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NAPOLI – Non poteva essere altrimenti. Non poteva che andare così. Proprio nel giorno dei funerali di Silvio Berlusconi, Napoli rende il suo omaggio, del tutto involontario e inconsapevole, all'uomo di Arcore così innamorato di Napoli e della canzone napoletana. Due spettacoli diversissimi e lontani che però sono stati lapalissianamente un rimando alla contingenza dell'attualità: se nel “Circus Don Chiosciotte” di Antonio Latella in platea erano posizionati una ventina di televisori analogici con davanti varie poltrone, nel secondo, “Napoleone. La morte di Dio” di Davide Sacco, si parla della “morte di un dio, di un Imperatore” ed è forse impossibile oggi, in Italia, non pensare alla figura del fondatore di Mediaset. Due pièce che potrebbero apparire imbevute di berlusconismo latente e inconscio, intrise di quest'atmosfera da fine Impero, di opulenza e oblio di un Regno che perde i pezzi. header_mobCTF23.jpgIl titolo di questa edizione del “Campania Teatro Festival” è “Battiti per la bellezza”, che potrebbe essere letto come i battiti del cuore o come coniugazione del verbo battere, battersi meglio, lottare. Programma leggermente ridotto rispetto alle versioni monstrate fino allo scorso anno, budget lievemente compresso per un mese di programmazione senza toccare più Capodimonte ma andando nei tanti teatri cittadini, dal Politeama al Mercadante, dalla Sala Assoli al Teatro Nuovo, dal Trianon Viviani al TAN Teatro Area Nord e il Museo Madre fino a Villa Floridiana.

Nel “Don Chisciotte” (prod. Teatro di Napoli, CTF) per la regia di Antonio Latella due uomini, due facce della stessa medaglia, abbigliati in maniera uguale speculare, si muovono in una platea vuota da poltroncine che diventa palco dove stazionano appunto i citati televisori, diversi uno dall'altro, posizionati davanti a sedie o poltrone anch'esse differenti una dall'altra. Un uomo parla napoletano (il piacentino Marco Cacciola) e dovrebbe essere Sancho, l'altro spagnoleggiante, vetusto, forbito, arcaico (Michelangelo Dalisi) è Chisciotte di cervantesiana memoria. Ed è tutto un gioco tra le due parti, di rincorse, di sberleffi, calembour, giochi di parole alla Totò e Peppino, alla Franco e Ciccio, con perifrasi che sembrano uscire dalle rime del Cirano, assurdo, grottesco, surreale, anche vestiti come Ghostbuster con aspirapolvere sulle spalle, abatjour, ombrello, bastone da rabdomante, pantaloni da guardie svizzere o figuranti del calcio Storico fiorentino, fruste da cucina e scovolino per la polvere ovviamente arcobaleno. Salviamo il bel monologo iniziale (il testo è di Ruggero donchisciotte_ph_nocera_teatrodinapoli_20230607329-scaled-e1686757064842.jpgCappuccio) di Cacciola sul proprio paese (che potrebbe essere scritto indifferentemente con la minuscola, il paesello, o la maiuscola, lo Stato), sull'emigrazione nostalgica (ci ha ricordato alcuni passaggi degli scritti di Franco Arminio) che diventa rabbia astiosa, un'arringa che da allegra diventa sfogo amaro, arrabbiato anche se rassegnato e sconfitto. La scena vista dall'alto dei palchetti, con i televisori e le luci cangianti (passano dal giallo, rosa, rosso, blu, bianco, un'aria rarefatta e misteriosa da sogno felliniano) e il grande tabellone dove ruotano le lettere in stile stazione ferroviaria, è già di per sé una profonda installazione d'arte contemporanea dove gli anni delle tv spalleggiano il lento cambiamento meccanico, faticoso, quasi ingrippato, che gira alla ricerca delle lettere per fissare una prossima destinazione smarrita. Ulteriore innesto di senso sono questa ventina di signore e signori anziani che vengono accompagnati sulle varie poltrone e che seguiranno tutta la piece da quella posizione privilegiata. Questo “Don Chisciotte” a tratti potrebbe sembrare andare contro il pubblico: più formalismi che sostanza, più ricerca della trovata che essenza.

Abbiamo dettoclipboard-0136.png del funerale dell'Imperatore che si ricollega al Signore di Milano Due. In questo “Napoleone. La morte di Dio”, scritto e diretto da Davide Sacco (che gestisce il Teatro Manini e il festival Narni Città Teatro nella cittadina umbra), presenta una scena cupa, scura, nera, ombrosa e imponente a fare da sfondo a queste amare riflessioni, non così chiare e limpide, sulla vita e sulla morte, sull'essere figli e sui padri che se ne vanno lasciando vuoti da gestire. Più vicende si intrecciano, più piani temporali si affastellano. Lino Guanciale (sempre amatissimo dal pubblico) ci mette anima e corpo in questo addio, tra obitorio e cimitero, su questa panca che si trasforma in catafalco (molto shakespeariano). A tratti la recitazione può apparire urlata, agitata, concitata e la sua voce (in alcuni passaggi ricorda i filmati dell'Istituto Luce) si sovrappone a quella della cantante (la bravissima Simona Boo) che ci porta dentro le atmosfere di Modugno o intona “Lascia ch'io pianga”. La scena costruita in altezza da tubi innocenti e impalcature e orizzontalmente con cumuli di terriccio per la sepoltura inneggia e richiama ora al cielo adesso alle profondità, al mistero del dopo. Le varie storie, in un flusso di parole copioso, che si incastrano forse non aiutano la comprensione (abbiamo visto la piece sia a Napoli che a Narni) di questo figlio in lotta tra il sentirsi un orfano ormai adulto e un padre che spegnendosi si è portato via il segreto della vita, nell'impossibilità di un nuovo incontro, nel dolore della perdita che difficilmente si può razionalizzare.

