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ROMA – La rana è uno degli animali che, nella storia dell'Uomo, è stata più volte presa ad esempio e utilizzata per parabole, metafore, allegorie, favole e fiabe. C'è il principio della rana bollita di Noam Chomsky: una rana immersa in un pentolone pieno d’acqua fredda con il fuoco acceso si gode la temperatura accogliente, poi l’acqua si riscalda pian piano, diventando tiepida e gradevole; la temperatura sale e la rana si stanca, non è spaventata, ma adesso l'acqua è davvero troppo calda e la rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la forza di reagire e finisce bollita. Se la stessa rana fosse stata immersa direttamente nell’acqua bollente avrebbe fatto un balzo e sarebbe saltata subito fuori dal pentolone. Oppure c'è la storia della rana dalla bocca larga con l'anfibio che incontra l'uccello e il topolino vantandosi di mangiare vermi con quelle sue fauci gigantesche fin quando non incontra il coccodrillo, ghiotto proprio di rane dalla bocca larga. E ancora la favola della rana e dello scorpione di Esopo: uno scorpione chiede a una rana di farlo salire sulla sua schiena per trasportarlo sull'altra sponda di un fiume. La rana rifiuta temendo di essere punta durante il tragitto. L'aracnide però la convince a non aver paura perché se la pungesse anche lui annegherebbe. La rana si fida e porta lo scorpione sulla sua schiena ma a metà percorso la punge condannando entrambi. La rana allora gli chiede perché e lo scorpione risponde: “Non posso farci nulla, è la mia natura”.Fotografia-1.jpg
Infine ci sono le storie della rana sorda, sul non farsi demoralizzare da chi non ha fiducia in noi, della rana e il bue di Fedro sul non cercare di essere ciò che non siamo, e quella cinese della rana in fondo al pozzo che ci fa riflettere su chi ha le vedute strette e ottuse: la nostra rana viveva felice in un pozzo dal quale non era mai uscita. Un giorno una tartaruga marina passò di lì e la rana la chiamò invitandola a entrare. La tartaruga, invece di scendere nel pozzo, iniziò a raccontare alla rana della vastità del mare, suggerendo alla rana di andare con lei nell’oceano, molto più grande e bello di uno stagno in fondo a un pozzo. La rana non riusciva a capire come poteva essere possibile che ci fossero posti migliori del suo e rimase dov’era.
Perché la rana salta e zampetta e zampilla da un posto all'altro, pare inafferrabile quanto naif, scarta, si sposta, imprendibile quanto ingenua. Insomma la rana crede di essere la più furba del reame ma alla fine viene scoperta. Quello che succede nelle mirabolanti avventure de “Il Teorema della Rana” (testo di N.L. White; prod. Alt Academy e Compagnia Attori & Tecnici, visto al Teatro Vittoria; ha tutte le potenzialità per poter diventare un altro felice “tormentone” teatrale da repertorio come il loro classico e ormai cult “Rumori fuori scena”) dove un direttore di teatro, e il suo staff, per salvare la propria struttura dai debiti post pandemia e dagli scarsi finanziamenti alla cultura, decide di frodare il Ministero e la Previdenza Sociale non per bieco tornaconto personale ma per far quadrare i conti e far respirare la propria creatura, il palcoscenico, le maestranze, l'arte della scena. La trama è bella ingarbugliata tra scambi di persona e fraintendimenti, piccole e grandi truffe e l'ansia che monta e che porta tutti i personaggi al limite dell'agitazione, del patema, delle palpitazioni. Il testo è un connubio di ilarità intelligente e finissime trovate che si incastrano alla perfezione, dialoghi pungenti ed entrate e uscite che scatenano il panico nella finzione della storia e grandi risate in platea. Ogni scena è una nuova esaltazione, un'altra esagerazione, proficua drammaturgicamente, per far esplodere le dinamiche interne, quelle lavorative, quelle parentali, quelle con i controllori dello Stato.
In un teatro vuoto da scenografie, che sta attendendo il montaggio della nuova commedia da provare, serpeggiano telefonate sibilline e misteriose sospensioni, si parla di personaggi ormai scomparsi e di morti di persone invece vive e vegete. Gli otto attori in scena, uniti, compatti e omogenei, sono un concentrato di vitalità ed entusiasmo, tutto è spericolato e spumeggiante, mentre il sogno dei soldi facili si tramuta in un incubo e la confusione prende il sopravvento in un continuo disordine dinamico, parapiglia elettrico, scompiglio frenetico, trambusto alacre e camaleontico. Daniele Gargiulo (Luca Ferrini pirotecnico, anche regista) è, insieme con la moglie Giulia (Chiara Bonome scrosciante) il direttore del teatro che si trova a navigare in cattive acque. Nel tempo, con la complicità del cugino, Raul (Simone Balletti croccante e tramortito) addetto alle luci, ha creato un “sistema”, secondo loro infallibile (come lo fu il Titanic), per frodare l'INPS e incassare soldi per malattie, infortuni gravi, morti sul lavoro, invalidità permanenti, sussidi per attori anziani, famiglie a carico, il tutto inventato. Un castello di bugie immenso che nel tempo si è gonfiato a dismisura e si è autoalimentato diventando incontrollabile e ingovernabile. E il palcoscenico (per l'ora e mezza di rappresentazione) diventa un Far West brioso ed esuberante, un tutti contro tutti dove le menzogne (che notoriamente hanno le gambe corte) si rincorrono creando un enorme caos ironico degenerando in risse dialettiche sarcastiche. Di fondo, tra i sorrisi e la leggerezza che aleggiano e albergano costanti per tutta la durata e la tenuta della piece, una granitica accusa sia al Ministero, per come ha gestito il post Covid, e a tutto il comparto cultura italiano, sia nei confronti dell'estrema burocrazia di Previdenza Nazionale e Sindacati, che dovrebbero fornire aiuto e supporto amministrativo e che invece complicano tutto con moduli, timbri, nuove firme, rimanendo impersonali e metaforiche, assenze più che presenze. In questo caso i due esponenti statali sembrano essere, proprio per sottolineare la parodistica distanza con la realtà, molto coinvolti e partecipi, presenti al limite dell'invadenza.
C'è unil-teorema-della-rana-foto.jpg grande rapporto tra il palco e la platea da dove provengono, e recitano, in sequenza tutti gli attori come una sorta di vera prosecuzione del palcoscenico stesso. Ma alla fine i nodi vengono necessariamente al pettine: il tecnico di scena, Mattia Badalamenti (Alberto Melone gagliardo) che è stato fatto credere morto è invece arzillo, il vecchio attore Ruggero Rosati, per il quale percepiscono ogni mese gli assegni, è invece in una casa di cura all'estero, mentre il Dottor Martini (Paolo Roca Rey frizzante) ispettore della Previdenza, entra in teatro con varie scartoffie da firmare per elargire nuove sovvenzioni. Il direttore Gargiulo fa finta di essere Rosati mentre non si trova nessuno che si travesta da lui per apporre anche la sua firma. La temperatura sale, gli equivoci fioccano e si moltiplicano, i malintesi abbondano in una girandola di piccoli e grandi colpi di scena che ribaltano, ad ogni quadro, la situazione già contorta e critica tra imbarazzi e gli escamotage dei personaggi per salvarsi dalla catastrofe imminente perché è chiaro a tutti che il sistema truffaldino è stato scoperto e tutto il loro mondo, basato su fondamenta di argilla e cartapesta, sta per liquefarsi e sciogliersi. Al Dottor Martini si aggiunge pure la solerte e zelante assistente sociale Angela (Valentina Martino Ghiglia decisa e risoluta) che con la sua energia si impegna ad aggrovigliare e intricare ancora maggiormente i fili della trama.
Gli scambi sono scoppiettanti e vulcanici tra morti presunti, funerali da preparare, nozze che saltano, scoperte scomode e delicate, nuove falsità architettate per coprire le falle e le crepe sorte da altre fandonie. Il quadro non può che essere una tela di Pollock dove niente è lineare, come un gomitolo che si è arruffato e legato su se stesso. A far sobbollire ancora di più il tutto ci si mette anche anche la Dottoressa Cometti (Chiara David, divertentemente svampita) mediatrice di coppia, chiamata per risolvere i problemi coniugali tra i due direttori, perché la moglie crede che il marito, nel tempo libero, si travesta da donna. Una valanga irresistibile di inconvenienti senza freni che tutto travolge, aumentando i giri del motore ad ogni battuta. Nessuno è chi dice di essere e la commedia non può che finire in tragedia perché l'unica soluzione plausibile per uscire dalla farsa è la confessione dove tutti sono colpevoli, criminali amatoriali, lestofanti da tre soldi e manigoldi dilettanti ma a fin di bene, imbroglioni con il fine ultimo di riuscire a difendere con i denti la loro passione, proteggere allo stremo il loro/nostro amato teatro.

