale, del metateatrale nel “Golem” (Teatro Vittorio Emanuele, Messina) della compagnia ingleseChimentiGolem 1927 dove convivono in un senso d'armonia, difficilmente trovata altrove, la musica dal vivo, le scene, i video, i filmati, come essere catapultati dentro un grande videogioco ed essere imbrigliati, come accade nella realtà con la grande illusione-paravento della libertà di scelta, nelle regole imposte da qualcun altro. Siamo noi i protagonisti passivi e rassegnati che si affidano al Golem per la risoluzione dei loro problemi, non capendo che delegare i propri diritti non ci rende più liberi ma più schiavi.
ChimentigiocatoriIn un interno napoletano, ma potremmo essere dovunque, quattro uomini (su tutti Enrico Ianniello e Tony Laudadio) attorno ad un tavolo, quattro “Giocatori” (Teatro Niccolini, Firenze) mettono sul piatto frustrazioni e fallimenti, scollamenti tra quello che avrebbero voluto essere e quello che sono diventati. Si sono giocati la vita e ora tentano l'ultimo colpo, gabbare la sorte, l'ultimo colpo di coda, meravigliosamente malinconico.ChimentiVania

Altra periferia, prima geografica e metropolitana poi dell'anima, per la trasposizione da Cechov all'hinterland milanese del “Vania” degli Oyes (Spazio Tertulliano, Milano) , una delle novità più illuminate dell'anno, un gruppo da tener d'occhio. Un impianto cupo, marginale dove l'insoddisfazione e la non realizzazione la fanno da padrona, con una cappa di melassa amara che tutto copre e avvolge, imprigionandoci.

ChimentiSantaEstasiIl progetto più complesso e articolato dell'anno è stato certamente “Santa Estasi” (Teatro delle Passioni, Modena) coordinato da Antonio Latella fresco neo direttore della Biennale Teatro di Venezia. Otto spettacoli (da vedere assolutamente in lunghissima maratona consecutivamente) di otto giovani drammaturghi, una ventina di attori under 30, alcuni veramente straordinari, per un impianto contemporaneo dal sapore antico, una grande maestria registica applicata al mestiere dell'attore in un connubio, in una miscela, in un tutto, finalmente, compiuto, essenziale, necessario.ChimentiOrfeo
Altro grande e impegnativo progetto è stato l'“Orfeo Rave” (Fiera, Genova) del Teatro della Tosse, che ha rappresentato una sorta di sollevazione e orgoglio genovese. Dieci repliche per cinquecento persone a sera, in uno spettacolo itinerante con oltre dieci location e spazi utilizzati all'interno dell'allora appena chiusa Fiera del Mare. Un viaggio tra i budelli della città, del Mito, di noi stessi, e una voce meravigliosa, quella di Michela Lucenti, da sentire, risentire e sentire ancora.

ChimentiScuolaNon può mancare uno spettacolo corale, e che, a prima vista, poteva sembrare sorpassato dagli eventi, triturato dall'acqua passata sotto i ponti in questi venti anni dalla sua prima uscita. E invece regge, e ancora molto bene, “La scuola” (Teatro Era, Pontedera), Silvio Orlando su tutti ma non solo, dove l'equilibrio tra un'ironia spassosa, e a volte irrefrenabile, e sentimenti e profondità e lezioni di cultura civile, è il nodo sottile che lega ogni scena in una calda atmosfera di vicinanza e umanità, di scontri e passioni, come sono quelle di vivere, di insegnare e di confrontarsi.ChimentiStraniero
Utile come non mai oggi rileggersi Camus, passando per i Cure. Ecco “Lo straniero” (Teatro Niccolini, Firenze) in forma di monologo con un gigantesco e strepitoso Fabrizio Gifuni che dà voce e corpo, fermo, impassibile, senza emozioni né reazioni al “nostro” antieroe con un'empatia, una sostanza, un'elettricità statica che tutto pervade e corrobora e frigge intorno.