Tommaso Chimenti  19/06/2023

Dove iniziare un discorso su Eduardo De Filippo se non intorno ad un tavolo imbandito e ricolmo di gustose pietanze di cui si recita, come se fosse un sonetto, la ricetta? La convivialità della famiglia De Filippo è, in ordine d’apparizione, la prima indiscussa protagonista del lavoro di Didi Gnocchi e Michele Mally, Il nostro Eduardo, che poco aggiunge al genere in sé ma che si erge nell’intimità di uno sguardo attento e rispettoso, chiedendo ausilio sia alle fonti scritte che orali. Foto, filmati, lettere e ricordi dànno più chiarezza e tono al ritratto del drammaturgo napoletano, ancora pregno di zone d’ombra. Nell’alternanza tra materiali d’archivio e testimonianze il montaggio trova una sua non tanto originale quanto più didascalica ragion d’essere. I flashback cercano di entrare in profondità nelle contraddizioni di una vita artistica, se non di un’epoca, ma è con una ricetta culinaria ed i suoi odori che la narrazione prende un altro passo. È il ragù secondo Eduardo, quello di Sabato, domenica e lunedì (commedia in tre atti del 1959 poi pensata in due puntate per la TV fino ad arrivare al Cinema sotto l’occhio autentico di Lina Wertmüller), con tutti gli odori, la consistenza, la sfumatura a fuoco lento, l’assaggio fino al piatto freddo, passata la sacra festività domenicale. La portata sentimentale di una vita tra le righe di una ricetta. È con il ragù che tutto comincia e si conclude.

Da un soggetto di Didi Gnocchi, la sceneggiatura di quest’ultima, Tommaso De Filippo, Maria Procino e Matteo Moneta e la regia di Didi Gnocchi e Michele Mally che il progetto prende vita. I nipoti Matteo, Tommaso e Luisa, i figli del figlio Luca, scomparso nel 2015. Poi la storia personale e artistica di Eduardo si dipana. La nascita da figlio illegittimo di un altro celebre attore (come Peppino e Titina), Eduardo Scarpetta, l’erede di Antonio Petito e quindi della tradizione napoletana tutta. È dalla compagnia di Vincenzo Scarpetta che tutto comincia fino al difficile rapporto con il fratello Peppino e la vicinanza dell’adorata sorella Titina, fin dai tempi della compagnia “Teatro Umoristico I De Filippo”; il coronamento di amori e le tre mogli, Dorothy Pennington, Thea Prandi, Isabella Quarantotti. Il susseguirsi dei successi, i sogni, come quello di creare un teatro stabile d’arte a Napoli, la continua entrata ed uscita dal Cinema per pagare i debiti contratti e sostenere il suo teatro, il San Ferdinando, la maturità raggiunta dalle opere. È la centralità della famiglia a solcare, fin dagli esordi, una mai interrotta trance de vie: dall’eredità accolta dal figlio Luca, che debutta al suo fianco piccolissimo e che continuerà la tradizione attoriale di famiglia, la prematura scomparsa della figlia Luisella, gli intrecci familiari, gli abbandoni, i lutti.

L’ironia e l’emotività come grimaldello per accendere il senso critico delle persone e giungere ad una riflessione. Un attento osservatore della realtà, alla ricerca dell’ispirazione andando ad assistere ai processi della gente comune nel tribunale di Napoli. Il capocomico rigoroso, che chiedeva a tutti i membri della compagnia un impegno senza deroghe, fino ad apparire spietato nella sua severità. Il teatro come fede, etica disciplina di sguardo sul mondo. Il presepio come l’occasione di un teatro altro dove mettersi al riparo da ipocrisie e omologazioni della società e mantenere in vita l’onestà, un luogo dove c’è ancora un occhio di riguardo per la fragilità del prossimo e più cura per gli affetti. “L’uomo nasce vecchio per diventare giovane”, diceva. Volendo obiettare (non sia in collera con me, Maestro) direi che l’uomo nasce con il dono dell’innocenza mancando però d’esperienza; poi matura perdendo momentaneamente la prima ed inaridendosi con il raziocinio e la praticità della vita; invecchia, riacquisisce quell’innocenza ma con meno energie e memoria, elemento fondamentale per ricordare le esperienze. Una debacle. Ci sono mondi inconciliabili che si attraggono e si respingono, artisti che la vocazione comune unisce ma il genio individuale divide. E poi il successo che afferra abbaglia ed emargina, le strade che si sceglie di percorrere, le maschere da vivere ancora prima che da interpretare e le vite che si ha o non si ha la voglia di vivere. Eduardo era un satiro solitario, uomo in un tempo che non gli somigliava ma da cui non prendeva in maniera definitiva le distanze difendendosi con l’arma dell’ironia e del disincanto. “La realtà ha uno svantaggio quello di essere superata dall’arte” - diceva Flaiano - ed entrambi furono, come si dice, degli outsider. Un occhio critico, un’intelligenza raffinata per vedere oltre la superficie di quella marea montante che Pasolini definì sviluppo senza progresso. Un mondo di attori, comici, artisti e “facce toste” che ha condannato come legione straniera di indebiti appartenenti all’arte.

La curiosità come fucina della spontaneità e poi creazione delle commedie ispirandosi sempre alla vita. Complicarsi la vita, come gli diceva Carmelo Bene, e ridare a tutto ciò, con le battute e le trame, a partire da un (ri)corso dell’immaginario e della Storia, la dovuta attenzione, anche per ciò che lascia d’intentato il documentario. Allora, riapriamo insieme le opere, i documenti, le polemiche dell’epoca. Rileggere e approfondire. Non esisteva per lui l’incomunicabilità umana ma una difficoltà di comunicare. Un uomo in una permanente condizione di sottrazione fino a svuotarsi completamente, attorniato da un esterno che invade sempre più la sua interiorità, accerchiata dai problemi che l’essere umano non sa più affrontare e che, di riflesso, scappa, si disimpegna ed infine smarrisce. È il tempo di tornare al silenzio e all’ascolto, soprattutto di quella voce afona, risultato di varie condizioni vissute in quel mondo “effimero” che è il teatro, dove la memoria ha un respiro che spesso si esaurisce al dissolversi della presenza. La poeticità di un teatro che nasce a partire dall’embrione dialettale. La concretezza dalla lingua su corpi che divengono fantasmi, una volta calato il sipario. La voce data ai traumi del dopoguerra, come ultimo sforzo per giungere ad una società diversa fino al disincanto dei suoi personaggi, alla mancanza di volontà nel comunicare. Eduardo è il Novecento in quanto storia che si fa vita, secolare romanzo teatrale che prende posto accanto a Balzac e Zola. È in un suo celebre aforisma che dice: “Lo sforzo disperato che compie l’uomo nel tentativo di dare alla vita un qualsiasi significato è teatro”. Il teatro è un genere di vita, estremo tentativo di arrivare alla verità dell’esistenza.