Tommaso Chimenti 16/06/2023

Oggi 29 maggio il Cinema Caravaggio di Roma ha il piacere di ospitare la prima edizione del festival cinematografico"Borghi sul Set", diretto da Catello Masullo e organizzato dall’associazione Cinecircolo Romano. Il direttore artistico Masullo idea insieme a Daniela Cipollaro la prima rassegna in Italia dedicata ai film girati negli antichi borghi storici, che con il loro fascino e la loro magia sono stati fonte di ispirazione per diversi set cinematografici.
Lo scopo sociale della nuova rassegna è accendere nuovi riflettori sulle frazioni che rischiano di essere dimenticate e attendono di essere salvate. I borghi ci regalano una immensa realtà suggestiva composta da architetture e paesaggi spettacolari e referenziali di una grande memoria storica.
Tra i corti compaiono i titoli: Il Vestito di Maurizio RavalleseIl Guerriero dei fratelli Francesco e Gianmarco LatillaMiraggio di Marianna Adamo e Volevo essere Gassman di Cristian Scardigno. Tra i lungometraggi, invece, Il Pataffiodi Francesco Lagi e Grazie Ragazzi di Riccardo Milani.
Quale strumento più vivace esiste del cinema per raccontarci questa lotta per la sopravvivenza con tutte le problematiche attuali: dall’abbandono, all’emigrazione, dalla crisi dell’agricoltura ai giovani costretti a lasciare la propria terra. Il filo conduttore è infatti quello di mobilitare una rete di personalità legate al mondo della cultura e porle a livello critico, per generare un confronto con gli esperti e gli addetti ai lavori impegnati da tempo nel rilancio del settore dei borghi d’Italia. All’interno del festival verrà lanciato anche un contest, rivolto ai giovani registi, per realizzare un cortometraggio da girare nel paese o borgo dove si svolge l’evento.
Il festival è stato sostenuto da Italia Nostra, l’associazione nazionale per la tutela dei beni storici, artistici e naturali da tempo impegnata in un suo “Piano Borghi” che si inserisce nella Strategia Nazionale Aree Interne. Il “Piano Borghi” di Italia Nostra è volto alla messa in sicurezza antisismica, al recupero e ad un corretto restauro dei centri storici minori, in vista di un ripopolamento e della tutela dei loro valori identitari, tanto importanti anche ai fini di un turismo colto e lento, che può svilupparsi sulle antiche strade e gli antichi cammini, oltre a sperati ritorni.

Carmela De Rose  29/05/2023

L’essenza della messa in scena teatrale si sa, è incarnante rispetto al cinema o alla scrittura di un testo. Così Marianna De Pinto effettua una trasposizione del libro documentaristico  Ostinata Passione” di Cecilia Mangini, in una drammaturgia teatrale che ritroveremo in scena dal 21 al 23 aprile presso l'Altrove Teatro Studio.
La sua regia ci racconterà la figura scomoda di Cecilia Mangini 
mediante la narrazione della seconda metà degli anni cinquanta, in cui il cambiamento sociale si inizia a respirare nell’aria a colpi di boom economici e illusioni appartenenti ad un universo archetipico e comunitario.  Una donna che aveva e che ha qualcosa da dire, rompendo gli stereotipi e le convenzioni che hanno strutturato i ruoli femminili.
Marianna De Pinto insieme alla supervisione artistica di Marco Grocci e le luci ombrate di Gennaro De Pinto, ci porteranno in scena una Mangini (interpretatata dalla stessa De Pinto), ostinata al punto da imporre la propria personalità in un ambiente tutto maschile, in un momento storico in cui le donne appena cominciavano un percorso di auto–consapevolezza che le avrebbero portate nei decenni successivi alla lotta per il riconoscimento dei propri diritti, venivano fermate.
“Ostinata passione” sarà capace di farci sprofondare in diverse riflessioni sui diversi rituali sociali, come il rituale della morte, della lotta e della sopravvivenza ai nemici. Cosa, da allora, è cambiato?
L’appartenenza alla terra, i rituali legati alla raccolta, la sacralità di una vita mai semplice ma pur sempre necessaria come un destino, come il perpetuarsi delle stagioni.
Lasciandoci con un punto di domanda ancora attuale che è anche quello su cui fonda l'intero spettacolo: “Ma quando il cambiamento non significa progresso, a cosa o a chi serve?

Carmela De Rose  20/04/2023

 

 

Trascorse le rappresentazioni romane dello spettacolo di Chiara Lagani (drammaturga della compagnia Fanny & Alexander), traduttrice per Einaudi del terzo romanzo di Lewis Carrol “Sylvie e Bruno” andato in scena dal 22 al 26 Marzo al Teatro India di Roma. Dopo la visione dello spettacolo non potevamo perdere l’occasione di intervistare la drammaturga – attrice dell’opera in questione, per chiarire e far comprendere al meglio ai post e futuri spettatori l’intento drammaturgico di Chiara Lagani e le operazioni registiche effettuate da Luigi De Angelis regista della compagnia. Quest’ultimo sarà il regista del “Barbiere di Siviglia” che andrà in scena il 31 Marzo che si terrà al Teatro Sociale di Rovigo. Fino al 6 aprile ritroviamo al Teatro Piccolo di Milano la traduzione della Lagani di Romeo e Giulietta di William Shakespeare con la prima regia di Mario Martone. Affondiamoci nelle parole di Chiara Lagani.

Immaginatevi di essere terribilmente stanchi e che il sonno stia per sorprendervi e trascinarvi al fondo di un sogno. Il punto di partenza di questo spettacolo è proprio quello stato parzialmente vigile e al contempo di semi-abbandono in cui il corpo si fa improvvisamente pesante, la mente si solleva e quasi possiamo vederci dall’alto, salvo repentini sussulti delle membra che, se non ci svegliano, segnalano proprio un profondo inevitabile trapasso ad un mondo “notturno”, fatto di immagini e suoni volatili eppur consistenti. Siamo allora nel mondo dei sogni, un mondo dotato di sue regole parallele che in qualche modo riorganizzano e trasformano le immagini diurne con quelle del nostro inconscio”. 

 Qual è stato il lavoro che hai compiuto dapprima, traducendo il testo in Italiano “Sylvie e Bruno” di Lewis Carrool scritto nel 1889?

 “Questo è un libro amatissimo da me ma anche da Luigi de Angelis regista della compagnia “Fanny & Alexsander. Da quando siamo ragazzini in qualche modo volevamo affrontarlo, prima volevamo fare un film, poi ci siamo resi conto che eravamo solo degli adolescenti e della complessità di questo romanzo e quindi ci siamo detti, forse bisogna aspettare un po'. Perché ci sono delle opere che hanno bisogno di tempo e di più maturità. Questo romanzo che io amo tanto poi mi è ritornato indietro in concomitanza del primo lookdown (quello più duro), epoca in cui mi trovavo a fare una proposta di una traduzione Einaudi e ho pensato di nuovo a questo libro che nel frattempo era già stato tradotto in Italia la prima volta da Cordelli, e poi era uscito fuori catalogo e mi sembrava un peccato che non fosse più in circolazione, e così sono stata io a proporre la traduzione ad Einaudi e la richiesta mi è stata accolta. Ho passato fortunatamente tutta quella orribile chiusura a tradurre le parole di Carrool, e devo dire che mi hanno salvata, sollevata in quel triste periodo. Perché per me è stato come immergermi in uno strano luogo, tra sogno e realtà che è stato come un antidoto contro la depressione per tutto quel periodo in cui siamo dovuti rimanere chiusi in casa. Dopo aver pubblicato il libro con Einaudi e avendo la mia traduzione a disposizione con Luigi de Angelis ci siamo detti, ecco è arrivato il momento di metterlo in scena, perché in noi quella storia era ormai sedimentata da anni, c’era ormai un grande amore. 

