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È una serata particolare quella che ospita, il 17 giugno, il Teatro Studio Uno durante l’ottava edizione del Festival Inventaria evento organizzato dalla compagnia DoveComeQuando e creato da artisti per artisti nei teatri off della capitale. In scena è la volta di “Giorgio”, monologo scritto, interpretato e diretto dal regista e performer Nexus. Fin qui, sembra tutto nella norma. Ma in attesa dello spettacolo come di consuetudine, tra una chiacchiera e un bicchiere di vino, c'è un dettaglio che stupisce un po’. Mentre Laura Garofoli (attrice e aiuto-regia) si prepara sorridente ad accogliere il pubblico in sala, alcune persone in confidenza le chiedono “come sta?” (domanda che riguarda il performer stesso ndr.). Ed è in pochi secondi che l’atmosfera cambia improvvisamente. Perché sì, quando sulla scena l’attore dimentica il palco e porta se stesso, un’energia indescrivibile si sprigiona dietro e fuori dal sipario. Ciò a cui stiamo per assistere è la storia del rapporto tra l’autore e suo padre dal 1984 al 2008, anno della sua scomparsa. nexus 2
I più vicini dunque sono preoccupati di sapere come lui, pronto a riceverci, stia in quella sera dall’aria frizzantina.
Su una sedia bianca, impegnato a giocare al game-boy, è lui, Giuseppe Gatti da un fisico incredibilmente scolpito che dopo averci fatto accomodare inizia a raccontare la sua storia. E lo fa spalle al pubblico in un primo momento, proprio perché che ci siano delle persone ad ascoltarlo sembra cadere in secondo piano. Quel che lui vuole condividere infatti è indirizzato per primo a se stesso permettendosi così di riportare in vita suo padre tramite ogni parola o intenzione, anche solo per una sera.
Ma il vero punto forte di questa esibizione giace proprio nella sua poliedricità espressiva. Non è solo l’essere umano che accompagna i visitatori nell’oblio della memoria, ma anche tutte le svariate possibilità che lui ha di raccontarsi. E come farlo? Beh, lui lo fa innanzitutto con la break-dance. Il suo percorso iniziato nel ’98, che lo ha visto poi entrare nella crew Urban Force, diviene mezzo efficace per raccontare i momenti di euforia di un bambino in sala giochi o ancora di quello stesso portato dal padre nei boschi per cacciare, quando avrebbe voluto essere altrove. E non finisce qui. Energia allo stato puro intelligentemente utilizzata, poiché scandire quell’ora alternando le fasi parlate a quelle ballate sarebbe stato ancora poco rivoluzionario: ed ecco infatti che arrivano anche immagini, attraverso un proiettore di diapositive sui muri laterali della stanza, o ancora una vecchia tv che trasmette scene del cinema care a chiunque sia cresciuto negli anni ‘80/’90: le battaglie di Gassman ne "L'Armata Brancaleone", il volto disperato di Atreiu in “La Storia Infinita” e altri ancora.
Non lasciatevi ingannare però dall’apparente dinamicità ludica con la quale il giovane Gatti ha voluto parlare di suo padre, tanto spazio rimane per una sincera commozione e una sentita interpretazione di se stesso. E a condurlo nella sua infanzia è una grande ragnatela bianca dietro lui, segno indistinguibile del tempo sospeso, cui con energia strappa i ricordi (come una cassetta rovinata, un walkman con delle cuffie o una divisa mimetica).
Un’esibizione ricca, emozionante e stimolante con un tocco di novità che non guasta mai, quando portata con convinzione. Il Festival è dunque sulla buona strada e si prospetta regalare ancora altre sorprese per i quartieri romani.