ChimentiTennisUltime due segnalazioni per due piccoli, ma grandissimi, spettacoli: “Le regole del giuoco del tennis” (Teatro delle Spiagge, Firenze) nel quale Mario Gelardi del Teatro Sanità di Napoli ha saputo applicare allo sport, in questo caso a quello di racchette, palline e net, l'amicizia ma anche le convenzioni sociali legate sia alla sessualità che all'accettazione prima di sé e dopo da parte della società: messaggio semplice e potente.
Quante volte ci siamo ritrovati a pensare, la testa tra le mani oppure guardando un punto indefinito, lontano, nel nulla. Quante volte abbiamo letto Paperino che faceva ruminare i suoi pochi neuroni con il fumetto pannosoChimentiMumble sulla testa che diceva, silenziosamente, e mugugnava il suo “Mumble, mumble” (Teatro del Sale, Firenze). Le riflessioni di una vita, il mettersi a nudo e raccontarsi non è mai cosa da poco. Emanuele Salce si apre, con il suo fare sornione e sensibile, e ci porta dentro il suo rapporto con il padre naturale, il regista Luciano Salce, e il padre che lo aveva adottato, Vittorio Gassman. Nomi che mettono i brividi e che, in qualche modo, hanno “schiacciato” prima il bambino e poi il ragazzo divenuto attore per caso ma non per sbaglio. Perché dal palco alla platea riesce a far passare, con leggerezza e sobrietà e autoironia, tristezza e nostalgia, distacco e disincanto, ma anche bisogno d'affetto infinito. Mumble è più pensiero che ripensamento, è un momento necessario per andare avanti e voltare pagina, per vedere chiaramente il passato e potersi, liberandosi, immaginare il futuro. Come solo il teatro sa e può fare.

Tommaso Chimenti 23/12/2016

Nelle foto gli spettacoli nell'ordine in cui sono stati menzionati

PONTEDERA – Sono passati venticinque anni dalla prima messinscena e le cose a livello scolastico-didattico-pedagogico all'interno dei nostri istituti superiori non sono certo migliorate. Anzi. Ancora, purtroppo, attualissimo “La Scuola” che dal teatro passò al cinema, trattato da Daniele Luchetti (che si è ultimamente perso sulla via giubilare di Francesco) e che adesso ritorna al palco. Silvio Orlando c'era e c'è. Non ci aveva convinto qualche anno fa come Shylock nel “Mercante di Venezia” curato da Valerio Binasco, qui invece affonda nella sua materia, quella della delicatezza e del fallimento, fallibilità e fallacità umana, i buoni sentimenti ma senza buonismo, la delicatezza di una carezza e la riflessione piena di ironia, privo di aggressività e colmo di dolcezza. Uno, dieci, cento Orlando vorremmo vedere.
A che punto è oggi la scuola italiana? E' sempre al suo posto il sindacato Gilda, nome più vicino ad una soubrette da dopoguerra che ad un'associazione di categoria. Non è ben messa né dalla parte chi sta dietro i banchi a studiare né dalla parte del corpo docenti, precari, vessati, spostati come marionette da una “Buona Scuola” che forse è stata così nominata proprio perché così ottima non è. In questi vent'anni da una parte ha lavorato sotto traccia il berlusconismo, con le televisioni del dolore e della stupidità dei reality alla rincorsa dello share ad abbassare sempre più la soglia di tollerabilità ed accettabilità delle immagini e dei messaggi propagandati e promossi, che hanno aiutato e favorito un analfabetismo di ritorno preoccupante. L'Accademia della Crusca ormai s'è arresa e rassegnata all'uso errato errato del congiuntivo, moribondo, ai “qual'è” oppure a “eco” al maschile o “i pneumatici”.