La prima volta che è andato in scena lo spettacolo in Italia?

 “La prima romana è stata il 22 di Marzo, mentre la prima volta che lo spettacolo è andato in scena in Italia immediatamente dopo la fine delle chiusure orribili del Covid. Lo spettacolo dunque è in tournée da quasi due anni. Ha debuttato la prima volta a Ravenna perché era una produzione del “Ravenna festival” successivamente è andato in scena in diverse città italiane. La cosa più bella per me è che il testo dello spettacolo è nato in parallelo alla traduzione, come se già i corpi degli attori fossero già presenti nel lavoro sul testo. Mentre traducevo pensavo continuamente alla messa in scena, sono due operazioni fuse in una”. 

 Nel 1992 fondi a Ravenna insieme a Luigi De Angelis la compagnia “Fanny & Alexssander” che verte nello studio tra un teatro di ricerca e un teatro sperimentale. Dal momento che hai dichiarato prima che la traduzione è stata fatta in funzione dello spettacolo. Ci sono state delle riscritture in funzione della messa in scena della tua stessa traduzione? Perché gli attori sembrano molto plasmati e inducono ad intermittenza astrazione brechtiana ma anche un altro tipo di empatia e allora ci chiediamo se era questo il tuo intento?

“Si esattamente, perché ovviamente ogni traduzione è stata composta per la scena, sono tutte traduzioni dall’inglese all’italiano effettuate da Einaudi e traduzioni fatte appositamente per lo spettacolo che implica un sovvertimento del testo di origine, per cercare come dico sempre di essere fedele al testo originale. Nel testo di Carrol c’è un narratore, una persona molto anziana che si addormenta sempre e che scivola continuamente tra il suo sogno e la realtà. Quindi sono due storie intrecciate quelle che vengono raccontate, però non intrecciate in una maniera morbida ma anzi in una maniera schizofrenica, proprio quando ci si sveglia da un sogno e dobbiamo prendere i contatti con la realtà e non capiamo ancora se è un sogno o la realtà. Noi non abbiamo un attore anziano in scena, e come se io avessi parcellizzato tutto questo racconto in terza persona, che è una parte narrativa del racconto, facendone come un personaggio diviso in 5. E da qui questo elemento straniante brechtiano in cui l’attore sembra a volte uscire dal personaggio per diventare narratore e raccontare l’avvenimento ed è una caratteristica che è suggerita dallo stesso testo di Carrol che fa si che questo narratore,  sia il protagonista perché è l’amico delle due fate bambine e fortemente amico nella storia borghese dei due innamorati Arthur e Muriel, diventa protagonista a suo malgrado di queste storie allo stesso momento è colui che c’è lo sta raccontando ai nostri lettori e continuamente si rivolge a noi lettori in maniera diretta. Infatti gli attori appellano a volte lo spettatore. All’inizio dicono a te spettatore devo dirti una cosa, hai mai visto le fate? O vuoi che ti insegno a vederle? Questo deriva proprio dal libro. Un Personaggio che racconta una storia ma allo stesso tempo quando la racconta ne sei comunque protagonista, perché se la narri sei comunque un personaggio di quella storia. Questo aspetto per me era fondamentale da mettere in risalto nello spettacolo, ma io ho deciso di operare verso questa strada”. 

 “La scelta drammaturgica di inserire il Meta-Teatro riportata soprattutto dalle voci fuori campo registrate degli attori quando interpretano i bambini, da cosa deriva questa scelta registica di inserire voci fuori campo?

 “La scelta è dovuta alla presenza di questo narratore che viene diviso in 5 personaggi diversi. Il teatro è sempre menzionato nel romanzo di Carrol, quindi c’è la presenza del meta teatro. Ad esempio una delle due fate è ossessionata dal teatro e dalle rappresentazioni e mette in scena continuamente piccoli frammenti teatrali. Quindi il teatro è molto evocato, lo stesso Carrol pare che il suo romanzo lo componesse oralmente, lui buttava giù una traccia e poi si procurava un pubblico di bambini, anche per questo romanzo, si rivolge agli adulti per rievocare il loro essere bambini. E pare che lui mettesse in scena queste rappresentazioni facendo tutte le voci, quindi c’era questo narratore onnipresente che interpretava ogni personaggio e questo rimane nelle pagine consistenti e rimane impigliato in questa metodologia. Penso che era importante mettere in scena il fatto che uno attore è il suo essere attore e guardare il suo essere attore, questa è la chiave a cui io e Luigi tenevamo tantissimo. E un sogno continuo in cui si ci sveglia dormendo”.

Si nota tantissimo l’incipit del teatro elisabettiano del fatto che gli attori ad un certo punto diventano spettatori della rappresentazione. La scelta di inserire all’inizio della prima scena quando entrano i corpi degli attori utilizzando quelle luci che sono soavemente rendono i corpi fantasmici. Questi attori che rievocano siamo o non siamo in un sogno?

“Hai descritto il prologo meglio di come avrei potuto farlo io. Luigi ha sempre voluto sottolineare come questi corpi siano eterotopici e utopici al tempo stesso un luogo e non luogo allo stesso tempo. Questi corpi nella nostra rappresentazione dovevano essere immateriali, per questo motivo l’utilizzo all’inizio di quelle luci che rendevano invisibile il corpo ma visibile solo minimamente. Questi corpi stanno a significare che sono qui ma allo stesso tempo non lo sono e che hanno un rapporto con l’invisibile. Questo è il timbro dello spettacolo poiché si allude sempre a qualcosa che non esiste sula scena, oggetti che devono essere solo immaginati ma anche i racconti stessi non li vediamo in scena rimangono fuori campo ma in campo dalla narrazione dei personaggi. Lo spettatore è portato ad un gioco ludico di immaginare ciò che non c’è e di non immaginare invece ciò che viene raccontato con le parole, questo può creare confusione ma è questo l’intento. Lasciare confusione di un sogno non ricordato bene. Essere capaci di vedere l’invisibile e di custodirlo dentro di se”. 

 “Nel corso della tua carriera hai lavorato con degli artisti di un certo calibro quali: Stefano Bartezaghi, Goffredo Fofi, Luca Scarlini, vuoi raccontare qualcosa su queste collaborazioni?”. 

 “Sono tutti dei grandi intellettuali con la quale ho sempre cercato di creare un rapporto per sviscerare vari lavori su vari romanzi. Abbiamo lavorato insieme per il ciclo di Adina Bocok, abbiamo lavorato sia con la traduttrice la bravissima Margherita Crepax e anche con Stefano Bartezaghi riguardo a tutta la tessitura linguistica dei giochi di parole, che è fondamentale per capire un autore, ci si rivolge sempre in dei specialisti del settore quando si deve effettuare una nuova traduzione o un nuovo lavoro. Sono come delle muse ispiratrici per ritrovare il proprio punto di vista per l’interpretazione. Soprattutto quando poi una opera si mette in scena e si crea, questo significa interrogarla da vicino e dal vivo, creando un rapporto intimo e ravvicinato. Sono delle operazioni così delicate che a volte farle da sole è impossibile, per cui ci si crea delle alleanze”. 