Daria Falconi 21/05/18

"NuoveCanzoni" è l’ultimo disco di inediti di Edoardo De Angelis e segna l’esordio dell’etichetta Il Cantautore Necessario. “Ecco che arriva il tempo di celebrare il tempo”, canta l’autore romano, che omaggia le sue poesie in una raccolta di canzoni che attraversano le tante sfumature di sentimenti come l’amicizia, la gratitudine, la malinconia.
Si tratta inoltre di un album considerato un gesto d’amore verso la musica, racchiuso in dodici tracce. “Cerco un filo rosso, una ragione che leghi e tenga insieme le undici canzoni di questa raccolta, un cestino di frutti diversi uno dall’altro. Direi che questa volta i fili sono due: il tempo, la sua trama invisibile mai ferma che lega passato e futuro e ci fa toccare il presente e, ancora una volta nelle mie storie, il valore del confine. Quella linea sottilissima, elastica, mutevole che divide, ma tiene vicine, la realtà e l’immaginazione”: questa è la premessa che De Angelis ha tenuto a precisare, nel booklet di "NuoveCanzoni".1525119631edo
Il disco si apre con "Il mago e le stelle" e termina con la seconda parte del brano, una bonus track solo strumentale: un percorso circolare che vede nell’inizio e nella fine una struttura equilibrata, un ciclo che ha un punto di partenza che converge verso un approdo, il proseguimento di una storia la cui trama, ora, viene affidata all’ascoltatore e al sentimento che la melodia riesce a suscitare in esso; un atto di fedeltà e di fiducia, quello del cantautore nei confronti dell’animo umano. "Abbracciami", seconda traccia del disco, è stata scritta a quattro mani con Fabrizio Emigli; l’amore, qui, ammutolisce le voci, mentre le braccia si fanno casa, fortezza di un affetto sfuggente, ritrovato o da ritrovare. Poi c’è "Anna è un nome bellissimo": una dedica ad Anna Magnani, l’”attrice romana, così fragile e forte che tutto il mondo ama, perché da quello sguardo fioriscono parole che scaldano un sorriso”. È una ballad dai toni folkloristici - dettati anche dall’organetto di Alessandro D’Alessandro - da tratti popolari e genuini, caratteristiche poi tipiche della Magnani.
Con "Sponde", De Angelis torna a cantare del suo impegno civile che si fa portavoce, con musica e parole, dell’annientamento dei mali del tempo, dell’ignoranza nel concepire “nemico” un individuo. "Galileo", sesta traccia del disco, ha invece una storia lunga alle spalle: “Trent’anni, il tempo occorso per scriverla, dalla prima all’ultima nota. Non voleva uscire dal cassetto, questo segno d’amore per la libertà dell’uomo, per il valore delle sue idee. Poi ho pensato che dovesse essere Galileo stesso a parlare, ho aspettato che lo facesse e fedelmente ho riportato le sue parole e il suo pensiero”.
Il concetto di tempo ritorna più volte nell’album: dopo l’elogio della sua attesa in "Arriva il tempo", ci sono "Il Tempo sconosciuto e Alleggiu", canzone di Ezio Noto e Francesco Giunta; tre concezioni diverse di intendere, aspettare o percepire un attimo, come un qualcosa che viene da sé, che hai sempre atteso e incontrato, oppure come un concetto estraneo, a cui non riuscire a dare un nome.
C’è anche il momento di una preghiera laica, quella di Ibrahim in " Padre nostro"; tra le parole e tra i suoni, più cupi, s’invoca un “Dio degli invisibili, con le braccia aperte e senza religione”, quando si è in balìa delle onde in un mare in tempesta, in un mondo dove la terra, quella che gli uomini dominano con prepotenza, è amara e inospitale; un bambino che dovrebbe essere cullato dal rumore dell’acqua, viene invece spaventato da un incubo troppo attuale, troppo vero, quello dell’immigrazione, della partenza alla ricerca di un posto da sentire casa, dove poter vivere senza sentirsi in colpa di esistere.
Le percussioni e poi la chitarra introducono le parole di "Scegli il nome di un fiore", un rimando alla poetica di Goethe e alla sua Gefunden, un componimento, questo, che ha segnato l’animo bambino e poi adulto del cantautore. In "Una notte romana" ritroviamo l’uomo che vaga tra le strade della sua città, che viene spesso elogiata, amata nelle produzioni dell’artista e che rappresenta la certezza di essere casa, confidente e compagna: “Anche questa è una storia vera, passo per passo, un breve film girato in una delle piazze più belle di Roma. Quattro protagonisti e il racconto di un nodo di amicizia che lentamente si scioglie, nell’indifferenza dei sentimenti e dei palazzi intorno”.
"NuoveCanzoni", i cui arrangiamenti sono stati curati con maestria da Primiano Di Biase, è il frutto di un intenso lavoro in cui hanno collaborato grandi musicisti come Fabrizio Guarino, Simone Federicuccio Talone, Guerino Rondolone, Nhare Testi, Fabrizia Pandimiglio, Alessandro D’Alessandro, Giovanni Pelosi e Alessandro Tomei.
È dunque un album che testimonia come Edoardo De Angelis riesca sempre a far vivere, con parole gentili e vere, quella poesia che è baluardo della canzone d’autore.

Lucia Santarelli 28/05/2018

Un po’ pop, un po’ decadenti, un po’ psicanalitici. Sono questi i colori di “Dichiaro guerra al tempo”, in scena al Teatro Vascello di Roma fino al 20 maggio. Una tela complessa da comprendere pienamente, così come avviene con un quadro cubista. Ogni forma, ogni pennellata ha in realtà un suo peso, un suo perché; allo stesso modo, le intenzioni, le premesse e i messaggi narrati in questo spettacolo, dai riverberi lunari e oscuri, vengono collocati in una dimensione sognante ma al contempo palpabile e reale, perché ruotano intorno all’unico elemento certo dell’esistenza, anch’esso sfuggente ma crudelmente presente: lo scorrere del tempo e le sue conseguenze sul senso della vita. In una stanza semivuota che potremmo assimilare ad una sorta di antro della memoria, con pochi oggetti sparsi per terra, due donne si ritrovano ad interagire; non hanno un nome perché non sono dei personaggi, ma degli archetipi umani. Una contemporanea e vestita con abiti androgini (Melania Giglio), l’altra di epoca elisabettiana (Manuela Kustermann). La prima rappresenta la donna moderna, lacerata dai mostri dei nostri giorni: la depressione, la paura per il futuro, l’amore nella sua fragilità, la paura d’invecchiare. Decide così di dichiarare guerra alla causa di tutto ciò: l’orologio. AGIGLIO Ad aiutarla una donna antica, con abito e gorgiera cinquecenteschi, con una penna e i sonetti di Shakespeare in mano. Le due, tra versi, canzoni e dialoghi, cercano di capire come si possa fermare l’incantesimo del tempo, che così barbaricamente sta strappando via loro ogni speranza. Forse, l’unico modo di vincere lo scorrere delle ore è la poesia? L’amore? I figli? Non si può riuscire a dare una risposta, l’interrogativo è troppo grande. La vera bellezza consiste nel saper riconoscere, godere, ed esaltare il dono della giovinezza. Viste le tematiche estremamente controverse e le modalità con cui la messa in scena le esprime, le due protagoniste, Kustermann e Giglio, ne escono indubbiamente vincitrici. Alla seconda spetta un plauso ulteriore, riuscita, durante la sera della prima, ad andare avanti tra recitato e cantato (con pezzi eseguiti dal vivo che vedono l’alternarsi delle hit di artisti come David Bowie, Prince, Cat Stevens) superando un guasto tecnico al microfono. Nonostante una declinazione smaccatamente al femminile, lo spettacolo si rivolge indistintamente a tutti, perché tutti, in un mondo dominato dalle lancette, sono vulnerabili al passare del tempo e alla sua ancora: l’amore.

