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CASTROVILLARI – Lockdown maledetto lockdown. Tremenda sciagura la quarantena. Il teatro non può non riflettere sui mesi appena passati e, forse, purtroppo, su quelli che verranno. Chiusi, lontani dalla socialità, lo streaming dal divano da casa, adesso con i posti in teatro ridotti, le prenotazioni, le prove senza contatto. Un mondo stravolto, quello degli attori, delle compagnie, degli organizzatori, dal punto di vista esistenziale ed economico, di possibilità e di visione futura. Un muro improvviso ha chiuso il panorama, serrato le aperture. E così il titolo già di per sé incisivo “Vivere è un'altra cosa” (prod. Corte Ospitale e Olinda) del gruppo milanese Oyes (belli i loro “Vania” e “Io non sono un gabbiano”, meno convincente ma sempre interessante “Schianto”) ha ripercorso, tra leggerezza e profonde ferite, sorrisi e lacerazioni ancora irrisolte e non rimarginate, i tragici momenti di sconforto e abbandono ognuno nelle proprie case, isolati dal resto e collegati al quartiere da banali canzoni trash al balcone, paccottiglia come l'applauso all'atterraggio, tutti quei lenzuoli con su scritto “Andrà tutto bene” quando era ovvio che non andava affatto bene niente, i bollettini di guerra e necrologi delle sei del pomeriggio quando la sera avvampava, il buio là fuori si mangiava un altro giorno e la notte scendeva dentro il petto di ognuno di noi appesi alla speranza che veniva vanificata, le solite interviste ai soliti virologi, i dibattiti e i talk show con i numeri impietosi, le camionette militari con le bare di Bergamo. Praticamente da allora poco è cambiato nel nostro immaginario tranne che, e ovviamente non è poco, anzi è essenziale, il poter uscire, andare, fare, a distanza e con la mascherina, certo, ma pur sempre “liberi finalmente e non saper che fare” come avrebbe chiosato Baglioni.20201015arzanominilockdownrcs_640_ori_crop_master__0x0_640x360.jpg

Cinque attori, diretti dalla mano sicura di Stefano Cordella, in uno spazio aperto hanno raccontato il loro personale autobiografico piccolo calvario di mancanze, di lezioni on line, di figli ai quali non saper cosa dire, di compagni e compagne da sopportare, di questa apatia e depressione che tutti affliggeva, costretti a dover fare esercizi fisici e mentali per non pensare al momento ma spostare l'attenzione, cucinare follemente come a Masterchef, impastare anche se non avevamo mai fatto prima il pane, tutti ora esperti di lievito madre, ora ingrassare per poi diventare salutisti e dimagrire a suon di pilates e kettlebell, plank e yoga, squat e addominali. Al centro della grande scena sgombra un modellino di un palazzo in miniatura, quasi casa di Barbie, che nell'inframezzarsi tra una storia e l'altra, centellinata, sospesa, stoppata e poi fatta ripartire come i giorni o le settimane reclusi e relegati a fornelli e Netflix, si accendeva, si illuminavano le finestre, aperture lucenti che significavano che la famiglia era in casa forzatamente, sprangata nell'attesa di buone notizie che non arrivavano, che non arrivavano, che non arrivavano “ed una radio per sentire che la guerra è finita”, continuando con il Claudio nazionale.

Il quarantenne con compagna, figlia e cane al seguito, insoddisfatto interiormente della propria condizione d'attore che ha perduto quella verve che lo aveva portato a voler stare sul palco, quel fuoco che lo pungeva (Umberto Terruso essenziale, fondamentale), la giovane sposa da sempre fidanzata con il proprio uomo e che si è sempre raccontata felice (Francesca Gemma tenace), il ragazzo schiacciato dalle aspettative familiari e dal successo degli altri componenti del suo nucleo di riferimento (Francesco Meola appassionato, intenso), la ragazza single che ha fatto la quarantena da sola tra piccole euforie momentanee e grandi disagi costanti (Martina De Santis lucida, melò), il quinto convinto single, geloso dei suoi spazi e della propria libertà che poi ha ceduto alla convivenza (Dario Merlini ironico). “Storie di tutti i giorni vecchi discorsi sempre a metà”. Il desiderio di impegnarsi in qualcosa di produttivo per non perdere tempo ma per mettere questa parentesi a frutto facendo o intraprendendo quello che avevi trascurato e messo da parte: corsi, riparazioni, letture, introspezione. Cinque attori e nessun lavoro in vista con la prospettiva di un post lockdown ancora peggiore con recessione, disoccupazione, preoccupazioni di carattere economico ed emotivo.