 “Ritornando allo spettacolo, essendo che tu oltre ad essere anche la drammaturga, se anche attrice nello spettacolo, come hai dovuto lavorare per effettuare due menzioni molto complesse contemporaneamente?”

 “Questa è una complicazione che mi sono scelta, poiché io di base sono una drammaturga, ma ho sempre pensato come faccio a scrivere se non so cosa significa interpretare? Per cui mi sono sempre dedicata anche alla recitazione. Come fai a scrivere un testo per il teatro se non ci passi con il tuo corpo? Come fai a consigliare ad un attore ad incarnare la parola o un personaggio se non hai vissuto quella esperienza unica e alchemica? Il mio stare in scena per me è interrogare continuamente il mio essere drammaturga. Poi ho la fortuna di avere come compagno di lavoro Luigi De Angelis regista della compagnia invece io sono la direttrice artistica, insieme abbiamo costruito un rapporto di 30 anni, è un fratello per me. Io mi fido tantissimo di lui quando lavoriamo i suoi occhi sono i miei. Avere una persona di cui ci si fida è pura fortuna perché lui vede dove io non posso vedere mentre recito in scena”. 

 La forza di questo spettacolo è dunque che i personaggi non rappresentano questo nel senso convenzionale del termine, ma rappresentano dei proto-personaggi del sogno di un pensiero. Insieme a te sul palco vediamo recitare Marco Cavalcoli, Andrea Argenteri, Roberto Magnani, Elisa Poll. Come hai lavorato con gli attori e come vi siete gestitici con le voci registrate?

 “Per me questi attori sono fantastici, Cavalcoli e Argenteri sono storici nella compagnia e avevano già lavorato insieme a me e a Luigi. Roberto viene dal Teatro delle Alpe ed Elisa Poll da un’altra compagnia con sede a Ravenna. Noi ci conosciamo da quando siamo piccoli e proviamo l’uno per l’altro un amore sconfinato. Dopo il lookdown c’era il desiderio di rimettersi in teatro con delle persone e rivivere. Così ci siamo messi sotto per mettere in scena il tutto. Nello spettacolo si sente che c’è condivisione gioiosa di quella paura che ormai è svanita. Si ritorna a teatro. 

Per rispondere alla parte più tecnica della domanda Luigi è un musicista per cui le sue regie le crea come delle partiture musicali, con pause, silenzi, allegri o adagio con utilizzo di arcate musicale retoriche. La sua regia è come suonare una partitura, hai colto molto bene questa corrispondenza del doppiaggio, e di presenza di inarcature ritmiche in cui ogni attore consegna la sua battuta all’altro come fanno i musicisti in una orchestra”. 

Progetti futuri?

“il mio cuore è diviso tra le rappresentazioni a Roma al Teatro India e un Barbiere di Siviglia che è andato  in scena il 31 marzo a Rovigo e poi sarà a Ravenna al Teatro musicale poiché è parte integrante della compagnia. Ora vengo dalla traduzione per Mario Martone del Romeo e Giulietta che ha appena debuttato al Piccolo di Milano che è ancora in replica in questi giorni fino al 16 aprile. Luigi ha molti progetti musicali, abbiamo 3 piccoli pezzi uno dedicato a Nina Simone, uno dedicato al tema della maternità”

Dunque più cose che bollono in pentola e che presto verranno cucinate e servite a puntino, in un piatto unico e magico con il gusto a sapore di teatro. 

Carmela De Rose 03/04/2023

ROMA – Il vento non sembra violento, il vento pare innocuo, dolce brezza che ristora, tra tutti gli agenti atmosferici sembra il più docile e controllabile. Eppure ci sono i tifoni e le trombe d'aria, la bora, eppure le scogliere sono erose da centinaia di anni di rivoli di vento che le hanno scalfite, scolpite, segnate come profonde righe sugli zigomi. Il vento, come costante, come goccia cinese, può far male, può ferire in profondità dove è difficile, se non impossibile, rimarginare il dolore. Ha aspetti psicoanalitici questo “Le ferite del vento” (1h 20', dell'autore madrileno Juan Carlos Rubio; prod. Società per Attori, Teatro Civico La Spezia; visto alla Sala Umberto di Roma) portato in Italia dalla regia fervida e intelligente di Alessio Pizzech: due uomini che si affrontano e scontrano e confrontano (fino a confortarsi) con un terzo che aleggia misterioso e indecifrabile, un fantasma dai contorni labili e inconsistenti, un ectoplasma del quale rimane soltanto il ricordo anch'esso fugace, immateriale, incorporeo. Una morte li divide, una morte li unisce.Ferite-del-vento.jpg

Dopo la scomparsa del padre anaffettivo, frugando tra le carte del padre, Raffaele, per sistemare gli aspetti burocratici dell'eredità, il figlio, Davide (Matteo Taranto riesce bene a destreggiarsi dentro l'inquietudine, la forza che si fa debolezza per poi ritrovarsi nudo davanti al bisogno d'aiuto, possente e fragile) scopre delle lettere, lettere d'amore, lettere spedite da un altro uomo proprio al genitore. L'idea granitica e solida del padre tutto d'un pezzo, che non amava nemmeno sua moglie, si sgretola in un attimo, va in frantumi come uno specchio colpito con violenza. E' questo padre mancante e assente (lo fotografa benissimo e in maniera lapidaria la canzone di MinaBugiardo e incosciente”), come lo è stato peraltro anche in vita, l'anello di congiunzione tra i due uomini, un uomo incapace d'amare, di provare sentimenti o quantomeno di riuscire ad esternarli, dimostrare gesti d'affetto, una carezza, una parola, un abbraccio, un bacio, una tenerezza, soltanto freddezza e gelo. Le lettere le ha spedite appunto un altro uomo, Giovanni, un Cochi Ponzoni duttile e versatile, lucidissimo interprete, riesce a coniugare l'amore in svariate riflessioni, un piacere vederlo così in forma. Questo padre (se Davide è il figlio, lui è sicuramente un Golia o un colosso dai piedi d'argilla) ha condannato entrambi in vita a ricercare la sua approvazione e stima senza essere minimamente ricambiati, ed entrambi Cochi ponzoni 1.jpegsono rimasti ancorati all'idea che quest'uomo potesse cambiare, potesse un giorno voler bene loro, aprirsi, farli sentire ben accetti, benvoluti, amati nel senso più ampio del termine.

L'atmosfera trasognante (in questa versione nostrana importantissime le musiche di Paolo Coletta e le luci di Michele Lavagna) ha un riverbero nascosto che ci porta ad un mix sensoriale tra “Tutto su mia madre” quando la telecamera si alza dal campo di prostitute e inquadra Barcellona (“Tajabone”), e “Un tè nel deserto” (Ryuichi Sakamoto) quando John Malkovich corre tra le dune per raggiungere l'oasi. Fuggire da qualcuno e andare disperatamente alla sua ricerca forsennata come nodo da sciogliere, come percorso da camminare, come assioma da spiegare. La scena (orchestrata e architettata da Alessandro Chiti) prevede due grandi parallelepipedi, uno verticale l'altro orizzontale (entrambi rigidi, fermi nelle proprie posizioni e convinzioni) che si iLe-ferite-del-vento.jpgntersecano creando un incavo, un insieme, un rettangolo frutto dell'unione dei due, dell'osmosi e dell'incastonarsi, con i due interni borghesi delle abitazioni, del padre e del presunto amante, comunicanti e drappeggiati da teli leggeri di plastica quasi a sottolineare l'aria da obitorio e autopsia delle emozioni e delle passioni. Un uomo misterioso, il padre, che non si è fatto conoscere e che, involontariamente, ha unito questi altri due uomini, prima in conflitto e competizione, adesso vicini, ognuno alla ricerca di quello che l'uomo deceduto non aveva mai concesso loro.