Alfonso Romeo – 16/05/2018
(Foto di scena: Fabio Gatto)

Roma, 10 maggio. Il tempo dà una tregua, dopo la pioggia, e lo fa nel momento giusto. Al botteghino del Quirinetta c’è molta gente e manca ancora qualche minuto prima dell’atteso concerto di Mirkoeilcane. In strada, sui marciapiedi a due passi dal locale, vicino al palco, al bancone del bar, ci sono i suoi amici, quelli di sempre o che adesso stanno iniziando ad amarlo, quelli che lo conoscono da una vita o che lo hanno scoperto per caso, ai suoi live per l’Italia e chi a Musicultura, ad esempio; i parenti si guardano intorno, i fan temporeggiano a ritmo di aneddoti sui brani, su come abbiano conosciuto il loro Mirko, “Aò ma te ricordi quanno lo sentimmo per la prima volta?”; poi ci sono i sostenitori “che osano ‘npo di più”: si riconoscono da magliette personalizzate e palloncini verdi, appartengono alla cerchia del Fanclub ufficiale di Mirkoeilcane; loro sono i “pocodemoscopici”, dicitura che ha tutta una storia dietro, che forse sarebbe meglio indagare sulla loro pagina Facebook dove, perché no, iscriversi per condividere video, foto, impressioni e storie. Tra tutti, poi, ci sono tante coppie di fidanzati in attesa di cantare il brano che fa da sottofondo alla loro storia, “quella che mi ricorda la volta in cui”; sì, questa potrebbe anche essere interpretata come un’immagine a tratti ansiogena, però per i più romantici potrebbe apparire come una bella cartolina di una serata da condividere con una persona importante.Mirkoeilcane
In ogni caso erano moltissime le persone al Quirinetta, per la prima data romana del tour “Poco demoscopico” del cantautore. Tutti, chi per un motivo e chi per un altro, erano lì per abbracciare la musica di un ragazzo che, dopo la giusta gavetta, il successo a Sanremo Giovani e dopo aver calcato il palco del concertone del Primo maggio, sta continuando la sua carriera in ascesa senza snaturarsi, mantenendo l’ironia che lo contraddistingue anche quando dice di essere un “cantautore triste”, che sta avendo successo.
Questo lo dimostra il fatto che sul palco Mirko Mancini entra con i suoi compagni di viaggio, gli amici, musicisti che meritano di essere al suo fianco e viceversa: Domenico Labanca (tastiere), Francesco Luzio (basso) e Alessandro “Duccio” Luccioli (batteria). Il concerto inizia partendo dal passato, con i pezzi del suo primo disco omonimo: “Salvatore”, “La giuria”, “La fre(tta)”, “Lady di ghiaccio”, “Incontriravvicinatidelterzotipo”; poi il pubblico rimane in silenzio, all’ascolto del racconto recitato di “Stiamo tutti bene” - brano presentato lo scorso febbraio sul palco dell'Ariston -, che non ha bisogno di essere interpretato o di essere canticchiato, perché è forte, soprattutto tristemente vero. Il silenzio intorno aiuta a sentire, mentre gli occhi sono chiusi.
Mirkoeilcane5Il tempo per ballare e per cantare c’è, con “Epurestestate”, “Se ne riparla a settembre”, “Gusti”, brani contenuti nel secondo album “Secondo me”; e dopo arriva “Beatrice”, duetto con Ilaria De Rosa. Nel frattempo volano palloncini verdi e rossi, quando Mancini e la sua band si divertono con il loro pubblico. Lo meritano, come meritano le canzoni di essere condivise.
Poi non può che arrivare il momento di “Per fortuna”, canzone vincitrice della XXVIII edizione di Musicultura, e che aspira, con il tempo, ad avere sempre più rilevanza, per la vicenda raccontata, nel momento storico che stiamo attraversando; così è anche per “Ventunorighe”, che ricorda uno e tanti Morelli Alberto, di uomini messi in bilico da una società che non è in grado di garantire la dignità di un posto nel mondo e semplicemente, dunque, la vita. Dopo un sorso al bicchiere, Mirko Mancini è pronto per fare di nuovo un passo indietro, in quell’istante in cui tutto è iniziato con “Whiskey per favore”. Poi tutti intonano un coro, a volte anticipando le strofe, presi dalla volontà di condividere ogni istante della serata, in un giorno importante per un cantautore che si esibisce nella sua città, quella rievocata in “Da qui”. Alcuni si stringono forte abbassando lo sguardo, quando viene eseguita “Sulle spalle di Maria”. Loro sanno bene il motivo. 
Il concerto è a pochi minuti dal termine ma già viene richiesto il bis, che non tarda ad arrivare con “Gusti” e “Se ne riparla a settembre”. Si spengono i riflettori sul palco del Quirinetta, ma il tour di Mirkoeilcane continua; dopo esser stato inaugurato alla Santeria Social Club di Milano, passando per il Vinile a Bassano del Grappa, sono in programma per ora altre sei date in giro per l’Italia, ad Aversa (CE), Livorno, Ancona, Torino, Bologna e Sant’Egidio alla Vibrata (TE).