Lorenzo Fedele 16/03/2023

BOLOGNA – Sarebbe troppo semplicistico bollare “Le cinque rose di Jennifer”, manifesto di Annibale Ruccello, come un thriller, un noir, un giallo. Certo, c'è un'inquietudine di fondo, un disagio che si taglia a fette, una cappa claustrofobica che opprime e soffoca, del sangue, un assassino. Ed è importante la messinscena a cura del Teatro Bellini, con i fratelli Russo (Gabriele in regia e Daniele in scena; 1h 20' di teatro altissimo) binomio e incastro prolifico che dà sempre buoni frutti. Una scena (di Lucia Imperato) che ci immerge in un ricettacolo - boudoir dove il rosso campeggia, violento e aggressivo, colante di pizzi e tulle e un buio dell'anima che si mangia tutto (luci di Salvatore Palladino), che avanza, ingloba, aumenta, annerisce, fagocita le esistenze dentro questo cerchio le rose di jennifer_1736 ph Mario Spada-3.jpgdisegnato a terra, questo perimetro dentro il quale essere maschera, finzione, altro da sé. De “Le cinque rose” vedemmo, qualche stagione scorsa, una versione diretta e interpretata da Arturo Cirillo. Jennifer, un travestito dei Quartieri o un femminiello della via Toledo raccontata da Patroni Griffi, rimane tutto il giorno chiuso in questa casa-museo postribolo (e qui ci è venuto in mente il lockdown), murato vivo (hikikomori ante litteram) attendendo la telefonata di Franco (“Aspettando Godot”), col quale ha avuto una fugace avventura di una notte, chiamata che ovviamente mai arriverà.

I drappi,le-cinque-rose-di-jennifer_0770_Ph-Mario-Spada-1024x681.jpg il baule, il divano hanno uno strano sapore a metà tra le luci rosse da peep show olandese e il testosterone ansimante, l'appiccicaticcio spermatico e il marcio di fiori putrefatti andati a male cimiteriali, il sudore rancido e i bicipiti troppo gonfiati, la puntura dei tacchi a spillo (costumi di Chiara Aversano) e un sentore soffice di un'accoglienza sporca, di un affetto colloso di strass, di un amore di plastica che non consola. Le interferenze telefoniche (che ci raccontano di una Napoli che sta crescendo ed espandendosi nell'edilizia anni '80) sono il crack ironico dentro un dramma esistenziale, dentro un'identità dolorosa e socialmente non accettata, dentro desideri che non si possono dire ad alta voce, dentro miserie madide, accucciandosi e rifocillandosi soltanto delle emozioni che provengono dalle frequenze della radio (anche questa gracchiante, perché non funziona niente in questo basso, reale e metaforico) da Mina a Patty Pravo, da Romina Power alla Vanoni fino a Gabriella Ferri, donne combattive e agguerrite e arrabbiate che hanno cantato la solitudine di chi ama non ricambiato. Il telefono e la radio sono due veri e propri personaggi in questo ricettacolo con i quali instaurare un dialogo dal quale sgorgano frustrazioni e sfoghi, rabbie e malesseri. Ma non sono gli unici “attori” in scena con i quali creare rimandi e fare da specchio a Jennifer-Daniele Russo (di raro impatto e prestanza, sicurezza senza alcuna sicumera); si aggira quest'ombra scura (Sergio Del Prete, figura marginale ma centrale che illumina di senso il focus del racconto, creando un doppio, un rimbalzo psicoanalitico, alter ego d'abisso e voragine) che pare una beghina, un monaciello, la Befana, ricorda Quasimodo, il gobbo di Notre Dame, una prefica, le donne che piangevano a pagamento ai funerali, dalla faccia bianca cadaverica e zombie allarmante, un'oscurità che grava e aleggia e s'abbatte e ruota attorno come avvoltoio in cerca di carcasse, come presenza di pece che vorticosamente attende la sua (prossima) vittima.le-cinque-rose-di-Jennifer-Bellini-2-640x341.png

Dateatro.it-le-cinque-rose-di-jennifer-daniele-russo-01.jpg un lato Jennifer aspetta Franco (nome non casuale nell'accezione di sincero, schietto, cosa che l'uomo non è stato con il/la protagonista) nel suo tugurio agghindato e abbellito da profumi scadenti e paraventi di raso in questo habitat chiuso e piccolo e asfissiante, microcosmo opprimente, senza ossigeno né aria respirabile, dall'altro fuori c'è il mondo (ed è la figura che incombe pericolosa, misteriosa e mistica) che entra attraverso la radio che ci racconta di un intorno violento dove “quelli come lui”, rifiutati dai benpensanti, i travestiti, vengono trucidati ed eliminati da un maniaco come mosche (forse qui ci potrebbe essere un accenno all'Hiv che da lì a poco mieterà molte vittime nella comunità mondiale Lgbt) senza che la società civile prenda sul serio la faccenda, anzi sembra quasi un'agognata pulizia per ridare decoro all'ormai sgretolata scala valoriale e morale.

In questa frizione, il mondo di Jennifer è un tondo come fosse un'isola di sogno, un tappeto soffice di nuvola dove rimbalzano i passi come Uomo sulla Luna, in questa frontiera e frattura i colori sbafati da circo si impastano con la disperazione da bambola interrotta, da Barbie spezzata dove l'immaginazione crea mondi paralleli, psichedelici in un intorno dall'umanità assente, dai silenzi pieni e consistenti, dall'emarginazione che ingabbia, recinta, barrica facendo annegare nel fango dell'insoddisfazione, dell'infelicità, della depressione, dell'angoscia, senza una boa di salvataggio. “Le cinque rose” sono un urlo, un grido d'allarme inascoltato, un clown che ride piangendo.

Tommaso Chimenti 13/03/2023

 

NAPOLI – E' un momento di grande riscoperta nazionale di Eduardo (a Napoli invece è costante imbattersi nei suoi testi e nuove messinscene); ultimamente ecco il “caso” eclatante di “Natale in casa Cupiello” di Interno 5 con burattini e marionette, il “Tavola tavola, chiodo chiodo” con un grandissimo Lino Musella, la pellicola “Qui rido io” con Servillo, il documentario “Il nostro Eduardo” o ancora “I fratelli De Filippo” di Sergio Rubini. Soltanto per parlare delle ultime, temporalmente, novità tra teatro e cinema. Anzi il mito, come è normale che sia, più passa il tempo e più s'accresce, s'ingigantisce, la matassa s'infittisce, le analisi si gonfiano, 01-Foto-Larte-della-commedia-ph-Anna-Camerlingo.jpegla letteratura attorno monta. Possiamo affermare che Eduardo, tra secoli, sarà il nostro corrispettivo per l'Inghilterra di Shakespeare o Cervantes per la Spagna. Eduardo italiano e non soltanto napoletano. Un testo tra i meno sperimentati, affrontati e masticati è “L'Arte della Commedia”, drammaturgia fortemente pirandelliana (furono amici e collaborarono anche nella stesura de “L'abito nuovo”) tutta giocata sul vero e sul falso, sul plausibile e sulla menzogna. Capocomico stavolta è il sempre coinvolgente Fausto Russo Alesi (prod. Teatro di Napoli, Teatro della Toscana, Elledieffe, molto lungo 2h 45') attorniato da un buon cast dove ognuno si ritaglia una bella fetta di luce propria.