Dentro il baratro della scomparsa i due si salvano a vicenda (trovando un figlio? trovando un padre?) sublimando un amore, esorcizzandolo; prima si erano visti rovinare la vita dalla sua insensibilità e adesso, con la sua mancanza, stavolta fisica e reale e tangibile e materiale, hanno ritrovato un centro, hanno rimesso in ordine gli appunti sparsi (c'è un coup de theatre fondamentale che tutto ribalta), hanno dato un senso ad esistenze tenute in sospeso, appese ad un filo, ossessivi e tentennanti e adoranti come pulcini tremolanti con il becco aperto in agognante ansia del nutrimento dei genitori. Un padre, immensamente amato e profondamente odiato, che con i suoi silenzi li ha perseguitati in vita, che ha minato le certezze del figlio e dell'amante (inteso come colui che lo amava, non ricambiato), che li ha resi duri e disillusi, dubbiosi, incerti, paurosi e soprattutto soli. Un testo che ci parla di dipendenza, di responsabilità, di identità, di genitorialità, di perdono.

Tommaso Chimenti 19/03/2023

ROMA – Il compleanno è il momento di passaggio per eccellenza per ogni essere umano, è l'epifania della nascita, è la celebrazione di un'intera rivoluzione terrestre attorno al proprio asse, è la consapevolezza del tempo che è passato attraverso le nostre ossa, occhi, rughe. Il compleanno è un momento cardine che serve a ristabilire chi siamo, che cosa abbiamo fatto, ricollocare le nostre priorità, ambizioni, sogni, rimorsi, rammarichi, delusioni, ma è anche una spinta e un trampolino verso il domani. E' un punto, una linea, una frontiera dalla quale ripartire domani, è una parentesi che si chiude sul passato e allo stesso tempo un'altra che si spalanca per inglobare i giorni che ancora devono venire. Ed è questo momento catartico, di morte e rinascita, il fulcro sul quale ruota appunto “Il Compleanno” (visto alla Sala Umberto; prod. Tieffeteatro, TSV teatro nazionale, Viola Produzioni), testo dalle tante pieghe di Harold Pinter, in queste versione diretta con vigore e convinzione7315f-6408f-ad771-2a7af-90a19-56f21-0a-web-dsc-5404-copia.jpeg da Peter Stein (il miglior spettacolo all'interno di “Next” '22, la vetrina del teatro lombardo), è una drammaturgia piena di non detti, infarcita di sottotesti, incalzante di misteri, debordante di elettricità e nervosismo. E' una corda tesa allarmante dove l'aria frigge sospesa tra un'ironia sprezzante, un assurdo frizzante e un'atmosfera retrò illogica, ostile, fuori dagli schemi. Una pièce oscura, certamente inquietante e intimidatoria.

In una pensione inglese di provincia gestita dai padroni di casa, marito e moglie, vive un unico inquilino, un ragazzo che se ne sta tutto il giorno in casa, quasi si nasconde dal mondo esterno, era un pianista nella vita “precedente” e adesso se ne sta in disparte, rintanato, disilluso, infelice. Giornate tutte uguali fin quando non arrivano due tizi, che sembrano agenti segreti usciti da Men in Black o scagnozzi inviati da qualche boss, a disturbare il menage dei tre, delle loro azioni sempre identiche a se stesse. E' questa la rottura, il crack che trasformerà per sempre le loro vite, sottolineando indelebilmente un prima e un dopo da quella data. La padrona di casa (Maddalena Crippa sopraffina) è generosamente pedante e petulante, 220305214-7e3a6650-b254-4df7-82de-cdb00bf122e5.jpginvadente e logorroica e ambigua tra il provocante e il refrattario, il ragazzo, che indossa un maglione slargato come Samuele Bersani nel suo primo Sanremo, (molto Charlie Brown dei Peanuts) invece è arruffone (Alessandro Averone riesce a calibrare, anche grazie alle variazioni tonali della voce, i registri della paura e dello stupore), sconsiderato, scompigliato, che arrogantemente le fa notare le mancanze, la sporcizia, il marito (Fernando Maraghini amplomb e sicurezza da vendere) tenta di barcamenarsi tra le crepe del presente nei suoi riti convenzionali. Sono tutti e tre a loro modo insoddisfatti, falliti, sconfitti, perdenti senza rendersene conto, senza averne piena coscienza rimanendo dentro quel loro guscio caldo, impossibilitati a cambiare vita rimangono nei medesimi binari perpetrando il solito tran tran fatto di piccoli gesti rituali, colazione, leggere il giornale, le chiacchiere vuote, che li fanno sentire ancora vivi e salvi o perlomeno al sicuro dalle intemperie dell'esistenza che là fuori si muove, dai cambiamenti, “dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai”, la consolazione noiosa come antidoto all'ansia.

Come in un racconto di Carver il pubblico entra nel mezzo della vicenda dalla quale è escluso che possa sapere e conoscere il prima e il d4a99-a81df-8324b-e8e12-1292a-06b96-d3-web-dsc-5366-copia.jpegdopo. Molti dettagli sono oscuri: perché il ragazzo è lì e da cosa era scappato? Da chi si sta rifugiando? Che cosa o chi cercano i due “sicari”? Dove lo porteranno dopo? Perché inscenare una festa di compleanno quando il protagonista dice che non compie gli anni quel giorno? Perché i due picchiatori (Gianluigi Fogacci superlativo) arrivati lì per il classico regolamento di conti gli chiedono insistentemente “Perché ci hai tradito?”, “Perché hai lasciato l'organizzazione?” Perché non possono dire alcune parole-kryptonite come “succulenta” o “carriola”? I due loschi figuri, vestiti come Le Iene di Tarantino, che parlano di lavoro da portare a compimento e di procedure da mettere in atto, di missione, hanno sbagliato casa commettendo uno scambio di persona oppure hanno le loro ragioni dalle quali siamo comunque lasciati fuori? Il compleanno diventa un “fare la festa a qualcuno” in senso metaforico, figurato, violento e minatorio.

Potremmo DSC_6167.jpganche tentare di fare un'analisi, del tutto personale, dei nomi scelti e usati da Pinter: abbiamo Petey, il marito, che potrebbe essere una crasi tra Petty, trascurabile, e Pety, piccolo, ma che si pronuncia come “pity” ovvero pietà; abbiamo il ragazzo Stan che potrebbe essere un mix tra Stand, in piedi, e Standard, usuale, normale; Mc Cann, uno dei due delinquenti in giacca e cravatta, potrebbe provenire dal verbo Can, potere, mentre l'altro Goldberg, montagna, in tedesco, d'oro, fino a Meg, diminutivo di mega, ovvero dilatazione esagerata come in effetti è l'entusiasmo smodato della padrona di casa. Le domande si affastellano (forse troppo lungo, 2h40') e i nodi non si sciolgono, non rimane che sedersi dalla parte dei colpevolisti o da quello degli innocentisti, tra chi vede dei reati da punire come contrappasso nel passato del ragazzo e chi giura sull'errore del sistema che ha colpito un onesto e ingenuo giovane uomo. Più che altro il compleanno parla di solitudini, di comfort zone per niente confortevoli dove aleggia una pericolosità latente che esplode e questa deflagrazione sembra necessaria e in qualche modo liberatoria, purificatrice, salvifica per ristabilire un ordine preciso delle cose, per rimettere in circolo energie, smuovere il fango rappreso. Colorato e amarissimo, un testo che non lascia in pace lo spettatore, per fortuna, un testo tutt'oggi scomodo, difficile da affrontare, da gestire, da digerire.