Lucia Santarelli 11/05/2018

 Photo credits: Viticulture Quirinetta

“FLUX”è il Festival lituano delle arti con cui l’Auditorium Parco della Musica celebra il centenario della nascita della Repubblica della Lituania.
Paese dalla concezione artistica molto aperta alle sperimentazioni e alle sue molteplici diramazioni, la Lituania ha conquistato la sua prima indipendenza il 16 febbraio 1918 (la seconda nel 1991 quando, prima tra i Paesi baltici, tornò indipendente dall’occupazione sovietica).
FLUX” è l’occasione per portare in Italia questa varietà di forme artistiche, che uniscono architettura, jazz, performance, musica, teatro, danza.
Nell’ambito proprio di questa rassegna si è esibita la Urban Dance Theatre Low Air, prima compagnia di danza urbana professionale in Lituania, fondata da Laurynas Zakevicius e Airida Gudaite, che ne sono anche coreografi e ballerini. Ha portato a Roma la creazione “Game over” - Fine dei giochi di Lauryna Liepaitė, Airida Gudaitė, Laurynas Žakevičius, Povilas Laurinaitis e Adas Gecevičius; in scena i performer Airida Gudaitė e Laurynas Žakevičius su musica multi strumentale eseguita dal vivo da Adas Gecevičius.

Ad ispirare questi giovani artisti è stato il realismo magico dello scrittore belga Julio Cortazar (autore del capolavoro “Rayuela” - Il gioco del mondo); partendo da lì hanno costruito uno spettacolo che unisce il live dance e il music show contaminandolo con le arti visive. Le storie venute fuori dall’immaginario di Cortazar si traducono in coreografie che portano lo spettatore entro i labili confini tra sogno e realtà, finzione e magia, verità e fantasia, attraverso un punto di vista molto ludico.

Essenziale, nel porre lo spettatore in questa prospettiva del gioco, è la musica: potente, ricca, piena, ininterrotta per tutti i 55 minuti di durata dello spettacolo. È proprio la musica ad accogliere lo spettatore al Flux1suo ingresso in sala: Gecevičius, di spalle alla platea, diffonde placide note che di lì a breve diventeranno solo un ricordo. Difatti lo spettacolo si struttura su composizioni ritmiche ben più strutturate, molto diverse. Su di esse poggiano coreografie apparentemente scomposte che invece alludono alla libertà totale della mente e del corpo, allo svincolarsi dalle categorie e dai preconcetti, dalle forme. Anche dagli abiti: uno dei brevi momenti prevede il ballerino che si denuda e poi alle prese con un maglione extralarge che non riesce ad infilare, quindi agita le braccia, muove il busto, si contorce fino a quando non riesce a fare capolino con la testa. Questo episodio deriva proprio da un racconto di Cortazar.

Sono corpi, quelli in scena, in balia di qualcosa che viene dal loro profondo, che esplode in movimenti spesso ciclici e ripetitivi, ma sempre energici. 

Un uomo composto accenna una corsetta e l’ombra che proietta alle sue spalle sembra quella di una ridicola marionetta, una donna a lutto abbandona il velo nero per darsi ad una danza sfrenata, un uomo in giacca e cravatta si spoglia di quegli abiti per restare seminudo e libero di danzare come vuole. È come se la musica suonasse nei loro petti. Ciascuno dei segmenti presentati è breve e ha un ritmo frenetico e concitato, eppure liberatorio. Nei momenti finali i due performer entrano in contatto col musicista, sottraendogli il microfono, parlando, suonando i piatti della batteria, come in un gioco di scambio di ruoli. 

Game Over” è una creazione molto estetica, essenziale, a tratti surreale e paradossale, la compagnia propone un modo di fare danza molto colorato. È un teatro visivo, quello della Low Air Urban Dance Theatre, molto completo, non si può circoscrivere entro la danza contemporanea, perché è una performance che va oltre, nonostante il suo minimalismo.
Entra e divertiti, lasciati andare” sembrano dirci i tre performer, che non si prendono troppo sul serio tra coriandoli, maschere, palloncini, vasche d’acqua. E altrettanto dovrebbe fare lo spettatore, lasciandosi andare all’esplosione ritmica che si sviluppa attraverso i loro corpi a tempo di musica.

Giuseppina Dente 10/05/2018

«Il teatro dovrebbe essere un elemento fondante della società»: si è espresso così Alessandro Longobardi, alla direzione della sua ormai 17esima edizione della Sala Umberto di Roma, durante la conferenza stampa di presentazione della nuova stagione, l’8 maggio. Longobardi non ha evitato qualche frecciatina alle istituzioni, in particolare al Mibact, verso cui il suo (ma anche altri) teatro appare invisibile, rendendo difficoltosa l’attività della struttura. Con lui sul palcoscenico buona parte dei nomi in cartellone a partire dal prossimo ottobre, una programmazione che vanta sia nuovi ingressi che graditi ritorni.

La stagione 2018-2019 si aprirà con un grande titolo: “Non si uccidono così anche i cavalli?” (25 settembre) di McCoy da cui fu tratto l’omonimo film. Il testo è stato adattato da Giancarlo Fares, coreografie di Manuel Micheli, musiche e canzoni del cantautore romano PIJI e 16 attori in scena.  

A seguire Paolo Rossi e Lucia Vasini con “Il re anarchico e i fuorilegge di Versailles” (16 ottobre) scritto e diretto da Paolo Rossi; Serra Yilmaz con l’acclamato “La bastarda di Istambul” (31 ottobre) per la regia di Angelo Savelli; “La classe” di Vincenzo Manna per la regia di Giuseppe Marini, che porta in scena un cast composto da Claudio Casadio, Andrea Paolotti, Brenno Placido, Edoardo Frullini, Valentina Carli, Haroun Fall, Cecilia D’Amico e Giulia Paoletti. “Cose così” (27 novembre) è lo spettacolo con cast in via di definizione scritto e diretto da Giacomo Ciarrapico, in cui a parlare sono quattro insoliti personaggi: una Busta di Insalata, il Destino, il Cursore del PC e una Banconota.