Uno stop forzato che ha messo un punto a ciò che eravamo e ci ha costretto a pensare, o ripensare, a chi eravamo, a che cosa cercavamo, se eravamo sulla strada o rotta giusta per raggiungere la nostra intima felicità, se quello che stavamo facendo ci stava facendo bene, se mollare o perseverare. Cinque storie, vere, reali, degli attori in scena, che erano, sono, le storie di tutti noi, nelle quali sentirsi rappresentati, fotografati, identificati tra ricordi e commozione, ripensando alle nostre fragilità, alle crepe scricchiolanti dentro le nostre vite superorganizzate, sempre con i minuti contati, le agende, gli appuntamenti, con la sensazione perenne di poter far tutto, andare ovunque, raggiungere chiunque, con quell'idea di mobilità nello spazio come nella crescita personale e nel raggiungimento degli obbiettivi. Ad un certo punto a tutta la carne al fuoco che avevamo messo a cuocere nelle nostre esistenze qualcuno ha spento la fiamma e ci siamo accorti che la carne non era così di prima qualità, che alcune parti erano e sarebbero rimaste crude, e che altre, al contrario, erano già bruciate, andate, corrose, consunte, avariate. E' che quando sei nel vortice, dentro al Sistema, non ti accorgi VIVERE-E-UN-ALTRA-COSA-OYES.jpgdei piccoli rumori degli ingranaggi, ti concentri sul grande movimento senza considerare le minuzie, i moti impercettibili, i gesti dimenticabili. La quarantena ci ha reso più umani? No, semmai, ci ha fatto fare un passo indietro e da un metro più lontano i contorni sono più nitidi e l'affresco si comprende meglio nel suo insieme. Abbiamo capito che siamo una serie infinita di domande più che di soluzioni a buon mercato che qualcuno tenta di spacciarci e venderci, che siamo dubbi e paure e non certezze e solidità, che siamo uomini e non superman, che si può cadere sconfitti.

A pezzi siamo dentro ogni storia, o lo siamo stati, un giorno ci siamo sentiti come quel padre o come quella sposa, come quel ragazzo oppresso dal successo dei propri consanguinei o come l'attrice sola o ancora come l'eterno scapolo; c'era da perdere la bussola, da travisare, da non connettere più in un mondo che parla solo e costantemente di connessione. Non saremo mai 5G dentro. Saremo sempre più vicino alla tartaruga che alla lepre. Siamo (stati) tanti fondi di caffè (come quelli gettati sul palco) usati e polverosi, metafora giusta e perfetta, con l'illusione di rimanere e stare svegli mentre ci addormentavamo stanchi e sfatti, affranti e afflitti, fondi compatti come dischi da hockey che al contatto con il terreno si sfaldano e si sfanno, si parcellizzano, si spezzano, si sfarinano disorientati senza una regola, impotenti tra il desiderio che tutto finisca presto e l'assuefazione a questo nuovo status, racchiuso nel grido sommerso “Non ho voglia che tutto riparta”.

Altra clausura forzata è il recinto che Saverio La Ruina delinea e traccia nella sua piece: una tenda da terremotati dopo una catastrofe naturale, piccole e strette mura di tela e stoffa con tutto il disagio fisico e psicologico dell'aver perso tutto, di un futuro nebuloso se non proprio nero, di speranze azzerate, di convivenze forzate. E' qui, in questa pseudo casa fredda senza ricordi né calore familiare che si ritrovano “Mario e Saleh”, due mondi, due culture, due età, due modi di pensare agli antipodi. Uno cristiano l'altro musulmano, uno anziano l'altro giovane, lo scontro è inevitabile. L'impatto sul teatro italiano di La Ruina in questi anni è stato importante per due motivi, nella scoperta di una lingua, il calabrese, poco o per niente usata, a differenza del napoletano o del siciliano ad esempio, sui palcoscenici, dandogli dignità d'essere e d'esistere scenicamente, e il portare a galla fenomeni e storie altrimenti sepolte, dimenticate e sotterrate, pensiamo alla condizione della donna in “Dissonorata”, agli italiani nati in Albania e non voluti né da una parte né dall'altra dell'Adriatico in “Italianesi”, gli aborti clandestini con ferri arrugginiti ne “La Borto”, l'essere omosessuale in un paesino giudicante del Sud in “Masculu e fiammina”, fino alla violenza domestica in “Polvere”.