Nel prologo ci arriva subito la voce di Eduardo (e siamo proprio dentro il “suo” San Ferdinando, caldissime le temperature al suo interno) che genera sempre quel brivido trasognante dell'essere dentro il tempo, la storia. Qualcuno dirà che “L'arte della commedia” sembra scritta oggi. Non è così o almeno i problemi dell'arte, della cultura, da sempre sono sempre gli stessi e si sono sempre scontrati con i governi, i partiti, le amministrazioni, i poteri di qualsiasi credo politico: la cultura come intrattenimento per non far pensare ai problemi quotidiani delle persone da una parte 2_Larte-della-commedia-di-Eduardo-De-Filippo-regia-Fausto-Russo-Alesi_ph-Anna-Camerlingo.jpg(il teatro d'impegno considerato inutile e obsoleto, financo dannoso) e dall'altra l'esigenza di approfondimento, di presa di posizione, di denuncia sociale, di scardinare temi e argomenti contemporanei. Una messinscena cupa, dalle ombre dure e solide, con dei chiaroscuri densi e pastosi (luci di Max Mugnai) con una scena potente e semplice (di Marco Rossi) con un telaio, una struttura di porta, quasi una fortezza sumera, dapprima a terra, nella costruzione teatrale e nel disvelamento della macchineria, poi issata nella sua magnificenza e altezza (con la polvere alzata simbolo di negligenza, di vecchiezza, dello stantio delle idee) e infine caduta nuovamente nel sottolineare la finzione del teatro che, proprio in quanto non reale, riesce a toccare più in profondità l'essenza delle cose e dei concetti esaltandoli, illuminandoli.

Il protagonista (Russo Alesi, dalle mille sfumature, è Oreste Campese) è un attore e regista di una compagnia teatrale, “Duemila anni di teatro possono entrare in pochi metri quadrati di palcoscenico”, possiamo dire ruolo autobiografico nel quale riconosciamo la fatica di Eduardo stesso durante la sua esistenza. Ma tutto il testo è una lectio artistica, ma anche imprenditoriale, politica, amministrativa, gestionale, sull'universo teatrale; e niente è cambiato con i finanziamenti, con i fondi destinati, con le esigenze degli uffici ingessati e impomatati e dei burocrati macchinosi che si scontrano con quelle fattive degli artisti. Il primo atto ruota tutto attorno all'incontro, ora docile e lezioso e amichevole, adesso scontro, acido, rancoroso, acre e pungente, tra il regista e il prefetto nello studio di quest'ultimo. Un uomo (qui fa le veci dello8c5dfb26c2d12889e7df5f89bdc6d093_XL.jpg Stato, nella sineddoche di una parte per il tutto) intento agli incartamenti e ai timbri più che al pensiero. I due si annusano e poi si azzuffano, s'azzannano proprio per l'incomprensibilità delle richieste altrui e l'incomunicabilità tra le istanze opposte che non riescono a collimare né a trovare una sintesi utile a entrambe le parti pungolati da temi come crisi teatrale e repertorio, scivolando attorno alla frase “L'attore svolge un ruolo importante per il suo Paese?”. Diventa un ring che si declina ora in una confessione adesso in un interrogatorio (il prefetto è un Alex Cendron capace nei vari registri). E Campese parla con le parole di un Eduardo che ha sempre combattuto per queste stesse esigenze e appelli, per la dignità del lavoro, per una consapevolezza più alta del mestiere dell'attore. Affiorano i termini “censura” e “autocensura” (buone in qualsiasi epoca) nella collisione atavica tra cultura e potere perché, proprio per sua stessa incarnazione, la cultura non può andare a braccetto con il potere altrimenti diventa megafono e propaganda: “Gli attori sono in cerca di autorità e non personaggi in cerca d'autore”.

Se la prima parte è appunto fosca e a tratti lugubre, è nella seconda che la commedia si esalta con fuochi d'artificio e brillantezza. Il nodo sta tutto nella “minaccia” che Campese formula al prefetto: avrebbe mandato a chiedere udienza al burocrate, facendogli perdere tempo prezioso e rallentando il Russo-Alesi.jpglavoro del suo ufficio, attori travestiti nei più disparati mestieri e ruoli e l'istituzione non avrebbe capito se fossero stati effettivamente chi dicevano di essere o se appunto teatranti ad impersonare svariate professioni. Torna qui prepotente il tema del vero e del falso (centrale nel teatro concettualmente, e cardine in quello di Pirandello), del reale o della finzione. In questo secondo atto spiccano il medico (Filippo Luna frizzante) e il parroco (Gennaro De Sia fortissimo) in due scene scintillanti, esaltanti, effervescenti dove la commedia diventa tragedia e il tutto ha il sapore amarognolo della farsa e della sconfitta. E' l'ambiguità del teatro, nel suo profondo essere e nella sua stessa costituzione, che non può essere categorizzabile e incasellabile dal potere di turno, è la sua sfuggente imprendibilità che rende le istituzioni fragili al suo cospetto. E forse, paradossalmente, è anche giusta questa dicotomia, questa acredine, questa distanza. E' Il Re che se non può controllare il giullare lo manda al patibolo. Condannando però se stesso e la sua inadeguatezza e pochezza. Perché nuovi giullari nasceranno. Perché il teatro è morto talmente tante volte che sa come resuscitare: “Mi hanno sepolto ma quello che non sapevano è che io sono un seme”.