Poi cinque grandi nomi: Valentina Lodovini, protagonista di “Tutta casa letto e chiesa” (11 dicembre) di Dario Fo e Franca Rame per la regia di Sandro Mabellini, Flavio Insinna con la sua Piccola Orchestra in “La macchina della felicità” (21 dicembre). E ancora Francesca Reggiani, che torna alla Sala Umberto con lo spettacolo “D.O.C. Donne di Origine Controllata” (8 gennaio) e Carlo Buccirosso con “Nuovo spettacolo” (15 gennaio) da lui scritto e diretto. Infine un altro nome molto amato dal pubblico firma “La trilogia” (5 febbraio) che vedrà sul palco Riccardo Rossi, in questo spettacolo ideato con Alberto Di Risio e suddiviso in tre parti, che andranno in scena in tre diversi momenti: “L’amore è un gambero”, “That’s life” e “Viva le donne”.

Un grande classico di Oscar Wilde come “L’importanza di chiamarsi Ernesto” (19 febbraio) verrà portato in scena da otto attori diretti da Ferdinando Bruni e Francesco Frongia: Ida Marinelli, Elena Russo TeatroSalaUmberto2Arman, Giuseppe Lanino, Riccardo Buffonini, Luca Toracca, Cinzia Spanò, Camilla Violante Scheller e Nicola Stravalci.  

Il 5 marzo debutterà alla Sala Umberto un nome a lungo corteggiato, come ammesso dallo stesso Longobardi: Enzo Iacchetti. Il “Libera Nos Domine” (5 marzo) che lo vede protagonista è diretto da Alessandro Tresa ed è un monologo intervallato da canzoni in cui il popolare conduttore e attore si confronta con temi come il web, i social network, la religione, l’emigrazione. «Il lavoro più grande è stato pescare canzoni conosciute che trattassero gli argomenti da me trattati», ha detto in conferenza stampa, specificando di aver poi optato per brani di Jannacci, Faletti, Guccini e Gaber.

Sarà poi la volta di “La scuola delle scimmie” (19 marzo), scritto e diretto da Bruno Fornasani: in scena Tommaso Amadio, Luigi Aquilino, Emanuele Arrigazzi, Sara Bertelà, Silvia Lorenzo, Giancarlo Previati e Irene Urciuoli. La compagnia Familie Flöz si presenta con “Hotel Paradiso” (2 aprile) di S. Kautz, A. Kistel, T. Raschel, F. Rohn, H. Schuler, M. Vogel, N. Witte con Anna Kistel, Marina Rodriguez Llorente, Melanie Schmidili, Matteo Fantoni, Sebastian Kautz, Daniel Matheus, Frederik Rohn, Fabian Baumgarten, Thomas Rascher e Nicolas Witte per la regia di Michael Vogel.

Dopo “Magazzino 18” tornerà alla Sala Umberto Simone Cristicchi col nuovo spettacolo da lui interpretato e diretto da Antonio Calenda “Manuale di volo per uomo” (9 aprile), in cui interpreterà un quarantenne eternamente bambino ai cui occhi qualsiasi cosa, anche la più banale e quotidiana, appare stupefacente. Cristicchi ci porterà nel mondo puro e meraviglioso di Raffaello, dove ogni dettaglio si rivela nella sua bellezza autentica e a volte nascosta ai più.

Ed è di nuovo la volta di un grande classico, nella rilettura di Gianni Clementi, che scrive e dirige “Romeo l’Ultrà e Giulietta l’irriducibile” (26 aprile) interpretato da Simone Crisari, Alessio D’Amico, Giulia Fiume, Edoardo Frullini, Federico Le Pera, Daniele Locci, Matteo Milani, Luca Paniconi, Simone Pulcini, Guido Quaglione, Luna Romani e Gianmarco Vettori con la partecipazione straordinaria di Stefano Ambrogi e Marco Prosperini.

La stagione proseguirà con “Millevoci Tonight Show” (7 maggio): sul palco Francesco Cicchella, vincitore della quinta edizione di “Tale e Quale Show”. L’attore e comico partenopeo ha raccontato di aver conosciuto proprio in quell’occasione Gigi Proietti, il quale gli consigliò di concentrarsi sul teatro, a suo dire la sua vera vocazione. Seguendo quella strada Cicchella ha poi fortemente voluto proprio Proietti alla direzione di questo spettacolo. «Le ‘Millevoci’ sono le mie e il riferimento è allo storico varietà Rai – ha specificato – ‘Tonight Show’ perché è un One Man Show in chiave moderna».

Rientrano poi nel progetto “Donne in scena” cinque spettacoli aventi come protagoniste il gentil sesso.

Einstein & Me” (24 settembre) di Gabriella Greison per la regia di Cinzia Spanò, vede in scena la stessa Greison, laureata in Fisica e Direttrice del primo Festival in Italia dedicato proprio a questa materia. «Einstein è il mio idolo indiscusso, ma ho deciso di raccontare il punto di vista di sua moglie Mileva. Le donne oggi hanno bisogno di essere raccontate in chiave diversa. Mi piace specchiarmi nei grandi personaggi scientifici di un tempo», ha detto. “Cinque donne del Sud” (17 dicembre) è un lavoro di Francesca Zanni, costumi di Fabrizia Migliarotti, dance concept di Natasha Buono e Beatrice Fazi in scena: cast interamente colorato di rosa anche questo. “Nuovo spettacolo” (21 maggio) di Claudio Insegno ha infine per protagonista Barbara Foria.

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Sono inoltre in programma una serie di incontri con grandi protagonisti del cinema italiano, nell'ambito della rassegna "That's Cinema": tra gli ospiti Pupi Avati, Paolo Genovese, Carlo Vanzina, Riccardo Milani e tanti altri.

Per finire, il giorno 29 ottobre 2018 aprirà le sue porte per il quinto anno l'Accademia Professionale STAP BRANCACCIO - Accademia di Recitazione, Drammaturgia e Regia voluta da Alessandro Longobardi avente come Direttore artistico Lorenzo Gioielli e Direttrice organizzativa Rossella Marchi. 