Se però il regista, drammaturgo e attore di Castrovillari perde, o accantona, la propria lingua madre che regala immaginario e vigore, allora il discorso si normalizza perdendo quel pepe, quel pungolo, quelMarioeSaleh_fotoTommasoLePera-1.jpg piede di porco per scartavetrare, per far saltare il banco, per aprire il vaso di Pandora delle emozioni ancestrali e così legate al suo territorio d'origine. In qualche modo quelle parole “italianizzate” si depotenziano, non pungono più come attraverso quel dialetto che ferisce e brucia anche nella sua incomprensibilità che infligge una patina di mondi lessicali impossibili da tradurre ma soltanto compresi dal suono, dall'armonia rude, dall'assonanza musicale. Questa la prima riflessione sul linguaggio di “Mario e Saleh”, mentre la seconda si attiene, pur all'interno di una messinscena solida che sempre tiene il punto sia a livello registico che attoriale (l'altro interprete è il convincente Chadli Aloui), al lato più sociale o se vogliamo politico dell'idea che sta alla base del testo. Negli ultimi anni di infiniti sbarchi irregolari e di tensione sociale sempre crescente in un Paese in default, l'Italia, con una crisi galoppante e le periferie che esplodono, il teatro però sembra avere il paraocchi e disegna e identifica sempre i buoni negli immigrati, migranti o extracomunitari, mentre i cattivi sono gli italiani, forse compresi quelli che sono lì in platea ad ascoltare e applaudire. Lo straniero è, come in questo caso, sempre cordiale, gentile, premuroso, generoso, modesto, colto e acculturato, misurato e saggio, mentre noi siamo dipinti come maschilisti, stupidi, machisti, omofobi, sessisti, razzisti, ignoranti, analfabeti. Siamo sempre disposti a concedere il beneficio del dubbio e un'altra possibilità allo straniero ma con l'italiano, con l'occidentale caucasico siamo implacabili, inflessibili, rigidissimi. Forse, per senso di colpa, vogliamo colpire noi stessi, per senso di inadeguatezza vogliamo infliggere all'altro nostro simile quello che non riusciamo a digerire del nostro stare al mondo, pur condividendolo e abitandolo.

Anche in questo MarioeSaleh_fotoTommasoLePera-3.jpgcaso il buono e il cattivo sappiamo subito da che parte stanno, però siamo sempre ben predisposti d'animo con chi arriva, senza i documenti in regola quindi contro le leggi del nostro Stato, non solo da un altro Paese ma addirittura da un altro continente, che ascoltare le istanze di un nostro concittadino che paga le tasse da generazioni. Prima gli italiani ci fa schifo ma prima gli stranieri è assolutamente legittimo. E' il razzismo al contrario con gli stessi preconcetti e prevaricazioni e pregiudizi che vogliamo combattere e condannare in quello ordinario. La tesi anche in questo caso, però, è subito lampante e predefinita e preordinata: il ragazzo nordafricano ce la mette tutta per essere accolto mentre Mario è aggressivo e maleducato, offensivo e predominante, minaccioso e autoritario. Povero Saleh, acriticamente, a priori, per partito preso, e giù diamo addosso a Mario, crocifiggiamolo, anzi sostituiamo tutti i Mario volgari con tanti Saleh così dolci e docili e carini. Il teatro spesso non vede la realtà ma la riporta come vorrebbe che fosse. Anche da questo si nota che lo scontro sociale interno al Paese, spaccato in due (non si parla di bipolarismo), diviso su ogni scelta, dove vince sempre l'ideologia e la strumentalizzazione. Il problema non è essere nazionalisti o sovranisti o addirittura patriottici, tutti termini identificati come negativi. Sarebbe bello che l'immigrato ci portasse saggezza e lavoro, purtroppo sono uomini e donne anche loro, per giunta spesso senza istruzione e con la fame (pochi invece scappano da zone di guerra) che attanaglia la bocca dello stomaco, e quando hai fame, in un Paese come l'Italia dove di lavoro ce n'è poco, è facile cadere nell'illegalità e nella microcriminalità. Se dell'immigrato fai un santino e dell'italiano un carceriere illetterato e scimmiesco, il quadro stona, la realtà viene deformata, l'analisi s'inceppa.

Tommaso Chimenti 

 

MILANO – Per gli amanti del teatro Milano è il Paradiso; dove ti giri rimbalzano cartelloni colorati con date e nomi, titoli e registi. Impossibile non essere bulimico, impossibile poterli vedere tutti anche facendo i salti mortali e gli incastri da tetris. Se Milano è il Bengodi, è il Paese dei Balocchi per chi si ciba di pane e palco, l'Elfo è una delle sue massime espressioni. Qui, in qualsiasi periodo dell'anno, ti puoi affacciare nel suo foyer, sempre affollato, e scegliere tra le tre sale o farti anche delle piccole maratone giornaliere entrando e uscendo da differenti visioni: qualunque cosa si scelga, si cade bene, la qualità è garantita. E così abbiamo fatto, siamo entrati ed uscite prima ci siamo tuffati tra registri di classe e cattedre con “La lingua langue” e successivamente ci siamo buttati tra la terra rossa e le palline gialle di “Open”.lalingualangue-phLailaPozzo-690x460.jpg

