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Quando si legge la parola “performance” sul flyer di una drammaturgia teatrale, solitamente, la prima, istintiva reazione è quella di un brivido lungo la schiena. Ci si chiede cosa si dovrà affrontare, quali bizzarrie il teatro avrà, stavolta, in serbo per noi. Ebbene, il flyer di “Quando non so che fare cosa faccio” (andato in scena dal 13 al 23 giugno scorso), di e con Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, recita anche, in chiusura, un evocativo e simpatico “si consiglia di indossare scarpe comode”.
Sì, perché si cammina nella suggestiva e al tempo stesso urbana cornice del quartiere Marconi, attorno al Teatro India di Roma. Da una parte il fiume, l’orizzonte, il Gasometro, dall’altra il lungo viale, i negozi, la periferia urbana. Ma andiamo con ordine: si entra nella Sala B del Teatro India, spoglia e profonda, nuda, con Daria Deflorian seduta a distanza dal pubblico. 1Veniamo armati di cuffie bluetooth, con le quali far arrivare la voce sommessa della protagonista fino alle nostre orecchie. Poi si comincia, usciamo dal retro della sala e partiamo per un viaggio, al tempo stesso nella città e nella mente della non-attrice.
Già, perché uno degli obiettivi dello spettacolo è mettere in evidenza cos’è un attore al di fuori del della scena, e di riflesso cos’è il teatro, cosa la recitazione, chi è il pubblico e dove sta il confine (labile) tra palco e realtà. La sovrapposizione dei due è massima, mentre seguiamo Daria a debita distanza lungo le scenografie naturali costruite da Roma: capita di sorpassare una coppia di giovani che litigano, bambini che urlano e calciano un pallone di gommapiuma, di preoccuparsi per qualche goccia di pioggia, di sbirciare fuori dalla vetrina di Tiger, mentre la protagonista solitaria, se solitaria può dirsi per le strade di città, entra, prova qualche strano cappello e commenta, dal vivo, nelle nostre orecchie. Il tutto è condito da brevi riflessioni sull’essere e crescere donna, in bilico tra la scena e la vita, prendendo spunto da aneddoti legati a Stefania Sandrelli e al suo esordio cinematografico in “Io la conoscevo bene” (1965, di Antonio Pietrangeli).
In un percorso in cui tutto sembra casuale, compreso il racconto vocale, forse un po’ troppo spesso abdicato al silenzio, c’è anche spazio per le piccole partecipazioni “scriptate” di Monica Demuru o Ludovica Manzo, a seconda della data, e Francesco Alberici, il cui ruolo non è mai palese prima della rivelazione finale, per i saluti al pubblico. Grande idea, quindi, e costruita con mestiere, quella made in Tagliarini e Deflorian, che potrebbe indubbiamente godere di numerose altre applicazioni. La commistione di storia nelle cuffie e passeggiata in città, infatti, partorisce un’esperienza che meriterebbe di essere provata da chiunque, di solito, rabbrividisca al prospettarsi di misteriose “performance”. Magari al tramonto, con scarpe comode.

Andrea Giovalè
25/06/2018

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