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Sotto lo sguardo impassibile di una luna nera e lucida, poi di un pallore spettrale e rosso sangue, si svolge la vicenda della principessa Salomè, figlia della Erodiade che ha sposato in seconde nozze Erode, tetrarca di Giudea e fratello del suo defunto marito. Il testo raramente messo in scena di Oscar Wilde, composto nel 1891 a Parigi e lì rappresentato per la prima volta nel 1896, giunge al Teatro Mercadante e ne apre la stagione 2018/19 dopo il successo estivo durante la rassegna Pompeii Theatrum Mundi. La bella scenografia pensata da Marta Crisolini Malatesta lascia dunque gli spazi aperti del Teatro grande di Pompei e si adatta a quelli del Teatro Mercadante, che esaltano allo stesso modo la sensualità e la complessità di un’opera un tempo considerata scabrosa: la sua rappresentazione a Londra avvenne solo nel 1931, dopo che vi si era abbattuta la scure censoria dell’epoca vittoriana che durò ben oltre la fine della sua regina. Salomè 1


La storia di Salomè si svolge in Giudea, dove il profeta Iokanaan – il Giovanni Battista della tradizione cristiana – è stato rinchiuso da Erode, inorridito dalle sue profezie sull’avvento del Messia e dalle sue condanne dei costumi dei monarchi. La principessa incuriosita dal comportamento del profeta chiede alle guardie di liberarlo per potergli parlare. Uscito dalla cisterna, Iokanaan proferisce parole di sdegno verso Erodiade, ma Salomè se ne innamora perdutamente: «Bacerò la tua bocca, Iokanaan» sussurra la principessa, bella come «un fiore lunare». Il profeta, però, la allontana inorridito e viene rinchiuso nuovamente. Quando Erode, che blandisce Salomè con le sue profferte nonostante sia suo patrigno, le chiede di danzare per lui in cambio di qualsiasi cosa desideri, Salomè accetta e dopo aver danzato chiede in cambio la testa di Iokanaan. Topazi, zaffiri, smeraldi, opali, nulla di ciò che Erode offre alla principessa al posto della vita del profeta può distogliere la glaciale Salomè dal suo intento: «Voglio la sua testa» continua a ripetere in un mantra ossessivo al tetrarca, che giunge a proporle in dono metà del suo regno. L’eccellente interpretazione di Eros Pagni, un tragicomico Erode, e di Gaia Aprea, algida e convincente Salomè, così come quella di Giacinto Palmarini – che seminudo e con lunghi capelli sulle spalle ricorda le icone cristologiche – esaltano l’intreccio di amore, passione e morte che caratterizza il testo di Wilde. Salomè 2


Luca De Fusco, ben consapevole della miscela insolita di drammatico, ironico, erotico e grottesco dell’opera, afferma di apprezzarla proprio per il suo carattere «spurio», elemento che da tempo predilige in teatro. Risulta dunque premiata la sua scelta insolita e coraggiosa di mettere in scena un testo così poco frequentato sulle scene: l’atto unico, che si risolve in poco più di un’ora e mezza, funziona grazie alla bravura dell’intero cast, ai costumi sontuosi e al mix di musiche – quelle originali di Ran Bagno – di danza e cinema. Resta il mistero riguardo la natura enigmatica e sfuggente della protagonista, che nonostante il suo amore per il profeta – «sei stato l’unico uomo che abbia mai amato» sussurra quando infine riesce a baciare la sua testa – ne chiede con insistenza maniacale la morte per decapitazione. De Fusco risolve il finale basandosi sulle teorie dell’antropologo René Girard, che parla di desiderio mimetico: Salomè ama talmente Iokanaan da volersi trasformare in lui stesso. E così, quando finalmente la principessa ne ottiene la testa e la bacia, bacia la sua stessa faccia, lunare, pallida e impreziosita da pietre.

Pasquale Pota 29-10-2018

Al Teatro Vittoria di Roma va in scena “La Divina Sarah”, un omaggio alla celebre Sarah Bernhardt diretto da Marco Carniti a partire dal testo “Memoir” di John Murrel. Sul palco Anna Bonaiuto nel ruolo della protagonista e il rosa antico, colore della memoria. Come ne “I preludi colorati”, piccole composizioni per giovani pianisti firmate Remo Vinciguerra, il ricordo della grande attrice prende la forma labile della musica. Il suono della voce risalta nel silenzio mentre un pianeta illumina la scena e la tinge di colori tenui che rimandano all’infanzia, alla giovinezza, alle emozioni più intime, agli odori più antichi e personali. AnnaBonaiutoeGianluigiFogacci2

È la seduta psicanalitica in cui ognuno, alla resa dei conti, assume il duplice ruolo di paziente e dottore. Al crepuscolo della vita, Sarah Bernhardt come Re Lear guarda in faccia il vuoto avvenire e si lascia alle spalle un mare in tempesta; riflette sul senso della vecchiaia e su tutta sé stessa. È un momento in cui si concede tempo e spazio a quella segreta introspezione che nella frenesia vitale non trova una propria dimensione che la salvaguardi dall’essere eterea. L’andamento narrativo prosegue attraverso un progressivo riordino. La scenografia di Francesco Scandale è funzionale alla drammaturgia. Nel primo atto una linea immaginaria divide lo spazio scenico tra ordine e disordine: la parte sinistra rappresenta l’esteriorità di Sarah, una donna anziana ma elegante, autoritaria, decisa; a destra la memoria trova dimora e deriva attraverso i simboli del grammofono e di faldoni di carte disordinate. Anche le logge sullo sfondo, se a sinistra sono ben allineate, a destra sono posizionate asimmetricamente. La Bonaiuto è supportata da un eclettico Gianluigi Fogacci, non solo maggiordomo ma personalità camaleontica che, tra risata e serietà, assume il colore di ogni personaggio che la mente di Sarah rievoca: la madre, l’amante, il produttore, l’amico. È un trasformista al servizio dei ricordi. “La Divina Sarah” esalta l’importanza della memoria sia per la storia comunitaria che per l’emozione personale. Diari e biografie sono fonti preziose per studiare e conoscere nel profondo i grandi personaggi della storia dello spettacolo, per conferire loro uno spessore al di là del volto esteriore che giornalmente costruiscono allo specchio. Tra vita e palcoscenico, il retropalco delle dive è amaro e miseramente umano: «Quel capriccio inappagato le guastava il trionfo della sera prima. Possibile che, tra tutti gli uomini che l’avevano acclamata, non ce ne fosse uno che le portasse quindici luigi? Poi non si potevano accettare dei soldi così. Mio Dio! com’era sfortunata!». È quel che accade anche alla giovane Nanà di Émile Zola, in teatro dea, fuori da esso prostituta, povera, infelice. Carniti sceglie di raccontare La Divina Sarah non attraverso i successi ma esplorando l’umanità, il temperamento e l’anima del personaggio.

L’attrice tende lo sguardo verso il viale del tramonto ma insegna che il sole non scompare, se non dal nostro punto di vista. E la luna, nella notte della vita, può apparire più luminosa del sole, amichevole, rivale, ospite: conviene farsi belle e prepararsi ad accoglierla. Dopo aver giocato con la morte dormendo in una bara, dopo essere deceduta così spesso in scena e con tale successo, la vecchia stella contempla la fine e condivide la propria malinconia con un rassicurante Oscar Wilde seduto in riva al mare. L’epilogo vede Sarah allontanarsi verso l’orizzonte con il sorriso di chi sente di avere sempre quindici anni e con le parole di Wilde che riecheggiano lontano: «tu non morirai mai».

Benedetta Colasanti 09/04/2018

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