Partiamo dal testo di Francesco Frongia con in scena il vulcanico ed eclettico, pirotecnico e sulfureo Nicola Stravalaci, un vero portento di dialettica, una mitragliatrice micidiale, arguto professore adesso generale alla “Full Metal Jacket” adesso maestra di danza di “Fame” tra ingiurie e sproloqui per vivacizzare la sua platea (i suoi alunni) di asini pinocchieschi. Una vera e propria interrogazione interattiva e partecipata (e molto impaurita: i traumi scolastici non ci abbandonano mai). Niente a che vedere con “La Classe morta” di Kantor. La sua, soprattutto il pungente ed intelligente testo di Frongia, ci porta nella deriva dei nostri tempi, nel declino iniziato con gli sms e concluso miserabilmente con whatsapp. Non sappiamo più scrivere ma qual che è peggio è che gli errori più madornali non sono più visti e percepiti come tali perché “tanto basta capirsi” e se non hai messo l'acca oppure hai scritto “qual è” con l'apostrofo non è importante. Se pensiamo male, scriviamo male e soprattutto viviamo male, diceva Nanni Moretti.Ntfi_13062019_Open_lamiastoria_foto_di_SalvatorePastore_L0A5340.jpg Oggi pare un'offesa, soprattutto tra i ragazzi, coniugare decentemente un verbo intransitivo o usare correttamente un condizionale o addirittura una consecutio temporum; sei visto come un sobillatore, un collaborazionista. E poi gli inglesismi a storpiare la nostra bella lingua secolare sostituendola con termini più efficaci certamente ma freddi e senza linfa. Nei suoi stivali da cavallerizzo, con il suo scudiscio segnala errori, con la sua grande matita appuntita (minaccia di farne un clistere per gli asini), Stravalaci è colorato e virtuoso, è il poliziotto cattivo, il professore arcigno fissato con i participi passati, l'uso degli articoli, un po' scienziato un po' Superquark. E poi ancora l'uso delle virgole o l'abuso dei punti esclamativi, o quello improprio dei superlativi, le doppie zeta. In video appare l'onorevole Razzi e abbinare il suo cognome a quell'aggettivo, lo so, fa accapponare la pelle. Come contraltare ecco Modugno e Pasolini. L'italiano è in continuo movimento e mutazione, non uccidiamolo prima del tempo, non gli pratichiamo l'eutanasia, non diamogli il colpo di grazia: la lingua langue dove il congiuntivo duole.

Proprio nei giorni nei quali il diciottenne Sinner, cognome altoatesino ma italiano, vinceva proprio a Milano il Next Gen, il torneo più importante a livello mondiale per le future generazioni di campioni con la racchetta, sempre all'Elfo andava in scena la vita del campione Andrè Agassi riassunta nella bellissima autobiografia “Open”. Testo meraviglioso, scritto da un Premio Pulitzer che ha affiancato il tennista, nel quale, più del tennis, emergono le dinamiche familiari soprattutto con il padre immigrato iraniano e portiere in un albergo a Las Vegas innamorato pazzo di set ed ace tanto da forgiare in prima persona con allenamenti massacranti fin dalla tenerissima età i suoi figli per dargli un futuro migliore, più ricco e più agiato di quello che aveva potuto garantire lui. La storia è emozionante, commovente, toccante, Ntfi_13062019_Open_lamiastoria_foto_di_SalvatorePastore_L0A5399.jpgla resa della compagnia Invisibile Kollettivo ha avuto alti e bassi. Intanto il muoversi sulla scena con il libro in mano allontanava la platea e non permetteva di lasciarsi andare pienamente al flusso delle vicende. In seconda battuta, la bella trovata di mettere al posto del volto dei cinque attori in scena un cartone con la faccia del tennista americano all'inizio è sembrava un escamotage azzeccato, quando però lo stesso effetto si è ripetuto per tutto l'arco della performance allora è sopraggiunta l'assuefazione e una certa stanchezza nei confronti del mezzo scenico. Passiamo ai costumi: se mi racconti la vita di un tennista puoi anche indossare abiti quotidiani, se invece nel mezzo del racconto vuoi cimentarti in battute da fondo campo, in top spin o discese a rete o serve and volley allora forse i tacchi non sono la cosa più indicata. Così come i movimenti: se hai l'ardire di mimare i gesti di un campione di net e lungo linea, di rovesci a due mani e smash forse quei movimenti devi saperli riprodurre invece di saltare come se dovessi schiacciare a pallavolo o danzare a corpo libero come libellule. Infine il telo centrale, quel velo spiegazzato che, se da una parte ha risolto scenicamente molte situazioni, dall'altra è stato abusato ed il sapore finale che ne è scaturito è stato leggermente amatoriale: il velatino per le proiezioni delle partite, il velo per le ombre, per i sogni contorti e gli incubi, il telo sempre troppo azionato, invasivo. Belle le scelte musicali da “Purple rain” di Prince, “My way” e “That's life” di The Voice. Sottotono rispetto alla materia incandescente che avevano tra le mani.