Tommaso Chimenti 25/02/2023

Foto: Anna Camerlingo

FIRENZE – Quello messo in scena da Lino Musella è un Eduardo uomo, terreno, non le sue tragedie popolari dei quartieri napoletani ma la sua lotta quotidiana con i soldi, con i debiti, con le banche, con la burocrazia, con il teatro, nel teatro, per il teatro, la sua battaglia per la dignità della sua città. E se ne sente tutta l'amarezza, ma mai la rassegnazione, nelle lettere, lette alla vera scrivania dell'autore di “Natale in Casa Cupiello”, inviate dalla fine degli anni '50 per far rivivere il San Ferdinando, quello che sarebbe stato sangue e lacrime, sua croce e delizia, ma anche soddisfazione e felicità e responsabilità, per il Maestro. Chi meglio di Musella poteva portare in scena Eduardo in questo “Tavola Tavola, chiodo chiodo”? Le tavole del palcoscenico e i chiodi per fissarle, l'artigianalità del fare teatro, le mani, la fatica, i polpastrelli, il sudore non soltanto il genio e la creatività e le idee delle drammaturgie. Senza travestimenti, infingimenti, modulazioni vocali, baffetti posticci. 04_ridotta.jpgMusella si fa transfert delle sue parole scritte, passaggio e megafono in una sorta di seduta spiritica dalla quale emerge un uomo piccolo ma solido, tenace, ossuto che sembra lottare contro i mulini a vento dell'amministrazione, dei fondi alla cultura, nell'indifferenza generale, non un uomo solo al comando ma un uomo solo contro le intemperie che non si è lasciato abbattere ma che giorno dopo giorno, come sabbia nella clessidra, è stato un po' mangiato lentamente dai problemi, dalle preoccupazioni, dalle ansie del lavorare per ripianare i debiti per far tornare, dopo i bombardamenti, a far risplendere quello che ancora oggi è il suo teatro. Tutt'oggi, sul bandone del teatro, davanti alla piazzetta, appare la sua immagine iconografica disegnata e sembra che ci sia ancora a proteggere gli dei del palcoscenico, gli spettatori, e sembra sia ancora lì dentro quelle pareti e palchetti e poltrone, e che la sua anima non se ne sia mai andata da quei luoghi.

Lino Musella ha sicurezza da vendere, classe cristallina, raffinatezza, è un giocoliere, un funambolo senza personalismi o egoismi scenici né da mattatore, preciso e morbido non schiaccia con la sua presenza il testo, non ne fa una macchietta, mai impacciato né impallato dal gigante al quale dà voce, in una prova d'attore eccelsa, di quelle che vorresti non finissero mai. Siamo fortunati ad avere la possibilità di vedere certe performance attoriali, di poter godere di tanta bellezza, di tanto accurato lavoro di sottrazione, di tanta maestria e umiltà. Lino picchia sul legno a metà tra un fabbro e un ciabattino e inizia questa celebrazione laica. Questa “Tavola tavola” (progetto di Musella e di Tommaso De Filippo; prod. Elledieffe, Tavola-tavola.jpgTeatro di Napoli; visto al Teatro di Rifredi) è un inno al mestiere dell'attore, una lode alla scena, una lezione di teatro, aperta, sincera, commovente, totale, comprensibile, materica senza svolazzi pindarici con tante perle lanciate senza la prosopopea di sentirsi guru né tanto meno Maestro: “Il giorno di riposo è la morte” o ancora “Che cos'è il teatro? E' il disperato sforzo dell'uomo di dare un senso alla vita”. In scena la scrivania, il camerino e il plastico del teatro, le tre anime: la scrittura, l'attore e il sognatore visionario che non si arrende (“non abbiamo una lira ma siamo i più ricchi di tutti”) che aveva immaginato e poi realizzato il suo chimerico progetto.

C'è un amore spasmovp3E882SVNwWLnB4.jpgdico, e doloroso, per il teatro ma anche per la gente, per il popolo, “voglio biglietti accessibili a tutti”, senza infarcirsi troppo la bocca con la tanto abusata parola “cultura”. Il ritratto che emerge di Eduardo è quello di un intellettuale illuminato schietto sofferto. Musella costruisce un rito e ogni rito che si rispetti ha bisogno di candele e di fuoco salvifico e purificante in un testo semplice e profondo, semplicemente emozionante. Ci sono le lettere toccanti al figlio Luca, quelle ad Andreotti, la lettera di Pirandello, le molte alle banche o alla SIAE, alla madre come alla moglie, al ministro o ai carcerati. Da oggi, grazie ad un Musella autentico lancinante immenso, Eduardo è ancora di più patrimonio di ogni italiano con le sue frasi iconiche passate al nazional popolare e permeate e stratificate nelle generazioni come “Adda passà 'a nuttata” o “Te piace 'o presepe?”. Eduardo non è solo Napoli, è di tutti.

Tommaso Chimenti 12/02/2023

Giovedì, 02 Febbraio 2023 19:07

“Brigata Miracoli”: much ado about nothing

NAPOLI – Stavolta la brigata dei Vucciria potrebbe non aver compiuto il consueto miracolo di trasformare il teatro in poesia miscelando l'onirico con il materico, la sostanza grezza con la grazia, lo sporco in sogno, i bisogni primari con la delizia, la carne con la preghiera. Siamo di fronte, dopo l'illuminazione di “Immacolata Concezione”, ad un lavoro, il loro nuovo “Brigata Miracoli” (prod. Fondazione Teatro di Napoli-Teatro Bellini), molto stratificato e ricco dove molti passaggi sono dati per scontato e dove la sovrapposizione di temi ha finito per infarcire di senso una vicenda semplice con parallelismi forzati e argomentazioni collaterali. Una trama che ha lasciato più di una zona d'ombra, nebulose opache nebbiose, sfere, parti e quadri poco comprensibili.

In cinque in scena, i due personaggi maschili (i sempre bravi ed efficaci Enrico Sortino e Joele Anastasi, di quest'ultimo regia, testo e costumi) sono abbastanza defilati e laterali, mentre protagonisti sono proprio i tre ruoli femminili (Federica Carruba Toscano che spicca, Adelaide Di Bitonto concitata, Beatrice Vento timida) che urlanoteatro.it-Brigata-miracoli.jpg smodatamente, molto, troppo in un litigio perenne, offendendosi come mitragliatrici con mille epiteti diversi, per tutto il tempo della piece senza resa, senza posa, in siciliano e pugliese, aumentando i decibel e con essi il caos. Si comincia gridando alla Luna che non c'è più, che se n'è andata, che non ritorna. Cripticamente il satellite con i crateri è la televisione, anzi un programma tv, o ancora forse un reality che da venti anni è entrato nel quartiere con le sue telecamere trasformando, forse in positivo ma non è dato saperlo e nemmeno in che modo, questo rione periferico di una città del Sud dove prima non c'era niente e adesso invece c'è almeno la televisione. Una rete privata gestita in maniera familiare dal capofamiglia e dalla figlia (arriveremo dopo ai loro nomi simbolici) che occupava come special guest ed eroina tutte le ore di messa in onda sul tubo catodico catalizzando l'attenzione su di sé, divenendo starlette di provincia e icona locale. Ma questa ragazza un giorno è caduta in un sonno profondo, in una specie di coma vigile catatonica, una bella addormentata nel bosco, come se ad un tratto si fosse spenta la luce o qualcuno avesse girato l'interruttore. Sta di fatto che senza la conduttrice factotum dell'emittente la televisione non si può fare. In fase di scrittura i Brigata-Miracoli_7741-1536x1024.jpegVucciria si sono rifatti ad un fatto di cronaca, passato abbastanza sotto silenzio, di alcune bambine richiedenti asilo che all'improvviso, in Svezia, si sono addormentate abbandonandosi alla rassegnazione in un pesante letargo, in una solida sonnolenza senza risveglio, senza un reale motivo accertato né patologie acclarate.