Tommaso Chimenti 05/02/2023

ROMA – Entrando nel foyer del piccolo e delizioso Spazio Argot (i teatri nei palazzi sono più frequenti all'estero, da noi sono più una rarità; viene in mente il Teatro Libero a Milano) campeggia un bellissimo quadro con rappresentato un lottatore, o meglio un wrestler, si notano appunto le corde e la maschera, quest'ultimo dettaglio è l'icona che caratterizza questo sport-show-intrattenimento rispetto ad ogni altra disciplina che si muove dentro il quadrato del ring. Sembra una strana coincidenza studiata con lo spettacolo che da lì a poco farà da detonatore dentro la sala nera, invece quell'opera staziona sulla parete accanto alla biglietteria da molto, ma stasera il binomio è perfetto, l'incastro lampante, il parallelismo lapalissiano. Entrare nel mondo del wrestilng (e Mickey Rourke foto 3.jpegne sa qualcosa del vortice nel quale è stato fagocitato) è come mettere piede nel tunnel degli specchi dove tutto non è come appare, in un gioco di palazzetti strapieni e di atleti dove la finzione è dichiarata, dove le mosse sono coreografie e gli scontri dialettici, che permettono la netta divisione per la folla tra buoni e cattivi, è pura drammaturgia, testo, vera scrittura di autori che preparano i canovacci. Praticamente una soap, una fiction, un reality con protagonisti culturisti acrobati mascherati dai muscoli scintillanti.

Nell'interessante ottica di riflettere sui possibili punti di contatto tra il teatro e il wrestling (anche in teatro i morti e feriti sono finti e la trama spesso è nota fin dall'inizio ma non per questo non andiamo in platea a vedere uno Shakespeare, un Moliere, un Goldoni o un Pirandello) un allegro e brioso trio di scalmanati (grande amalgama e complicità: Silvio Impegnoso, Ludovico Rohl, Alessandro Sesti hanno numeri e assi nella manica) ha creato foto 11.jpegl'impianto di “Tonno e Carciofini” (prod. Argot, menzione ad un recente Premio Scenario 2021; titolo traviante che non rende giustizia alla pièce e al suo contenuto) racconto sull'amicizia intrecciato con tutto l'ammasso di contemporaneo di cui siete capaci di immaginare. Ne viene fuori un calderone e uno zibaldone folle e pazzo, spietato e divertente che fa ululare. I tre ci hanno ricordato per veemenza e scaltrezza e incoscienza il collettivo dei Tony Clifton Circus e di rimando il loro maestro, Leo Bassi. Potremmo spingerci fino ad aver scorto qualche lampo di Antonio Rezza. E come veri “clown cattivi” si insultano, si pestano, si picchiano su quel limite di verosimile che ad ogni scontro fisico sembra travalicato. Invece tutto è misurato pur nell'eccitazione dell'esagerazione, pur nella calibratura dell'eccesso. E' questo il gioco, spingersi oltre per poi rientrare nei ranghi per prendere nuovamente la rincorsa in un affannato spassoso frizzante effervescente coinvolgente play che certamente non lascia indifferenti.

Il pubblico eccitato si ritrova in una sorta di Colosseo a parteggiare e soffrire tra urla di giungla, musica industriale, poesia, sudore e botte foto 13.jpegda orbi. C'è una sorta di provino per un quasi X Factor, c'è Achille Lauro che si miscela con Yoko Ono, c'è un padre a cui l'ex ha portato via il figlio, c'è un'analisi sull'arte contemporanea come sulla politica, c'è la tessera del PD, ci sono i racconti strappalacrime da caso umano e le luci stroboscopiche, il tutto tritato e frullato e concentrato e condensato nel caos tra sedie spaccate sulla schiena, chitarre inferte sulle scapole e bidoni dati in modo assatanato sulle spalle. Un Maestro crudele e malvagio che mette i due amici uno contro altro (la competizione del mondo attuale) riuscendo a tirar loro fuori la rabbia, l'insoddisfazione e la violenza spremendoli e toccando i tasti psicologici giusti, le molle per farli saltare, provocando le loro reazioni. Il succo finale è una spremuta fradicia, sprezzante della coerenza drammaturgica, dove l'invidia sociale si bilancia e fa da contraltare con la ricerca dell'amicizia, la richiesta d'amore e il bisogno di stima. I tre meritano di essere visti: eccentrici, fulminati, confusionari, squilibrati, sconclusionati, eccezionali, irriverenti, sfrontati, carismatici, rumorosi, casinisti, pirotecnici, apocalittici, esondanti, punk, rock, caustici, corrosivi, furiosi, esponenziali si autoalimentano, isterici, sferzanti, scapigliami scompigliati e scarmigliati, istrionici, cialtroneschi, illogici, sarcastici, viscerali, senza paura né lucidità, di rara carica e potenza, sprizzano un'energia rigenerante e ristoratrice che ha bisogno di essere incanalata in nuove sfide. Il rimedio contro la noia, la medicina contro il logorio della vita moderna. “Don't try this at home” è il motto. Andateci e menatevi, il consiglio.

Tommaso Chimenti 28/01/2023

 

ROMA – “C’è chi aspetta la pioggia per non piangere da solo” (Fabrizio De André).

Dopo la pioggia si dice che torni sempre il sereno. E ancora: “non può piovere per sempre”, corvescamente parlando. L'acqua lacrimevole che scende dal cielo (torna in mente anche “X agosto” di Pascoli) in questo “Dopo la pioggia” (prod. Aria Teatro, Fattore K; visto all'interno della bella stagione del Teatro Basilica) porta in sé una cappa lugubre, di stallo, un affossamento che attanaglia, stringe come cappio, teatro-262.jpgnon permette slanci o voli, blocca a terra, tarpa le ali, una campana di vetro che da un lato protegge dall'altro incatena. In una situazione claustrofobica, con una finta allegria che aleggia e si spande e si disperde ammantando le quattro pareti domestiche dove tutto pare ammuffire e stagnare senza respiro in apnea, due sorelle (Chiara Benedetti e Aida Talliente), problematiche, patologicamente inseparabili e indivisibili, irrisolte, forse incestuose, vivono in simbiosi immerse in un amore formale e tedioso tra vecchie canzoni nostalgiche, gesti sempre uguali e tanta retorica sparsa sui buoni sentimenti. Lucio Dalla avrebbe affrescato così il momento: “Quale allegria se ti ho cercato per una vita senza trovarti senza nemmeno avere la soddisfazione di averti per vederti andare via”. Interessante il fondale che presenta un bianco sporco come mani e passi infangati sopra una fresca nevicata. Il senso d'abbandono e di perdita è il contraltare, e il contrappasso, di stucchevoli canzoncine di inizio Novecento che effettivamente si sostituiscono alla drammaturgia senza parole.

Le due sorelle silenti, in un play muto, si parlano attraverso lettere (che ascoltiamo in audio), forse mai spedite, pensieri carichi di enfasi, pesanti, arcaici senza però raggiungere mai la cifra poetica. L'acqua, che qui non pulisce ma acceca e insozza, contamina e imbratta, una pioggia che pare dopo la pioggia.jpgnon permetta alle due consanguinee neanche di uscire di casa e quindi le costringe come cani alla catena e impedisce loro di vedere il mondo là fuori, è una muraglia impenetrabile, frontiera e cascata che non lascia spiragli di visione, stralci, spazi di manovra, crepe dove ammirare quel che si muove al di là della barriera. Una pioggia punitiva come filo spinato che incarcera creando un perimetro asfittico sempre uguale a se stesso dentro queste mura che le soffoca in una tranquillità finta di movimenti sincopati identici ai giorni precedenti. I due personaggi alternano la loro anzianità (troppo forzati, irreali, non credibili e accentuati i movimenti delle anche dondolando vistosamente) con ricordi della loro gioventù tra capitoli che scandagliano e scansionano e frammentano la narrazione, quadri. C'è una frase: “Volete stare nel passato per proteggervi”; ma questo passato non fa altro che acuire, accentuare, pungere maggiormente calli e zoppie monocorde, senza cambi di marcia. “Alcuni dicono che la pioggia è brutta, ma non sanno che permette di girare a testa alta con il viso coperto dalle lacrime” (Charlie Chaplin).