Al Franco Parenti invece vanno in scena gli Oyes con il loro nuovo "Schianto". Stefano Cordella sa scrivere per il teatro, la sua scrittura è un machete nella foresta, creando questi mondi paralleli, visionari, altri, debordanti, infarciti da dialoghi serrati, crudi di slang, sanguinosi di borgata che colano rabbia, cinismo, quell'acido gelo che nasconde la voglia di una carezza. Potremmo paragonare le sue drammaturgie, per lucidità e sprint, assonanze e slanci, a Carrozzeria SCHIANTO_Compagnia-Oyes.jpgOrfeo o a Bruno Fornasari dei Filodrammatici milanesi. Parliamo a ragion veduta dopo aver visto, nel tempo, “Vania” e “Io non sono un gabbiano”. Su “Schianto” (che vedemmo in fase di studio due estati fa a “Inequilibrio” a Castiglioncello) il quadro leggermente s'incrina, il vetro (come quello che riempie la scena e il fondale, pare un castello di ghiaccio come questi cuori resi duri e glaciali dal corso delle loro esistenze di solitudini) si frammenta e si crepa. Da una parte respira un'idea forte, dall'altra si ha la sensazione di aggiunte, di una eccedenza di particolari e storie che s'intersecano; se alcune parti sono troppo colme di elementi, altre avrebbero avuto bisogno di una maggiore analisi. Il gruppo degli Oyes (sempre intensi e in parte Dario Merlini, Francesca Gemma, Umberto Terruso e Fabio Zulli) comunque, dal punto di vista attoriale, regge l'urto ed ha la garra necessaria ad affrontare con grinta e tenacia questi testi dirompenti che fioriscono sul conflitto. Sta tutto nel titolo: “Schianto” appunto: un uomo solo per scelta e cinico manager ha appena saputo di avere un tumore sale su un taxi con un autista logorroico ignorante, sessista e razzista che sta per avere un figlio. schianto-cover-768x432.jpgLa frizione tra i due è naturale e logica e l'incidente con una figura mitologica e ibrida come uno strano essere che potrebbe somigliare ad un canguro (i rimandi a Lynch o Cronenberg si palesano). Forse sono già morti nel botto e si trovano in una sorta di limbo delle anime. Fin qui tutto scorre sul filo delicato di una poetica che taglia e di un'agguerrita dialettica aspra che cozzano creando una bolla di sospeso, irriverente e sorprendente che spiazza e affascina. Poi però, e qui sta l'assommarsi, l'accatastarsi di personaggi ed eventi, arriva un ragazzo travestito da Robin, che vuole salvare il mondo anche senza Batman, e una cantante mistress in latex disinibita e uno strano squallido bar nel bel mezzo del niente. Se prima ci poteva essere un equilibrio tra il credibile e l'incredibile, tra il plausibile e l'onirico, adesso, dopo le aggiunte, si ha la sensazione che la barra del discorso si sia un po' perduta alla ricerca del colpo ad effetto, della stravaganza allucinata, del tocco spiazzante che susciti un altro, ennesimo wow. E' quando la cantante prende la parola dal palco del locale che qualcosa si spezza e s'infrange e il patto tra platea e scena s'inceppa rendendo la visione non incredibile ma poco credibile, al netto della nostra mai richiesta di realismo e naturalismo.

Tommaso Chimenti 15/11/2019

CASTIGLIONCELLO – Sul prato, guardando gli scogli dove fecero il bagno Sordi, Mastroianni e Fellini (non credo contemporaneamente) c'è una statua di un uomo accovacciato. Sotto si apre il golfo azzurro, in lontananza la Corsica, le grandi navi che solcano l'orizzonte smerciando nafta. Quest'uomo, appollaiato su se stesso, ad una prima occhiata sembra che legga. Da più vicino pare che stia sfogliando il suo tablet. Ma se gli giri dietro capisci che invece dipinge. Ecco Inequilibrio, il festival che tocca le ventuno candeline diretto da Angela Fumarola e Fabio Masi, non è mai ciò che ti aspetti castiglioncello2che sia, è ciò che è ma anche quello che dovrebbe essere, ha più sfaccettature, sfumature, punti di vista, angolazioni possibili, interpretazioni. Sempre nel solco della sua storia, sempre un po' diverso, spostando soglia e asticella in quel continuum di qualità e ricerca, di coerenza e passione, di rigore senza presunzione, con un occhio al passato e il cannocchiale posto sul futuro. Già la locandina (di Guido Bartoli) mostra un angelo, un bell'angelo femmina, con ali posticce da acrobata, le mani attorno ai fianchi larghi, la schiena nuda, le piume che svolazzano, le fasciature alle ferite di qualche caduta precedente, senza che questi piccoli traumi l'abbiano fermata, stoppata, bloccata. Immagine migliore non ci poteva essere per fotografare il Castello Pasquini e il drago che lo protegge. Spettacoli piccoli per pubblici intimi, sale affrescate, gomito a gomito, coscia a coscia, stretti nell'abbraccio delle parole. Quattro belle scoperte, quattro pepite lucenti, quattro bagliori a scaldare l'estate.