Qui, nella messinscena teatrale, a differenza del grande schermo, solo i professori affollano questa aula-capannone. Non ci sono i ragazzi, non ci sono gli allievi, non ci sono gli alunni. Soltanto un manipolo di docenti, frustrati, repressi, insoddisfatti per la maggior parte, che non hanno a cuore il loro lavoro pieno di responsabilità, che, proprio come una classe di giovani studenti, litiga, si attacca, piagnucola, si offende, si lamenta, si aggredisce, fa la pace, fa pettegolezzi, si unisce in fazioni, si divide in guerriglie di tutti contro tutti: “Siamo una grande famiglia”, “Sì, i Borgia”. Si ride dall'inizio alla fine.
L'attacco e la chiusa sono di un blues caldo, poderoso che apre e chiosa su questa sala professori, spostata in palestra, tra tubi per le riparazioni, impalcature di lavori in corso interminabili (metafora del sistema scolastico italiano), funi, armadietti rotti. Ci sono delle parole che aprono i cassetti della memoria di ognuno di noi: cimosa, gita, lavagna, note, registro, appello, interrogazione, compito in classe, giustificazione, assenza, campanella, compagni di classe, ricreazione, che anche a distanza di anni, di decenni, di lustri, provocano ancora sconquassi, brividi, incubi e poche volte nostalgia.
Ci arrivano tutti insieme come plotone militare con passo deciso che pare di avere di fronte “Il Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo. Ecco che affiora il Bart Simpson dei cartoni gialli statunitensi, così come Benigni che in “Non ci resta che piangere” diceva a Troisi: “Io, Giachetti lo boccio”, infiltrazioni da “Io speriamo che me la cavo” o “Auguri professore” dove svettava sempre la normalità paciosa di Orlando, prof illuminato alla “Attimo fuggente”, o ancora “Il rosso e il blu” dove al giovane insegnante, Scamarcio, pieno di entusiasmo vergine e di fuoco sacro, si contrapponeva il cinico e disilluso vecchio educatore, Herlitzka.
Due i perni su cui ruota tutta la drammaturgia: da una parte una presunta love story tra i personaggi di Orlando e Marina Massironi, dall'altra la decisione da prendere su uno studente problematico, e non proprio modello, pluriripetente, Cardini, negato per qualsiasi materia ma eccellente nell'imitare la mosca, metafora kafkiana dolorosa della sporcizia, fetore e squallore di molte famiglie, di futuri negati, dello stato della scuola pubblica nostrana, dell'illusione che si comincia nella vita tutti dallo stesso nastro di partenza con le stesse opportunità. Lo scrutinio, riguardante “l'avanzo di galera” Cardini, segue il procedimento de “La parola ai giurati”, con cambiamenti di opinione, convincimenti, conteggi tra salvezza e bocciatura.
Ci sono i professori arrabbiati dediti alla punizione e quelli alla giustificazione dell'alunno, chi vuole reprimere comportamenti non adeguati e chi li vuole capire: “La scuola italiana funziona solo con chi non ne ha bisogno”. Chi vuole stroncare (affiora “Il giovane Holden”) e chi vuole proteggere. Una lotta impari quella dei ragazzi contro l'adolescenza, i genitori, il loro corpo che cambia, il futuro, i professori. Tutti avremmo avuto bisogno di un prof come Silvio Orlando.