Troppa, davvero troppa, musica, dischi ascoltati fino all'ultima nota e diapositive a incastonare un lavoro fragile, a tratti sopra le righe, altre pioggia_imagefullwide.jpgsommesso, timido, stanco. Una serie di movimenti e situazioni, scene, che non riescono ad andare in profondità e a raccontarci l'amore, la morte, il passaggio del tempo, il rimpianto, la malinconia. Rimaniamo invece sempre un po' in superficie con la musica, leggera e trasognante a puntellare di illusioni questo universo che le due si sono create, non vivendo la vita vera, rimanendo ancorate ad una infelicità solida e tangibile. Anzi, sono l'una l'infelicità dell'altra, l'una la salvezza dell'altra. Come se, in maniera depressa e sottomessa, avessero aspettato fin dall'inizio la loro fine per sentirsi libere e liberate l'una dall'altra. Infatti, appena una delle due lascia questo mondo terreno sembra che si spezzi la catena, l'incantesimo che le teneva in simbiosi (forse contro la loro volontà e non per amore ma per p(a)ura dipendenza); la pioggia smette di cadere, il sole torna a splendere ma ormai la vita è perduta, sciupata, buttata. Una pièce che si articola e dimena tra la parodia e il dramma, delicata ma che non riesce a proporre spunti e riflessioni, rimanendo sulla crosta del magma, senza sporcarsi le mani, senza andare a fondo, immergendosi in questa impossibilità, in questo “vorrei ma non posso” accennato e lasciato in mano alle canzoni più che alla scena. “Amo la pioggia, lava via le memorie dai marciapiedi della vita” (Woody Allen).

Tommaso Chimenti 21/01/2023

ROMA – “Enjoy the silence”, cantavano i Depeche Mode, anche se qui, in questa storiaccia non soltanto romana, c'è poco da godere. Perché Agostino Di Bartolomei non era soltanto un giocatore e non era solo un calciatore della Roma, era un patrimonio del calcio e dell'Italia ma, ampliando lo sguardo e il respiro, un patrimonio delle brave persone, di quelle sensibili, di quelle schive e introverse, parole che oggi suonano quasi come offese perché dobbiamo essere tutti iperesposti, sovradimensionati, esageratamente, in foto, nei video, nelle pose sparate. Agostino era un Ago-Capitano-Silenzioso-Agostino-Di-Bartolomei.jpgragazzo cresciuto a Roma, un ragazzo di quartiere che però crescendo, accanto al pallone, si era appassionato di libri e di arte e che apriva bocca se aveva qualcosa di intelligente da dire, altrimenti se ne restava volentieri in silenzio. “Il silenzio è una discussione portata avanti con altri mezzi”, battagliava Che Guevara. Ecco il perno di tutto lo spettacolo di Ariele Vincenti, convincente e solido come sempre proprio perché racconta soltanto quello che gli appartiene e ciò che gli si muove attorno, accanto, dentro. Ariele (ha nel nome il germe del teatro, Ariel come il personaggio de “La Tempesta” shakespeariana), con la maglia targata Barilla dell'epoca, è uno vero, sincero, onesto con i propri valori e con il suo pubblico che è popolare e fatto non tanto di addetti ai lavori ma di gente comune che si appassiona alle sue storie e ne riconosce il marchio di genuinità, con trasporto, entusiasmo.

Questo suo “Ago. Capitano coraggioso” (visto al Teatro di Villa Lazzaroni), dedicato alla memoria e a ricordare quel numero 10 giallorosso mai scordato e dalla fine così tragica, fortunatamente non ha replicato soltanto a Roma e nel Lazio (in un verace romanesco, ma comprensibilissimo) ma delle sue, per adesso, quaranta repliche molte sono state messe in scena fuori dai confini regionali, e questo ha dato una grande ariele vincenti 1-2.jpgdignità al lavoro che non si è chiuso in steccati faziosi di colori calcistici o in stupidi recinti linguistici o dialettali o ancora in reticolati provinciali. Si racconta la storia di un uomo, non di un calciatore. Un uomo che aveva coronato il suo sogno di giocare a calcio e di farlo per quella maglia che, fin da piccolo, aveva agognato, idolatrato, sognato: la Roma, la sua Roma. La fama e i soldi non lo avevano cambiato. Il suo pregio più grande era l'umiltà, low profile si direbbe oggi. E quel “Silenzio”, che campeggia nello striscione dietro Vincenti per tutto il tempo dello spettacolo, è quella quiete che ha usato come arma Agostino nella sua vita contro le banalità ipocrite del sistema e quel silenzio che siamo stati costretti a sentire con la sua mancanza e ancora quel silenzio pudico e rispettoso che tutti hanno dovuto ad un uomo sensibile che la vita aveva compresso e schiacciato come pentola a pressione.

La sua parabola sa di discesa agli inferi: il sogno della serie A, il desiderio realizzato di giocare per la sua città, per la sua squadra del cuore, l'ambizione compiuta di farsi capitano e responsabile di quei colori. Sembra una fiaba a lieto fine, di quelle da e tutti vissero felici e contenti. Oltre dieci anni alla Roma, le Coppe Italia e addirittura uno scudetto. Dove sta la fregatura? Arriva nel momento più doloroso, dopo la finale di Coppa Campioni (si chiamava ancora così perché vi partecipavano soltanto chi aveva vinto lo scudetto in patria) persa in casa Agostino-Di-Bartolomei.jpg(ancora più luttuoso) dopo i terribili e strazianti rigori contro il Liverpool (30 maggio '84), viene ceduto al Milan, dove giocherà per tre anni. Fu proprio un suo gol, con sonora esultanza, contro la sua Roma che scatenò l'odio cittadino verso quel figlio adesso ripudiato. Dal Milan ancora un gradino sotto al Cesena e poi ancora più giù in serie C alla Salernitana. A fine carriera lasciato il calcio lascia anche Roma per stabilirsi in un paesino della Campania, il tracollo è definitivo, il viaggio verso l'abisso è compiuto, concluso. Da lì allo sparo passeranno poche stagioni (30 maggio '94, 10 anni esatti dopo quella finale!)

Esemplare e significativo che giocasse con il numero del trequartista, il dieci, ma facesse il libero, giocasse in difesa, una contraddizione in quegli anni di numeri rigidi e di schemi fissi; e viene in mente la battuta finale, che poi darà il titolo alla pellicola, “Anche libero va bene”, di Kim Rossi Stuart, del bambino detta al padre. Ed è emblematico il suo soprannome-diminutivo, che poi dà il nome all'avvincente piece di Ariele Vincenti, “Ago” che sa di esplosione, di bucare la bolla costruita attorno alle menzogne che il calcio alimenta colpevolmente, il money facile, la gente che ti vede come un semidio, che bacia la terra che calpesti, che ti cerca, ti esalta per poi sostituirti con altri volti, altri calciatori più giovani, e ti dimentica, ti posiziona tra le figurine nostalgiche. Di Bartolomei in definitiva era un uomo deluso da come era andato il suo percorso, calcistico e vitale, maxresdefault.jpgdepresso proprio perché emarginato dal mondo del pallone, che era, fin da piccolo, tutto il suo mondo. Lui che, in maniera romantica (anche scomponibile in Roma-antica), voleva soltanto giocare a calcio come aveva fatto in strada fin da ragazzo. E i calciatori, si sa, rimangono sempre un po' eterni bambini e la chiusura della carriera è sempre drammatica. Totti, con il microfono in mano in uno stadio Olimpico piangente nel suo addio al calcio, disse: “Concedetemi un po’ di paura e stavolta sono io che ho bisogno del vostro aiuto e del vostro calore”. Ecco forse quell'aiuto e quel calore dei quali aveva tremendamente bisogno anche Ago che si è sentito abbandonato ma che non ha saputo chiedere se non con quel gesto finale.