castiglioncello3Ormai una conferma gli Oyes dopo le loro personali rivisitazioni e reinterpretazioni di Vanja e del Gabbiano eccoli in questo “Schianto”, frutto della residenza proprio a Castiglioncello, che parte, nell'intento del regista Stefano Cordella, dal Koltes della “Solitudine dei campi di cotone”. L'altalena è la dicotomia tra desiderio e fallimento, tra ciò che si vorrebbe avere e invece la cruda realtà che ci mostra la sostanza, e le conseguenze dei nostri errori. Si sente il cigolio del benpensantismo di Bernhard, il catastrofismo di Durrenmatt ma spunta anche il cinema con Taxi Driver o Collateral con Tom Cruise in un'atmosfera prettamente lynchana con sfoghi alla Trainspotting. La scrittura potrebbe ricordare gli ultimi Carrozzeria Orfeo. Il fondale è un grande vetro infranto, l'incidente e le vite dei protagonisti che stanno andando verso l'inevitabile crash. Due uomini si incontrano: uno è il cliente mansueto (Dario Merlini, ricorda l'interprete folle di “Una notte da leoni”), l'altro il tassista (Umberto Terruso convincente, deciso) logorroico, straripante, sovreccitato. Hanno vite da farsi perdonare, colpe da scontare e nessuno a cui raccontarle. Ma la notte è giovane e porta consigli (di solito cattivi) nelle vesti di un canguro investito che li scruta e li giudica con lo sguardo e con il silenzio, una ragazza/demone (Francesca Gemma, gran voce) che cerca di riempire i propri vuoti esistenziali con rapporti occasionali, un ragazzo vestito da Robin (Fabio Zulli, dolcezza e ribellione in stile “V per vendetta”). E, come dice Cremonini, “Nessuno vuole essere Robin”. Sembra un incubo, una serata maledetta dove la solitudine è la sola a farti compagnia, dove tutto va come non deve andare, dove tutti cercano una rivoluzione, un cambiamento epocale, quello shock, quello schianto che azzeri tutto.castglioncello5

Stessa aria di crepitio, di quella placidità che potrebbe incrinarsi da un momento all'altro, si allarga come macchia d'olio ne “I giardini di Kensington” che ci portano a Peter Pan ma anche alla citata nel finale Patty Pravo. I due amanti sulla scena (Elisa Pol e Valerio Sirna in sintonia tra teatro e danza) regalano l'inquietudine della fissità, dell'irremovibilità, della fermezza, con quelle mosse tenui e statiche che pare di essere dentro un quadro di Hopper. Quella calma, quella quiete stantia di questo claustrofobico appartamento nasconde una pentola a pressione. L'aria thrilling è sempre pronta ad esplodere. Non dialogano, fanno due monologhi, si parlano ma non si rispondono, non si comprendono, non ne hanno nessuna intenzione in questa armonia artefatta che mette agitazione e brividi.

castiglioncelloTre ragazzi si presentano in mutande. Ci vogliono parlare di “Intimità”. Avevamo già visto gli Amor Vacui in occasione del loro precedente “Domani mi alzo presto”, testo generazionale che, partendo dalle incertezze universitarie sul futuro e sull'esistenza, tra ricerca del lavoro e sogni, tra ironia e facezie semiserie, metteva a nudo i ragazzi di oggi tra colpe dei genitori ed alibi autoalimentati. Questo “Intimità” non si discosta molto da quella traccia: si ride, certo, perché ci tocca o ci ha toccato tutti; l'amore, il sesso, la prima volta, gli imbarazzi. Pare ed appare ad una prima occhiata leggero, semplice, semplicistico ma il modo frontale con cui interagiscono, giocando, con il pubblico, e il discorso che vira sulla crescita, sulla disillusione del diventare “grandi”, sulla perdita dell'innocenza, nel complesso lo rendono non così debole. Potrebbe essere una commedia all'italiana con il belloccio, lo sfigato e la ragazza a scompaginare le carte. Potrebbe essere “Undressed”, la serie tv-quiz con due sconosciuti in intimo si raccontano e si conoscono. I trentenni e il loro disagio: “Giovani, carini e disoccupati” ce ne aveva già parlato anni fa. Aspettiamo il salto di qualità, li attendiamo con qualcosa di più aperto all'oggi.castglioncello7

I testi di Rita Frongia dovrebbero girare maggiormente per i teatri. Tutti dovrebbero avere l'occasione di rimanere sospesi in questi suoi mondi visionari e fragili, fatti di piccole cose, di non sense, di attese beckettiane, di scambi velocissimi e furiosi, di personaggi pennellati e dolci, di questi gesti reiterati e rafforzativi che costruiscono brevi coreografie di mani, di tic, di manie e nevrosi. Universi paralleli microscopici, interni bui, vite al limite, ai margini ma senza lamentevolezze (dentro si scovano i chiaroscuri di “Dogman” di Matteo Garrone), grandi dolori appena accennati, solitudini da far combaciare, gramelot carichi di fantasia. Da qualche parte spunta Eduardo. Due sconosciuti ad un tavolino (delizioso l'incastro tra Francesco Pennacchia e Gianluca Stetur, ruvidi e vividi, cinici, crudi e adorabili, cagionevoli, delicati, puri) e tanta solitudine da mettere sul piatto avaro della vita, quella del titolo, “La vita ha un dente d'oro”, quelle esistenze che mozzicano come cani ma poi vengono bastonati negli angoli. Un testo fatto di silenzi ed enorme poesia (“Non ho mai guardato la nuca di mia madre”), invocano un cane immaginario, un fagiano immaginario, tutto sul filo di un equilibrio instabile, corrosivo, liscio a perdifiato: “Le cose diventano piccole, ma non c'è da avere paura, è la notte”. Ecco, alla paura, i nostri due rispondono con questa parentesi, con questo bisbiglio che riluce nel loro buco nero, senza farsi sopraffare, senza farsi abbattere, perché la vita, anche se ha un dente ingiallito e prezioso, non è il buio ma quanta luce hai negli occhi.