Giuseppina Dente 08/05/2018

Il 3 maggio, al Teatro Vittoria di Roma, Aldo Cazzullo ha inaugurato “Le donne erediteranno la terra”, rassegna che trae spunto proprio dal saggio omonimo dell'editorialista; un progetto ideato dalla direttrice artistica Viviana Toniolo che si concluderà il 16 maggio e che vanta un ricco calendario di eventi.
Il giornalista del Corriere della Sera ha così avuto la funzione di padrino d’eccezione per l’apertura di una rassegna in cui la figura della donna viene messa in risalto attraverso un’indagine sociologica, culturale, filosofica e storica sul suo ruolo e sulla sua importanza nel passato, nel presente e nel futuro che ci attenderà. Il libro, edito da Mondadori, diventa uno spettacolo teatrale, in cui all’autore si affianca l’attrice Beatrice Luzzi, la quale ha interpretato più figure femminili che, in un modo o nell’altro, sono state determinanti nella storia dell’umanità.

La consapevolezza della forza e della grandezza delle donne non viene meno, nell’immaginario di Cazzullo, anzi: "Voi donne siete meglio di noi. Non pensiate che gli uomini non lo sappiano; lo sappiamo benissimo, e sono millenni che ci organizziamo per sottomettervi, spesso con il vostro aiuto. Ma quel tempo sta finendo. È finito, comincia il tempo in cui le donne prenderanno il potere".

Dunque erediteranno la terra in quanto conoscono il significato profondo del sacrificio e sanno gestire fantasmi e paure, ma soprattutto perché sono in grado di mettere sempre in atto uno spirito esclusivo, quello materno; così potranno prendersi cura del destino di tutto ciò che le circonda.
Nel saggio, il giornalista marca la forza e la temperanza al femminile, a cui gli uomini al giorno d’oggi non danno così spazio nelle decisioni quotidiane. In questo gioco delle parti, la donna sa quale sia stato ed è il suo ruolo nella società e non le serve rivendicare un proprio spazio vitale in cui coltivare ideali; inoltre conosce esattamente l’umanità che le gira intorno e soprattutto sente bene ciò che gli uomini non potranno mai percepire, ovvero la bellezza nell’essere vita che dà alla luce la vita.
“Le donne erediteranno la terra” non vuole essere l’esaltazione fine a se stessa dell’universo femminile: è la prova di sensibilità e di ricerca che un intellettuale fine come Aldo Cazzullo, lontano dall’attività del semplice giudizio, scrive per raccontare storie in cui poter cogliere una filosofia basata su ammirazione ed amore e dove ricordare, pagina dopo pagina, aneddoti e vicissitudini di donne esemplari, coraggiose, determinate e determinanti per la storia.
Le donne erediteranno la terra, come lo faranno Lisistrata, Marie Curie, Franca Valeri; e ancora, Ilaria Cucchi, Giovanna D’Arco, Valeria Solesin e molte altre.
Tutte, in un modo sempre autentico, avranno cura nei confronti della loro porzione di mondo.