Questo monologo dovrebbero vederlo i suoi ex compagni di squadra, Conti, Pruzzo, Graziani, e tutti i romanisti e tutti gli appassionati di calcio e gli appassionati di sport e anche quelli che in uno stadio non ci sono mai entrati e quelli che Di Bartolomei non sanno neanche chi sia. Le parole dolorose di questo straordinario affabulatore (andate a cercarvi nei teatri anche altri suoi lavori come “Le Marocchinate” o “La tovaglia di Trilussa”) vanno assaporate fino in fondo, fino all'amaro che ti lasciano, insieme alle lacrime, uscendo. Era un calcio diverso, meno muscolare e meno fisico, con meno tatuaggi e meno simulazioni, con meno pose ad uso delle telecamere e meno meches e brand e sponsor. Agostino ci insegnava con il suo calcio pulito l'attaccamento alla maglia, il rispetto delle regole e dell'avversario. E adesso rimane solo quel gigantesco, divorante assordante silenzio che è un'occasione per ascoltare perché “è nel silenzio che accadono le cose”. Se siete pronti a commuovervi questo è il vostro spettacolo. E oggi, come ieri, c'è sempre bisogno di commuoversi per riequilibrarsi internamente, per ripulirsi da tante inutili parole, per cercare un respiro e una pace nuova.

Tommaso Chimenti 20/11/2022

ROMA – “La scuola non è riempire un secchio, ma accendere un incendio” (William Butler Yeats).
La scuola forma e trasforma, la scuola ci cambia e ci rimane appiccicata addosso, la scuola è la porta verso il mondo adulto, la scuola è trauma o scoperta. A scuola impariamo i ruoli, le regole e il loro rispetto, l'autorità, lo studio e l'imparare ma anche le relazioni con i coetanei, le liti, le fazioni, gli amori, le amicizie che durano una vita. A scuola cresciamo, volenti o nolenti, non passiamo soltanto del tempo, diventiamo persone, ci appassioniamo, diventa il fulcro e il cardine delle giornate, le ansie e il sapere come affrontarle. Per questo la scuola rimane negli incubi e anche nei lucciconi delle foto di classe o nei ricordi delle gite scolastiche: “ditemi, chi non si è mai innamorato di quella del primo banco, la più carina, la più cretina, cretino tu, che rideva sempre”, il primo magico Venditti ben fotografava quella sensazione sia in “Compagno di scuola” che in “Notte prima degli esami”, quello scoramento, quel trambusto tra libri ed ormoni, quel subbuglio esistenziale che la scuola connetteva, rimetteva in circolo, tentava di canalizzare cercando di aprire il pensiero, la mente, imparando a gestire emozioni e parole.La Classe foto gruppo.jpg

E “La classe” è l'iconico pezzo teatrale di Kantor come l'omonimo titolo di Fabiana Iacozzilli ma anche il recente di Nanni Garella. I Pink Floyd in “Another La-Classe-3-ok-Paolotti-Casadio-ph-Federico-Riva.jpgbrick in the wall” ipotizzavano la distruzione delle classi mentre deve aver avuto qualche problemino Caparezza: “Una classe di classici figli di, ho dubbi amletici tipici dei 16, essere o non essere patetici? Eh si, ho gli occhiali spessi, vedessi, amici che spesso mi chiamano Nessy, indefessi mi pressano come uno stencil, Bud Spencer e Terence Hill repressi”. E poi c'era “La scuola” di Daniele Luchetti, prima a teatro e poi sul grande schermo sempre con Silvio Orlando nei panni del professore. Ma anche Pinocchio parlava di scuola, così come “Io speriamo che me la cavo” e certamente non possiamo non citare “L'attimo fuggente” di poesia e brividi.

Ma i riferimenti che più crediamo si possano si avvicinare a questo “La Classe”, scritto da Vincenzo Manna, ormai un cult da diverse stagioni su piazza, per la regia di Giuseppe Marini e la coproduzione tra Società per Attori, Accademia Perduta e GoldenArt, possiamo trovarli in “Nemico di classe” di Nigel Williams (un'importante edizione fu quella che lanciò Gabriele Salvatores), e nelle pellicole “La classe” di François Bégaudeau, palma d'oro a Cannes nel 2008 e “L'Onda” di Dennis Gansel e in qualche modo anche il nostrano “Il rosso e il blu” (come i colori degli errori più o meno gravi da sottolineare) di Giuseppe Piccioni. Senza dimenticare due opere a firma di Stefano Massini: a teatro “L'ora di ricevimento”, al cinema “La prima pietra”.La-Classe-Andrea-Paolotti-Federico-Le-Pera-Claudio-Casadio_-ph-Tommaso-Le-Pera-scaled.jpg

Un professore e un manipolo di studenti “difficili” in un quartiere di frontiera oggetto di forte immigrazione e di tensioni razziali. Gli ingredienti per far saltare il banco ci sono tutti. Siamo dentro ad una polveriera con un cerino acceso in mano, siamo di fronte ad una pentola a pressione che singhiozza e sbuffa. La scuola, e questa classe particolare, come cartina di tornasole per quello che accade fuori, le tensioni sociali tra gli ultimi, la guerriglia quotidiana tra i ceti più poveri. In questa classe i ragazzi con delle insufficienze devono seguire dei corsi di recupero per poter essere promossi; ma sono bulli e arroganti, presuntuosi e provocatori, offensivi e altezzosi, non vogliono imparare niente ma solo avere il pezzo di carta finale per poi “fare quello che voglio”. L'evocativa scena, di Alessandro Chiti, dove a lavagna e cattedra e banchi e sedie, l'idea semplice ma geniale di un pavimento costellato da distese di fogli di carta strappati dai libri, la cultura calpestata, ben si sposa e si esalta grazie alle luci, di Javier Delle Monache, cangianti come sentimenti (e le musiche a timbrare i momenti di Paolo Coletta) che intessono il dramma che monta, riflettono gli umori che guerreggiano e cozzano sul campo di battaglia dell'aula.

Un La Classe - Casadio, Monno, Frullini, Marino, Paoletti.jpggiovane professore molto volenteroso, ancora vergine del sistema e ingenuo, (Andrea Paolotti robusto, ha polso e ben si muove tra le pieghe del testo) e un preside più scafato e disilluso (Claudio Casadio sempre presente, capace con quella sua imperturbabilità candida e quell'incedere autorevole anche in mezzo ai marosi) sono la parte civile e istituzionale della scuola con la quale i ragazzi focosi si scaldano e si accapigliano. Gli studenti sono rabbiosi, hanno alle spalle storie familiari devastate, solitudine, povertà, miseria, abbandono. La scuola però è anche un'ancora di salvezza, che i ragazzi non riconoscono fino in fondo però, rispetto allo “Zoo” (a Calais c'era la “Jungle”, a quella fa riferimento la drammaturgia) uno spazio franco dove sono ammassate migliaia di immigrati irregolari. La guerra dialettica che si scatena è tra i figli dei nullatenenti, marocchini, zingari, e i nuovi poveri ancora più agguerriti ed affamati. Il professore tenta con tutte le carte che ha a disposizione ad interessare i ragazzi non tanto allo studio quanto all'ascolto, all'apprendimento, all'impegno, alla passione per il gruppo e per i progetti collettivi. Ognuno dei ragazzi è fragile e solo e azzannano soltanto perché non sanno che gusto possono avere le carezze, e aggrediscono perché non sono mai stati abbracciati e urlano perché nessuno li ha mai ascoltati, non vogliono responsabilità perché non hanno autostima e quindi hanno paura di fallire anche se non lo ammetteranno mai. Il professore riuscirà nel suo intento, immettendo il germe che con l'impegno e unendo le forze si possono raggiungere dei risultati e delle soddisfazioni, riuscendo, forse, a salvarne qualcuno mentre qualcun altro rimarrà irriducibile e sarà la strada che gli darà lezioni ben peggiori di un compito o di una interrogazione. Tra le note leggermente non così accordate, la grande consapevolezza e il lessico dei ragazzi, soprattutto nella seconda trance dello spettacolo, studenti non proprio modello ma che dimostrano proprietà di linguaggio ai limiti del forbito, e la troppa carne al fuoco immessa nell'agorà: la scuola, l'immigrazione, fino all'Olocausto e allo stupro.

“Colui che apre una porta di una scuola, chiude una prigione” (Victor Hugo).

Tommaso Chimenti 28/04/2022

Foto di scena: Federico Riva e Tommaso Le Pera

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