Tommaso Chimenti 02/07/2018

FIRENZE – Facciamo un ripasso, un riepilogo. Che è sempre importante capire dove siamo per poi tracciare una linea sul futuro. Che cosa abbiamo visto, a teatro, in questo 2016 che va a concludersi che ci ha fatto sobbalzare dalla poltrona vellutata, che ci ha fatto rimanere incollati con gli occhi fissi sul palco, che ci ha fatto esclamare o respirare o applaudire come forsennati alla fine in un moto non di liberazione ma di gratitudine infinita per il tempo e l'arte che gli interpreti ci avevano regalato. L'elenco è, come deve essere, personale e parziale. Nessuna classifica. Questi sono i “miei” spettacoli di quest'anno che, al mondo del teatro, ha portato via principalmente Giorgio Albertazzi, Paolo Poli, Anna Marchesini e Dario Fo. Quelli in cui ho goduto e riso e mi sono commosso e ho detto alleluja.ChimentiCamera701
Cominciamo random, senza una scaletta cronologica. Accanto ad ogni spettacolo citato sarà presente il luogo, lo spazio, il teatro dove ho visto la piece. Li abbiamo visti in piccole rassegne o in giganteschi festival internazionali, la maggior parte in Italia, a Milano, Modena, Genova, Firenze, Messina, alcuni all'estero. Ecco la mia pattuglia, la mia ciurma, il mio esercito.

Non si può definire spettacolo muto “Murmel, murmel” (foto di copertina) dei tedeschi della Volksbuhne (Festival Gift, Tbilisi) perché dalle loro bocche esce ossessivamente un'unica parola, appunto quella che nel titolo appare due volte. Un grande incastro di paraventi, con precisione millimetrica, che scendono dall'alto o si chiudono dai lati, che danno l'effetto dello zoom di una macchina fotografica, portandoci, grazie ai costumi e alle musiche, nei favolosi anni '60 quando, per i protagonisti, oggi forse anziani, tutto era ancora possibile.
ChimentiGeppettoA che punto di svolta sia la drammaturgia dei Paesi dell'Est ce lo comunica, con piacere, “Camera 701” dell'autrice rumena Elise Wilk e visto per la regia di Ciro Masella (Intercity, Teatro della Limonaia, Sesto Fiorentino); il pubblico diventa voyeur spiando e sbirciando dentro questa room d'albergo dove si avvicendano persone, vite, futuri, perplessità, messe in gioco e in discussione. Come affrontare lo scottante tema dell'omogenitorialità che tanto recentemente ha fatto discutere ce lo spiega Tindaro Granata con il suo nuovo “Geppetto & Geppetto” (“Primavera dei Teatri”, Castrovillari), altra sua prova di maturità di scrittura, tutto giocato tra profondità di temi, senza dare niente per scontato né voler impartire nessuna verità o lezione, ma anche con ironia e leggerezza, che non guasta mai per far passare temi complessi.Chimentisanghenapule

Riuscire a trovare l'alternanza ideale e la sponda ad un campione della narrazione come Roberto Saviano non era facile ma in “Sanghenapule” (Piccolo Teatro, Milano) Mimmo Borrelli fa da contraltare perfetto con questa sua cifra classica che sempre si rinnova di sudore, corpo e parole che vengono da lontano, dal profondo, dal vulcano, dalle viscere per spiegare l'inspiegabilità di Napoli.
Da lontano arrivano anche le parole centenarie del “Minimacbeth” (Teatro di Buti, Pisa), la tragedia shakespeariana ma contratta, non accorciata né ridotta, ma ristretta come un caffè nerissimo e per questo ancora più potente. Marconcini e la ChimentiminimacbethDaddi, con la loro età, sulle spalle sono riusciti a dare ancora più umanità ai due regnanti usurpatori e più sostanza ai fantasmi che gli girano intorno.

C'è un qualcosa in più del teatrale, del metateatrale nel “Golem” (Teatro Vittorio Emanuele, Messina) della compagnia ingleseChimentiGolem 1927 dove convivono in un senso d'armonia, difficilmente trovata altrove, la musica dal vivo, le scene, i video, i filmati, come essere catapultati dentro un grande videogioco ed essere imbrigliati, come accade nella realtà con la grande illusione-paravento della libertà di scelta, nelle regole imposte da qualcun altro. Siamo noi i protagonisti passivi e rassegnati che si affidano al Golem per la risoluzione dei loro problemi, non capendo che delegare i propri diritti non ci rende più liberi ma più schiavi.
ChimentigiocatoriIn un interno napoletano, ma potremmo essere dovunque, quattro uomini (su tutti Enrico Ianniello e Tony Laudadio) attorno ad un tavolo, quattro “Giocatori” (Teatro Niccolini, Firenze) mettono sul piatto frustrazioni e fallimenti, scollamenti tra quello che avrebbero voluto essere e quello che sono diventati. Si sono giocati la vita e ora tentano l'ultimo colpo, gabbare la sorte, l'ultimo colpo di coda, meravigliosamente malinconico.ChimentiVania