A questo aggiungiamoci le canzoni di Peppino Gagliardi e di Franco Ricciardi (quello musicale è un corpo abbastanza estraneo al plot) che mutano il palcoscenico in un continuo dj set immerso nel fumo delle mille sigarette che accendono a ripetizione. E adesso arriviamo al nodo concettuale più oscuro e macchinoso, ovvero il perché ai personaggi sono stati affibbiati nomi, e anche evidentemente lati caratteriali e tratti principali, di rappresentanti dei classici greci (instillando nuove aspettative, magari non completamente soddisfatte): Zeus è il padre-padrone della famiglia che però non sembra così deus ex machina né generatore né tanto meno dittatore, Afrodite è la figlia dormiente, Anchise è il cognato pescivendolo (riferimento un pò forzato agli apostoli cristiani), Enea è l'altra figlia, perché il padre voleva tanto un maschio ma poi è nata una femmina ma il nome ormai era già stato scelto e non è stato cambiato (anche su questo punto potremmo ragionare molto). I rimandi spostano la narrazione in una zona di penombra ed eclissi (parlando di Luna), ci portano dentro luoghi lontani e terre straniere e aprono nuove parentesi che però rimangono vuote, senza reali spiegazioni né apparenti motivazioni drammaturgiche. Si ha la sensazione di troppi ingredienti, forse non ben amalgamati e scelte enigmatiche e misteriose per una messinscena che ci ha lasciato più di un interrogativo. Quali sarebbero i miracoli che questi personaggi avrebbero dovuto compiere? Quali i prodigi salvifici che avrebbero potuto realizzare?

Tommaso Chimenti 02/02/2023

 

NAPOLI – Un fondale che si espande a metà tra il Bosco Verticale milanese, con vie di fuga che saettano in alto, e il Calendario dell'Avvento, con le sue finestrelle tridimensionali, quasi squarci di Lucio Fontana nella tela a prendere luce e respiro, e le sorprese che si affacciano e si affollano di presenze, questo particolarissimo fedelissimo eduardiano “Natale in Casa Cupiello” cum figuris (per la regia di Lello Serao che si è messo in gioco, sperimentando un nuovo linguaggio) è forgiato tra luci e ombre, da apparizioni caustiche ed epifanie carsiche in una continua meraviglia che abbaglia pur nella penombra (le luci catartiche sono di Luigi Biondi e Giuseppe Di Lorenzo), che si infittisce di mistero, dove il testo si nasconde nelle pieghe dei movimenti dei burattini. Tre atti, con conseguenti cambi di scena, per questa perla (prod. Teatri Associati di Napoli, Interno 5) che rifulge di luce propria e riesce a rimettere in circolo, come sangue che pompa nelle vene, il dramma di De Filippo donandogli una veste nuova e suggestiva, curiosa e allettante. E' un presepe (proprio il termine che più ritorna come mantra) perpendicolare e gigantesco (praticamente una seduta spiritica) che 2d9c65e1c1ca05db2bbee017d29509b4_XL.jpgci mostra tutta l'artigianalità del teatro, le sue assi, i suoi riflessi lignei, le sue carrucole, la sua delicatezza d'ingranaggio, questa manualità infantile di stelle appese e comete apposte, di angelo volante e asinello appoggiato. Sarà il “caso teatrale” di questa stagione, ne siamo certi, per intelligenza e tecnica.

Si sente un ribollire di tensione emotiva e magma tattile (il Teatro Bellini ha fatto bene ad impostare una lunga tenitura, tre settimane, per questo piccolo capolavoro che verrà ricordato e che tutti gli amanti del teatro dovrebbero avere la possibilità, e la fortuna, di poter vedere) che tutto trasforma in questa sorta di laboratorio di falegnameria. E il parallelo nasce spontaneo con Geppetto (Lucariello) e Pinocchio (Tommasiello) tra trucioli, marionette e ciocchi di legno da intagliare, perfezionare, limare per questo grande presepe che è l'esistenza. E, se vogliamo forzare l'assonanza con Collodi, qui possiamo vedere, al contrario, come dalla carne, il capofamiglia Luca si faccia di legno perdendo la sua fisionomia terrena Ph Anna Camerlingo.jpge trasfigurandosi in una delle sue statuette tanto amate. Lucariello è un enorme Luca Saccoia davvero toccato dalla grazia del palcoscenico che, generosissimo e sempre in movimento, dà voce ai vari personaggi che si affacciano governati dai neri movimentat(t)tori (tre ragazzi, provenienti da un laboratorio di Scampia, e tre ragazze), cambiando il tono e l'inflessione. Se nel primo atto (le scene sono di Tiziano Fario) è appunto l'attore napoletano a prestare le corde vocali agli altri ruoli, nel secondo, attorno a questa tavola bassa da fiaba, trova il dialogo proprio con i manovratori per infine, nel terzo, scindersi dal suo personaggio e a specchio e farsi doppio, come l'anima che lascia il corpo, e aggirarsi attorno a quel defunto impersonando i personaggi-satelliti che gli hanno ruotato intorno fin dall'inizio senza capirne l'importanza, dandolo per scontato, non considerandolo abbastanza, certamente non amandolo.

