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Si apre su un palcoscenico claustrofobicamente vuoto, il sipario del teatro Ghione che il 4 aprile ha ospitato la prima di "Aspettando Godot", classico di Samuel Beckett diretto da Maurizio Scaparro. Un albero spoglio, volutamente artificiale ed essenziale nella sua plastica presenza, una seduta costituita da bancali per lo stanco Estragone, il fondale del cielo di un azzurro glaciale, cibernetico, da schermata di Windows ’98.
È all’interno di questo microcosmo perfetto, di questo girone infernale asettico, che si svolge la non vicenda scritta da Beckett in un dopoguerra che aveva svuotato, anche violentemente, il mondo di tutti gli orpelli, non da ultimo il mondo del teatro. Una non vicenda in cui la tentazione di vederci solo “teatro dell’assurdo” nella sua accezione più semplicistica è forte; la reale “assurdità” di questo teatro è invece la straordinaria capacità di dire non dicendo, di filosofare attraverso il paradosso, la burla e il silenzio, di narrare una storia buttando all’aria ogni elementare convenzione appresa dai libri.

La storia di Vladimiro ed Estragone è il paradigma dell’estenuante attesa dell’uomo di cogliere un senso nella vita che vada al di là del “qui e ora” in cui sono schiacciati i protagonisti. Un eterno presente, un ciclo sempre uguale ed eternamente diverso di eventi, personaggi, frasi rituali che frullano nella mente degli spettatori, riuscendo a suscitare una risata e a scatenare il panico un momento dopo.
Il regista Maurizio Scaparro dichiara di aver voluto provare a dare una chiave di lettura sull’identità di Godot, personaggio che è riuscito, nella sua inesistenza, a far spendere fiumi di inchiostro. Secondo il regista un ipotetico ruolo della figura di Godot è impersonare la morte, che i protagonisti esorcizzano nell’attesa, rinunciando al passatempo estremo del suicidio, ma a cui tragicamente e inconsapevolmente vanno incontro. Chiave di lettura data soprattutto dal tono stralunato, grottesco e a cavallo tra comico e tragico che emerge in alcuni momenti, soprattutto durante la sconvolgente tiritera di Lucky, un Fabrizio Bordignon abilissimo nel tratteggiare la disumanità di un personaggio a cavallo tra Calibano e un’intelligenza artificiale.

Si ha l’impressione che la regia, per tutta la durata della rappresentazione, tenda a fare un passo di lato e a non interferire con le personalità dirompenti degli artisti in scena. La presenza sicuramente più esplosiva è sicuramente quella di Edoardo Siravo, un Pozzo che diventa una sorta di Mangiafuoco, complice l’imponente figura dell’interprete, che troneggia nel costume circense scarlatto a cura di Lorenzo Cutuli. Gogo, tenera, goffa, smemorata macchietta che non smette mai di interrogarsi e porre domande al suo compagno, è portato in scena con dolcezza e garbo da un Antonio Salines che riesce ad accorpare a sé alla perfezione la figura più emotiva del duo. Luciano Virgilio è un Didi razionale, protettivo nei confronti del compagno, figura complementare in questa coppia clownesca di sapore chapliniano. Coppia verso la quale nutriamo la sincera empatia di chi, da spettatore, assiste al dramma di personaggi che girano in tondo come un pesce in una boccia.

Un allestimento che ricorderemo soprattutto per l’altissimo livello degli interpreti, diretti da una regia che non cerca interpretazioni particolarmente innovative dell’opera di Beckett, preferendo situarsi in una zona liminale tra il minimalismo e la commedia grottesca. Le suggestioni visive date dai costumi (Chaplin, il circo, il completo coloniale di Lucky) riempiono la scena vuota, senza sbilanciarsi a dare letture ulteriori di un’opera che, dalla sua prima rappresentazione, si presta a una interpretazione diversa per ogni spettatore.

Giulia Zennaro, 5/4/2019

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