Lucia Santarelli 07/05/2018

Domenica, 06 Maggio 2018 20:20

Grotesk!: una risata vi libererà

Vi è stato un tempo in cui anche un paese come la Germania, ancora scossa dall’onda di morte e dagli ingenti indebitamenti post-Prima Guerra Mondiale, si lasciava inebriare dallo spirito di ribellione ed estremo ottimismo di quelli passati alla storia come gli Anni Ruggenti. Era un paese che rideva, che amava correre sul filo dell’irriverenza, e perché no, dare anche un po’ di scandalo. Era uno spirito allegro e provocatore quello che si insidiava in ogni vicolo delle città tedesche e che passo dopo passo, finiva sempre per nascondersi nel tempio sacro del Kabarett berlinese. Un barlume di ottimismo e di democrazia, dove a essere re della notte erano loro, i comici ebrei, prima che il mantello del nazismo avanzasse ricoprendo di odio e terrore l’intera Germania. Sono anni spesso dimenticati questi. Anni sconosciuti o poco narrati, ma che oggi, grazie a "Grotesk!" spettacolo di e con Bruno Maccallini tornano come per magia a rivivere sul palco del Teatro della Cometa di Roma. Sera dopo sera, le risate degli spettatori che animavano quell’universo ubriaco di sarcasmo, whisky e gambe di donne seducenti, si mescolano a quelli del pubblico contemporaneo divertiti e stupiti dinnanzi a un portento del teatro come Grotesk.
Grotesk è la personificazione in salsa tedesca del pirandelliano “uno, nessuno e centomila”. Nel suo essere ibrido, egli è insieme fantasma di un sogno pronto a sfumare, uomo a tutti gli effetti, maschera irriverente, ghigno satirico, prestigiatore e ventriloquo, ma soprattutto “conferenziere – presentatore” di uno spettacolo da lui ideato col solo intento di far rivivere tempi andati e personaggi dimenticati. Eccola allora la magia del teatro, quella di trasformarsi in macchina del tempo e riportarci ad anni dicotomici in cui alle risate subentrano le grida di terrore e l’odio razziale prende il sopravvento sugli applausi a scena aperta. Perché la Berlino di Grotesk è una città in cui «tutto è accaduto, o sta per accadere». Una magia qui potenziata da una moltiplicazione visuale, dove lo spettacolo teatrale si alterna alla proiezione di filmati d’epoca, e a inserti musicali. Una perfetta commistione di cinema documentaristico e musicale, che fa di “Grotesk” un’opera difficile da confinare entro i limiti di un singolo genere; è un’opera dalla natura eterogenea, doppio perfetto del suo omonimo protagonista. Bruno Maccallini è ineccepibile nel ruolo di conferenziere; un imbonitore di folle pronto a guidare uno show raffinato, elegante e, allo stesso tempo, sublimemente disturbante. Le sfumature di una storia come quella della Germania, che dagli sfavillanti anni Venti vira verso la catastrofe bellica, trovano la propria voce grazie a Oskar Grotesk e al suo interprete. Oltre alla differeGROTESK foto 1nziazione mediale - con la voce narrante della pellicola cinematografica che lascia spazio a quella di Maccallini intento ora a cantare, ora a declamare barzellette o divertenti aneddoti - il vero punto di forza dell’intera opera è l’alternanza di diversi registri linguistici in base ai sentimenti dominanti in un dato momento. E così il Grotesk imbroglione inizia a parlare napoletano, mentre quello impegnato a dar voce ai comici ebrei che, rinchiusi nei lager, cercavano una via d’uscita attraverso la nascita di una risata, recita le proprie battute adesso con fare squillante, adesso in un rispettoso tono commosso e sospirato.
Maccallini, one-man-show di uno spettacolo teatrale che è anche pagina di storia, tiene desta l’attenzione del pubblico nonostante si trovi a calcare da solo il palcoscenico. A fargli da spalla un’orchestra di tre musicisti nascosti da una tenda semi-trasparente che li rende spiriti musicanti di un mondo ormai perduto. L’attore-autore-regista passa con estrema facilità da un linguaggio all’altro; i suoi sono salti che lo portano in alto, mutandone la propria natura, da semplice interprete a cantante, per ritornare a vestire i panni del comico, o dell’inarrestabile provocatore. La semplicità dello spazio teatrale e della scenografia minimale è compensata non solo dalla personalità esuberante di Maccallini, ma anche dai significati nascosti dietro ogni gioco di ombre, o dei numerosi cambi d’abito compiuti a vista: il rosso acceso della giacca indossata durante il mini spettacolo di magia è ben presto sostituito da quello blu acceso nei momenti più allegri, e, infine, dal nero funereo segnalante l'avvento del Terzo Reich.
“Grotesk” si può dunque definire un esperimento ampiamente riuscito, dove ogni ingranaggio è stato inserito meticolosamente. Eppure dietro a tale studio qualcosa sembra comunque stridere. Nonostante la scelta di arricchire l’opera con numerosi pezzi musicati risulti funzionale al genere teatrale qui proposto, vi è come la sensazione che a lungo andare il susseguirsi a breve distanza tra loro di diversi brani li faccia apparire ridondanti e noiosi. La stessa reiterazione di un medesimo stesso brano fa sì che i 100 minuti totali della performance vengano percepiti come il loro doppio. Non si esime da qualche critica l’ultimo, straziante, numero finale. Esso condensa in pochi attimi e in una manciata di minuti, pensieri e testimonianze che meritavano ben più spazio all’interno dell’opera. Vi poteva sussistere, cioè, un migliore bilanciamento tra la prima parte e la seconda, tra la risata e la lacrima. Perché se è vero che ridere rende liberi, altrettanto indispensabile è ricordare da che cosa si vuole rifuggire, cercando di mantenere comunque il sorriso sulle labbra.

Elisa Torsiello 06/05/2018

 

Roma. Teatro OFF/OFF. Un buio angosciante domina la sala teatrale vuota e ammantata da una coltre di nebbia fitta. È uno spazio spettrale, e a tratti funereo, quello che accompagna i minuti appena precedenti all’inizio dello spettacolo “Karmafulminien”. In realtà quella nebbia, quel fumo, non sono che i lasciti visivi del respiro di una generazione di cui noi tutti siamo diventati con il tempo membri onorari: la generazione disagio (nomea dalla quale, non a caso, prende il nome proprio la compagnia qui in scena fino a domenica 6 maggio 2018). La nostra è un’élite di prim’ordine la nostra che si merita, pertanto, dei guardiani altrettanto degni della sua fama. E allora eccoli comparire in un’entrata trionfale sulla musica del kubrickiano “2001 Odissea nello spazio”, nudi e di spalle, con delle candele a fontana incastrate in luoghi in cui non dovrebbero stare, i protagonisti dell’opera. Sono loro, i tre angeli custodi dell’uomo contemporaneo. La trinità celestiale e grottesca, surrogata di credi fedeli e piaceri terreni; parafulmini delle nevrosi moderne, mandati sul palco come incarnazione della spiritualità attuale e del contemporaneo mal di vivere. Non serafini, ma “figli di puttini”; raccoglitori divini di imprecazioni e dolori; confessori alati di dubbi e rimpianti, segreti e dichiarazioni mai fatte.
La loro non è una nudità pura o angelica, ma estremamente umana. Lo svelamento dei loro corpi privi di veli a nascondere difetti o parti assolutamente intime, esacerba quel disvelamkarmafulminienento già compiuto ampiamente a parole di pregi e tanti (forse troppi) difetti che caratterizzano l’essere umano del Duemila. Utilizzando un linguaggio semplice e fortemente sarcastico, supportati da una scenografia minimale e da oggetti di scena coerenti al senso di ilarità venutosi a creare, gli interpreti (nonché ideatori dello spettacolo) Enrico Pittaluga, Graziano Sirressi e Luca Mammoli, lanciano come frecce incandescenti attacchi pungenti verso un mondo superficiale che ha perso la capacità di guardarsi negli occhi perché troppo intento a stare con il capo chino su uno schermo del cellulare. È un deficit emozionale, questo, comune a noi tutti e che si va ad accumulare a quei tic e a quelle preoccupazioni (“l’ho chiusa la macchina?”, “ma dov’è il bagno”, “ma se mi picchia mi ama?”) che inconsciamente affollano la nostra testa dando vita a un ingorgo mentale in cui i pensieri fanno fatica a giungere a galla e arrivare così alla nostra bocca.
La nostra personalità si sta sempre più rimpicciolendo, riducendosi a forma e immagine di uno smartphone di ultima generazione, mentre l’impulsività e l’incapacità di interagire con gli altri finiscono per prendere sempre più il sopravvento. E i nostri angeli custodi, tra una gag e l’altra, sono sempre lì pronti a farcelo notare. I tre attori, nelle vesti di mandatari celestiali che tutto possono e tutto vedono, travalicano i limiti della quarta parete per scendere tra il pubblico e coinvolgerlo direttamente nella loro “epifania”. Prendendo parte allo spettacolo, lo spettatore ride dei propri vizi e delle proprie virtù. È una risata apotropaica che lo allontana per un attimo da quell’universo così sbeffeggiato e allo stesso tempo a lui così vicino, fatto di ristoranti “all-you can eat”, ossessione per i selfie e bisogno di sentirsi amato, prima che l’illusione svanisca e ritorni inesorabilmente a farne parte. Siano lodati allora gli angeli del “Karmafulminien”. La loro sì che è stata una vera e propria “epifania” circa il nostro mondo.