E' sia una guerra generazionale NCC (ancora attualissima e contemporanea) tra un padre che non riesce a passare al figlio le proprie passioni né le regole di vita e di comportamento e soccombe davanti alla prole scapestrata (appunto pinocchiesca) che non riconosce la sua autorità e che di lui si fa beffe snobbandolo, deridendolo; mentre il padre vorrebbe soltanto un po' di vicinanza e solidarietà, chiede amore e domanda insistentemente di essere stimato attraverso la costruzione del presepe, e vorrebbe soltanto far vedere quanto vale ma per i suoi congiunti non conta né merita niente, e da parte del suo ragazzo riceve soltanto rifiuti e anzi pesanti negazioni e contrasti che lo fanno sentire inutile, vecchio, sorpassato, incompreso quando avrebbe voluto solamente essere capito e accolto e ascoltato, abbracciato e non allontanato con una freddezza tagliente che incassa anche se Ph Anna Camerlingo2.jpggli fa malissimo. Il presepe è il suo recinto e cortile, il suo hobby e fiore all'occhiello, il suo orgoglio (la cosa che gli è riuscita meglio) e la sua fuga dalla realtà, un posto Ph Anna Camerlingo4 (1).jpgdove tutti i pezzi vanno al loro posto e dove ogni staticità è fissa e decisa dal suo deus ex machina, dove i punti di riferimento sono comprensibili e standardizzati, dove ogni mossa è controllabile non come la sua vita (dileggiata, per gli altri componenti della famiglia è irrimediabilmente un perdente) sempre tra l'incudine e il martello di un figlio scansafatiche, di una moglie perennemente in contrasto e insoddisfatta, di un fratello brontolone, di una figlia frustrata. La felicità non abita in casa Cupiello che già nella sua radice contiene il cupo, il fioco, il fosco, il livido, il buio. Se qualcuno nel corso della vita vi chiederà più volte con perseveranza “Te piace o' presepe?” (in definitiva è una richiesta d'amore; qualunque oggetto ci sia al posto della capannuccia e dei re Magi) forse ci tiene così tanto che aspetta soltanto un cenno per sentirsi finalmente accettato per quello che è invece che per quello che avrebbe potuto o dovuto essere. “Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai niente. Sii gentile. Sempre”.

Tommaso Chimenti 21/12/2022

Foto: Anna Camerlingo

NAPOLI – Anche se il mare non lo vedi, di sottofondo ti arriva sempre a prendere. Ti sposta, una carezza decisa, come un tirarti sottobraccio, amichevole e netto. Tutte le strade portano alla maestosità del Maschio Angioino che, anche con le gru che tentano invano di bloccarne la visuale, anche con gli infiniti lavori della metropolitana, se ne sta lì vedendoci passare piccoli, con gli occhi stretti davanti alle sue pietre brune, ai suoi merli, alle sue torri imponenti. Sui muri dei vicoli spuntano gatti francesi sorridenti disegnati con colori sgargianti che il tempo e il caldo hanno scolorito senza però perderne la felicità, la sornionità napoletana di sopravvivere alle incertezze, di fronteggiare le avversità, di tenere botta ai giorni, agli anni, alle difficoltà. E guardando in alto appaiono le sirene sovrappeso in zona Piazza Bellini dove le camionette dell'esercito se ne stanno davanti al grande murales che inneggia ad un celebre gruppo organizzato del tifo per il Napoli, come un Caravaggio tra la frutta in via dei Tribunali. I panni stesi sono un'installazione continua, a cielo aperto, tirare il naso all'insù è un esplodere di colori, di tele che svolazzano sopra la testa a creare un puzzle, un mosaico da portarsi dentro. E ancora il Mulino arrugginito in una traversa di via Toledo, donchisciottesco e decadente tra i palazzoni del centro, ci dice che qui l'Utopia vive e sopravvive, anche se le pale non sono funzionanti, anche se sembra aver perso il suo smalto, ma resiste “in faccia ai maligni e ai superbi” direbbe un De Gregori circense. E poi c'è il Colapesce ritratto, testa di pesce e corpo da Re con tanto di tridente in mano e le regole di vita vergate sul bandone di un bar in zona Università che sarebbero da imparare, seguire, ripassare ogni giorno della propria esistenza. Napoli è un respiro, a volte è un fritto, a volte uno sbuffo delle televisioni sempre accese i cui colori smodati escono aggressivi dai bassi, ora è una sirena, adesso uno sbattere d'ali di piccioni. Se Napoli è già un teatro a scena aperta, il “Campania Teatro FestivalAmleto, principe di Airola-min(1).jpg(budget 4 milioni e mezzo) è teatro nel teatro, esaltazione del teatro, anche se il suo fondale, da qualche anno, è confinato nel bellissimo polmone verde che guarda la città dall'alto, tra le palme e i due palchi organizzati alla Reggia di Capodimonte. Sopra nel cielo, sembrano rincorrersi gli strepiti dei gabbiani che urlano al tramonto la loro voglia di vita o la loro paura delle tenebre, e gli aerei che, incuranti degli uomini così piccoli là sotto, sferragliano con le loro tonnellate, con i loro fumi come siluri tra le nuvole arrivando e ripartendo da Capodichino con le loro lucine accese a lasciare una scia fosforescente e ipnotica nell'azzurro sopra le nostre teste rapite.