Altra periferia, prima geografica e metropolitana poi dell'anima, per la trasposizione da Cechov all'hinterland milanese del “Vania” degli Oyes (Spazio Tertulliano, Milano) , una delle novità più illuminate dell'anno, un gruppo da tener d'occhio. Un impianto cupo, marginale dove l'insoddisfazione e la non realizzazione la fanno da padrona, con una cappa di melassa amara che tutto copre e avvolge, imprigionandoci.

ChimentiSantaEstasiIl progetto più complesso e articolato dell'anno è stato certamente “Santa Estasi” (Teatro delle Passioni, Modena) coordinato da Antonio Latella fresco neo direttore della Biennale Teatro di Venezia. Otto spettacoli (da vedere assolutamente in lunghissima maratona consecutivamente) di otto giovani drammaturghi, una ventina di attori under 30, alcuni veramente straordinari, per un impianto contemporaneo dal sapore antico, una grande maestria registica applicata al mestiere dell'attore in un connubio, in una miscela, in un tutto, finalmente, compiuto, essenziale, necessario.ChimentiOrfeo
Altro grande e impegnativo progetto è stato l'“Orfeo Rave” (Fiera, Genova) del Teatro della Tosse, che ha rappresentato una sorta di sollevazione e orgoglio genovese. Dieci repliche per cinquecento persone a sera, in uno spettacolo itinerante con oltre dieci location e spazi utilizzati all'interno dell'allora appena chiusa Fiera del Mare. Un viaggio tra i budelli della città, del Mito, di noi stessi, e una voce meravigliosa, quella di Michela Lucenti, da sentire, risentire e sentire ancora.

ChimentiScuolaNon può mancare uno spettacolo corale, e che, a prima vista, poteva sembrare sorpassato dagli eventi, triturato dall'acqua passata sotto i ponti in questi venti anni dalla sua prima uscita. E invece regge, e ancora molto bene, “La scuola” (Teatro Era, Pontedera), Silvio Orlando su tutti ma non solo, dove l'equilibrio tra un'ironia spassosa, e a volte irrefrenabile, e sentimenti e profondità e lezioni di cultura civile, è il nodo sottile che lega ogni scena in una calda atmosfera di vicinanza e umanità, di scontri e passioni, come sono quelle di vivere, di insegnare e di confrontarsi.ChimentiStraniero
Utile come non mai oggi rileggersi Camus, passando per i Cure. Ecco “Lo straniero” (Teatro Niccolini, Firenze) in forma di monologo con un gigantesco e strepitoso Fabrizio Gifuni che dà voce e corpo, fermo, impassibile, senza emozioni né reazioni al “nostro” antieroe con un'empatia, una sostanza, un'elettricità statica che tutto pervade e corrobora e frigge intorno.

ChimentiTennisUltime due segnalazioni per due piccoli, ma grandissimi, spettacoli: “Le regole del giuoco del tennis” (Teatro delle Spiagge, Firenze) nel quale Mario Gelardi del Teatro Sanità di Napoli ha saputo applicare allo sport, in questo caso a quello di racchette, palline e net, l'amicizia ma anche le convenzioni sociali legate sia alla sessualità che all'accettazione prima di sé e dopo da parte della società: messaggio semplice e potente.
Quante volte ci siamo ritrovati a pensare, la testa tra le mani oppure guardando un punto indefinito, lontano, nel nulla. Quante volte abbiamo letto Paperino che faceva ruminare i suoi pochi neuroni con il fumetto pannosoChimentiMumble sulla testa che diceva, silenziosamente, e mugugnava il suo “Mumble, mumble” (Teatro del Sale, Firenze). Le riflessioni di una vita, il mettersi a nudo e raccontarsi non è mai cosa da poco. Emanuele Salce si apre, con il suo fare sornione e sensibile, e ci porta dentro il suo rapporto con il padre naturale, il regista Luciano Salce, e il padre che lo aveva adottato, Vittorio Gassman. Nomi che mettono i brividi e che, in qualche modo, hanno “schiacciato” prima il bambino e poi il ragazzo divenuto attore per caso ma non per sbaglio. Perché dal palco alla platea riesce a far passare, con leggerezza e sobrietà e autoironia, tristezza e nostalgia, distacco e disincanto, ma anche bisogno d'affetto infinito. Mumble è più pensiero che ripensamento, è un momento necessario per andare avanti e voltare pagina, per vedere chiaramente il passato e potersi, liberandosi, immaginare il futuro. Come solo il teatro sa e può fare.

Tommaso Chimenti 23/12/2016

Nelle foto gli spettacoli nell'ordine in cui sono stati menzionati

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