Visto al Teatro Era, Pontedera (PI), il 13 gennaio 2016

Tommaso Chimenti 16/01/2016

L’equilibrio tranquillizza, ma la pazzia è molto più interessante” (Bertrand Russel)
Siate affamati, siate folli” (Steve Jobs)
L’individuo equilibrato è un pazzo” (Charles Bukowski)

Lo abbiamo criticato in tutte le salse, da anni, ma Gabriele Lavia, seppur nelle sue regie composite annichilisca testo, scene e gli altri comprimari “uccidendo” chiunque osi girare attorno alla sua figura eccentrica e accentratrice sul palco, nella versione monologante riesce ancora a dare il meglio di sé con una forza, una visceralità, un'attorialità fuori dal comune. Un uomo di settantatré anni capace di un'ora e mezzo di monologo tiratissimo, superbo, di continue cadute in forma fetale, di strisciare stile marine sul campo di battaglia di una lingua di luce, di contorcersi con potenza dirompente tra le braccia bianche della sua camicia contenitiva manicomiale. Encomiabile. Ed infatti, il pubblico (per l'occasione il Teatro della Pergola aveva tolto il primo settore di file della platea; tre ordini di palchi e piccionaia rimasti vuoti), da sempre innamorato di questa sua generosità, gli ricambia una mini standing ovation.
Il grande palco della Pergola, casa sua, coperto di terra e terriccio (sembrava la scena iniziale del fenomenale “Hamlet” di Ostermeier), allungato, diventa terreno di guerriglia, largo e lungo, orto arido, podere sterile. Da solo, bianche le vesti e le carni, non sparisce in mezzo a quello spazio che avrebbe risucchiato e smontato molti attori delle giovani generazioni (come sparì Elio Germano nel suo “Tom Pain”). Invece Lavia, martellante, atletico, prestante, ingloba e non si fa fagocitare, lo direziona, lo modella, lo fa suo, lo sposta, lo declama, lo declina, lo incarna, lo aggiusta, lo plasma. Sua è la materia, suo il carisma, sua la voce che trionfa. Certo la recitazione è monocorde, come uscendo rimarcano in molti, melodrammatica e sempre sottolineantemente enfatica per un testo, questo “Sogno di un uomo ridicolo” (cavallo di battaglia del “consulente” del teatro massimo fiorentino, inserito nel cartellone in sostituzione della produzione brechtiana “Vita di Galileo” postposta ad inizio stagione prossima), datato 1876, circolare, a vortice dentro le maglie della coscienza corrotta umana.
La drammaturgia, da Dostoevskij, vive di scuri e penombre, e di un'armonia oscillatoria, dove ad ogni crescita di pathos ne consegue, quasi fosse una formula matematica di parabole ascensionali, una fase di caduta per poi riprendere slancio. Potrebbe essere “Diario di un pazzo” di Gogol o “La serata a Colono” con Carlo Cecchi. Bella, originale per Firenze, l'idea della Pergola, di programmare tre piece, questa, “La prossima stagione” di Michele Santeramo e “La famiglia Campione” de Gli Omini, in questo maggio con inizio alle 18.45, in stile Milano e nord Europa. Piccole novità, scarti da cogliere. Ci accoglie il meraviglioso sipario storico, sempre tenuto incelofanato, arrotolato e chiuso, dipinto da Gasparo Martellini nel 1826.
Un uomo chiuso dentro se stesso racconta il suo percorso, senza salvezza, un gioco dell'oca dove si torna sempre all'inizio, un contrappasso continuo, come il fegato di Prometeo divorato dall'aquila. Ridicolo è quest'uomo che è l'umanità intera, ridicola perché non riesce a capire, perché si lorda nelle piccolezze dell'esistenza, perché si fa la guerra per un tozzo di pane, perché è cieca di fronte al tempo, è minuta nei confronti dell'Universo e invece pensa di poter controllare e decidere su tutto. L'uomo è piccolo, infinitesimale, come un granello di sabbia, destinato a scomparire, a non lasciare traccia di sé, ma nonostante questo si agita, distrugge, infligge, a sé e agli altri intorno, sofferenze e crimini e vendette. Ma “L'uomo ridicolo” è anche una riflessione sull'uomo moderno, meschino, bugiardo, millantatore, attraverso la sua finitezza, nel viaggio attraverso la morte, nel passaggio paradisiaco che dovrebbe levare e lavare gli scempi terreni, ripulire l'anima, svuotare di fango, rendere nuovamente candidi e vergini. Ma l'uomo, per sua stessa e intima natura, è immorale e perverso, e, come mela marcia, intacca e fa sfiorire ciò che gli è attorno, come un Re Mida al contrario, rende immondo ciò che tocca.
Lavia (riesce nella difficile impresa di non far tossire alcuno in platea) è stretto e costretto, contenuto e imbrigliato in queste maniche legate dietro la sua schiena, la statua di una bambina (ricorda, per via del copricapo rosso, la bimba di Schindler's List) al lato del palco (evitabile questo finto realismo nel luogo dell'immaginifico per eccellenza, il teatro) che è l'innocenza e la purezza, e l'alter ego del nostro “uomo ridicolo”, in total black: questa la triade e la triangolazione in quest'arena da corrida che ad ogni passo s'alza la polvere di stelle che dal Cosmo si sparge indifferente sulla Terra e sui suoi abitanti. Monologo rabbioso e di tenerezza sull'impossibilità umana di saper cogliere le bellezze della pace e della tranquillità, sulla follia lucida dell'uomo che lo porterà alla sua distruzione ed eliminazione. Nel limbo post mortem, nel tragitto a ritroso dentro il cordone ombelicale della vita stessa, alle origini della sua essenza, nel contrappasso a ricercare i varchi della solitudine balbettante, quest'uomo senza etica, degno soltanto d'odio e disamore, riesce ad infettare come virus purulento anche il Paradiso, felice e ingenuo, per poi essere nuovamente sputato nel mondo dei suoi simili cattivi e ingiusti. Non c'è redenzione e la reincarnazione rimane soltanto quella che in psicologia definiscono “coazione a ripetere”.

Visto a Firenze, Teatro della Pergola

Tommaso Chimenti 28/11/2015

"Il sogno di un uomo ridicolo" sarà in scena al Teatro Era (Pontedera) il 5 e il 6 dicembre

Foto di Filippo Milani

Libro della settimana

Facebook

Formazione

Sentieri dell'arte

Digital COM