Elisa Torsiello 05/05/2018

Quest’anno Ingmar Bergman, regista, sceneggiatore, drammaturgo e scrittore svedese, avrebbe compiuto 100 anni: oltre 60 i lungometraggi realizzati, più di 170 le pièce teatrali, tre i Premi Oscar e centinaia i libri e gli articoli scritti nella sua carriera. Nonostante per lui il vero ‘matrimonio’ artistico fosse quello col teatro e considerasse il cinema una ‘amante’, Bergman è ricordato, più che per le regie teatrali, soprattutto per capolavori come “Il Settimo Sigillo”, “Il posto delle fragole”, “Persona”, “Come in uno specchio”. Sin da giovanissimo ha messo in scena testi importanti, da Shakespeare a Ibsen a Strindberg, lavori che - a suo stesso dire inspiegabilmente - non hanno mai eguagliato la fama internazionale raggiunta con TV e cinema. 

Nel segno di questa figura di spicco della settima arte (e non solo) si è aperto il “Nordic Film Fest”, che fino al 6 maggio porterà alla Casa del Cinema di Roma opere appartenenti alla cinematografia dei Paesi Nordici (Svezia, Danimarca, Finlandia, Islanda e Norvegia). Verranno proiettati sia film in anteprima che inediti in Italia, sottotitolati e in lingua originale.

L’inaugurazione della rassegna è stata affidata proprio a “Bergman Island”, il documentario (mai mostrato integralmente prima, in Italia) in cui il regista si racconta e descrive la sua vita sulla desolataBergman Island ma poetica isola di Fårö (isola svedese del Mar Baltico dove è sepolto). Lì si era ritirato in solitudine, in seguito alla morte dell'amata moglie Ingrid. A raccogliere le sue confidenze, i suoi ricordi, le sue riflessioni è la giornalista Marie Nyreröd: quello che viene fuori è una sorta di intervista-testamento, lunga ed articolata, in cui si toccano temi legati all'arte in tutte le sue forme, ai rapporti con le tante donne della sua vita (cinque mogli e nove figli), con la morte, con la famiglia.

Bergman racconta anche della precoce passione per il cinema, già forte quando aveva otto anni. A quegli anni è legato il ricordo di un Natale, in cui la zia regalò a suo fratello un piccolo cinematografo. Pianse tutta la notte, umiliato dall’aver ricevuto un orsacchiotto al posto di quel magnifico oggetto, finito nelle mani di un ragazzino a cui nulla importava dei film. Pur di averlo, lo barattò con 150 soldatini.

Emerge il ritratto di un uomo lucido nonostante i suoi ottant’anni e più, schivo, pieno di paure e demoni, ironico, disorganizzato ma abitudinario: ogni mattina dopo colazione una passeggiata e ogni giorno uno spazio dedicato alla scrittura. Bergman si presenta molto legato ai suoi momenti (anche prolungati) di solitudine e silenzio: «C’è qualcosa di piacevole nel non parlare», dice. Sull’isola di Fårö dichiara di essersi sentito fin da subito a casa, sin dai tempi dei cinque film girati su quelle spiagge sassose, molto tempo prima di maturare la decisione di ritirarsi lì, lontano da tutto e tutti. Verso gli abitanti del posto dice di provare grande gratitudine. Gli isolani, infatti, lo protessero molto durante il suo lungo soggiorno, evitando che curiosi e giornalisti lo importunassero: la posizione esatta della sua abitazione non fu mai rivelata, ma fu anzi ben custodita da tutti come un segreto.

Bergman aveva l'abitudine di girare dei brevi filmini sul set dei suoi film, una sorta di 'dietro le quinte': alcuni vengono mostrati alla giornalista e commentati con lei nel documentario. Tutto questo materiale fa oggi parte dello sterminato archivio della Fondazione che porta il nome del regista. La grande ossessione da lui maturata negli ultimi anni riguardava ciò che avrebbe lasciato dopo la sua morte. Per questo fu sua premura raccogliere il suo patrimonio artistico - 60 anni di carriera sotto forma di pellicole, lettere, foto, materiale inedito - e dargli una collocazione unitaria. Nel 2002 è nata la Ingmar Bergman Foundation, con sede a Stoccolma, la cui sterminata collezione è stata inserita nella lista del patrimonio mondiale dell’UNESCO. Molti di quel filmini sono stati girati proprio sull'isola di Fårö, a dimostrazione dell'importanza che quel luogo ha avuto per il Bergman regista, ma ancor di più per Bergman uomo.

Quell'isola è stata prima fonte di felice ispirazione artistica, poi silenziosa e serena casa dove riposare. Oggi è diventata una sorta di luogo mitico e di culto per i cineasti di tutto il mondo. 

Giuseppina Dente  03/05/2018

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