E' stato un soffio potente, leggero e profondo, quello che ha aperto questa edizione del festival diretto da Ruggero Cappuccio e Nadia Baldi, da considerare più per il percorso esistenziale ed emozionale che dal punto di vista artistico. Quale personaggio migliore di “Amleto” per raffigurare un giovane in balia del Sistema, tra le gabbie della sua fortezza, vera o presunta, chiuso tra quelle pareti a chiedere giustizia e verità, a voler mettere in atto la sua vendetta? E' un Amleto particolare questo portato sul palco dai ragazzi del carcere minorile di Airola e dalle studentesse dell'Istituto I.S.A.M. de' Liguori di Sant'Agata de' Goti. Schegge di Amleto, sprazzi di Shakespeare, spunti secolari, lampi che toccano, hanno toccato e toccheranno tutti gli uomini prima e dopo di noi. Il classico che s'infarcisce di oggi, le parole del Bardo, con piccole dosi di ironia funzionano, intervallate dalla contemporaneità che bussa alle porte, irrompe sulla scena senza chiedere permesso. I ragazzi entrano in nero sul boccascena, hanno dei bastoni in mano per battere il tempo. Airola che prende le fattezze di Elsinor, con una prigionia che si fa fisica e mentale, reale e psicologica. Amleto diventa Amlè, Ofelia è Ofè. Spunta anche un cantante neomelodico, ma quello che più ci ha colpito, e che ha dato un valore più alto e tangibile all'operazione, sono stati gli inserti hip hop (il maestro è stato il cantante Lucariello) con alcune canzoni-sfogo che hanno squarciato la quarta parete, pur nell'oggettiva incomprensibilità (per i non napoletani) ma con una potenza di fuoco ruvida, una voce che arrivava a toccare corde lontane, distanti dal buonismo e senza lamentazioni, tasti perduti dentro il cuore e la pancia del pubblico. In quelle parole così piene e rudi, così gracchianti e graffianti, così sentite e vere, sta il nocciolo e il centro e il fulcro di questo “Amleto Principe di Airola” (il presentatore è quello che meglio reggeva i tempi e i ritmi, dovrebbe continuare a fare teatro), improvvisazioni su basi dai bassi potenti. E in ogni rima sembrava di rivedere alcune vite segnate, alcuni destini tranciati troppo presto. Ma il teatro è una risorsa, è una via di fuga, può essere una finestra oggi per guardare fuori dalle sbarre, domani per immaginare per se stessi un futuro (anche se non intrapreso a livello professionale) non penalizzato, un avvenire da riempire di cose positive. Ecco “Mammà”: “Come eri bella quando mi capivi, Sei sempre pronta a prenderti questo male, Come eri bella quando mi guardavi e con il sorriso mi dicevi tutto. Fermerei il tempo tra le tue braccia, Un’ora a settimana non mi basta mai, Mamma ti chiedo scusa in questa canzone che tra quattro mura sto scrivendo. Ogni pensiero mi parla di te che mi difendi anche se ho sbagliato, Siamo lontani ma sei sempre presente, Sei un pensiero fisso nella mia mente. Mamma ti regalerei la mia vita, Perché tu stai pagando i miei sbagli e non lo meriti, ti voglio bene. Tutti i pensieri mi parlano di te, Porti la croce per questo figlio tuo e ora mamma tu non ci sei, Ma questa condanna deve finire”. Il teatro, e la musica, come voglia di rinascita, rivincita, rivalsa. Ma, ed è qui che la storia cambia, e deve necessariamente cambiare per interrompere la catena di errori, il nostro Amleto quando ha la possibilità di vendicarsi, con la spada in pugno, fa un passo indietro e non cade nella trappola della vendetta che uccide sia l'ucciso sia l'uccisore. E' questo l'insegnamento più grande, uscire dalle regole tribali, dall'occhio per occhio e dente per dente, il riuscire a razionalizzare senza farsi muovere dall'istinto primordiale delle belve feroci. E poi arriva “Guagliune sfurtunat” che racconta di solitudine ed emarginazione, di lontananza, della scuola che non riesce a colmare il divario tra le possibilità delle varie classi sociali: “Ricordo quando andavo a scuola, Lo ricordo come se fosse adesso, ricordo che tutti ridevano perché avevo le scarpe bucate. Nel banchetto ero sempre solo, all’inizio non capivo il perché, Non si avvicinava nessuno, si sentivano diversi da me. Non avevo una maglietta come loro. Non avevo un paio di scarpe buone ma mi accontentavo di quelle che poteva permettersi mia madre che ogni giorno mi donava il suo cuore. Tutti si riunivano in gruppi, Io sempre solo come un lupo. Sono cresciuto sempre da solo”. La bellezza forse non salverà il mondo ma l'arte può sicuramente innescare il cambiamento.

E' una lettera aperta, CTF_10062022_La_Mancanza_Ph_SalvatorePastore_S2A6256.jpgscritta ancora con il cuore frantumato, con delicatezza, ma senza sdolcinature, una missiva mai consegnata scritta con il sangue della memoria, con la linfa del ricordo, quella che Lina Sastri (una delle ultime signore del teatro) ha portato in scena ne “La Mancanza” (prod. Salina) per il fratello scomparso. Non è solo una morte questa ma un accanimento che alcune esistenze attuano: nel 2013 un'emorragia cerebrale seguita, dopo riabilitazione, dalla scoperta di un cancro nel '17 ed infine ad inizio '21 il Covid che ha posto fine agli ultimi otto anni di calvario, di martirio, di dolore e tragedia. Quindi non è la morte il sentimento e la situazione che affronta la Sastri ma questo lento scivolare verso la fine, lunga e travagliata altalena tra difficoltose e tortuose riprese fisiche e interiori e la nuova mannaia calata a troncare sogni e aspettative di ripresa. Come stare sulle montagne russe, dentro e fuori l'ospedale con la speranza ogni volta da riattivare, i risvegli e le ricadute, gli slanci e le depressioni, il nuovo entusiasmo ritrovato e continue delusioni. Una tragedia personale nella quale, con dolcezza e pudore, ci conduce l'attrice che ci apre le porte dei suoi diari, delle sue note, dei suoi bloc-notes pieni di appunti, di considerazioni dove tratteggia, con grande umanità, la tenacia e la tenerezza, l'impotenza come il perdono. Ricordare è portare nuovamente al cuore. Un percorso dentro la mancanza, un girovagare in mezzo alle parole per trovare un senso all'assenza, l'autopsia di un sentimento, con lucidità ma senza fredda razionalità, anzi con passione e forza, mettendo in campo tutta la fragilità e il coraggio. “La mancanza” è un taglio di Lucio Fontana sulla pelle, è un guardare dentro la ferita e provare una vertigine, è vedere la carne viva, è una lezione di vita che ci dice che anche di fronte all'ineluttabile, all'incertezza del presente, quando si è immersi nella sofferenza e nella solitudine di tenere dritta e viva la barra della coscienza, dell'integrità anche quando tutto attorno a noi ci direbbe di mollare, di lasciarsi andare, di cadere in quello stesso vortice e baratro. La morte delle persone che ci stanno a fianco è un peso insopportabile (“Sono morta un po' anch'io”) che, forse, solo la rielaborazione, che non può essere consolatoria, attraverso le parole e la scrittura e quella terapia condivisa e collettiva chiamata teatro, può leggermente scalfire e lenire. L'Arte ci dice che non siamo soli.

Visti a Napoli il 10 giugno 2022.

Tommaso Chimenti 14/06/2022

NAPOLI – Guardi la scena e ti senti pericolosamente avvinto, avvinghiato da profumi decadenti, da un odore di fiori marci e cromature alla David Lachapelle, in un miscuglio tra l'erotico e il cimiteriale, in un afflato caldo e vulcanico, incandescente e dannunziano. In queste coloriture che si spandono, in questa atmosfera demodé, in questo respiro melò che traspira e trascende, i Vucciria espongono la loro cifra, sempre più dolorosi e caravaggeschi, in quel solco tra il dramma e la sensualità, tra lo strazio e la passione dove protagonista è il senso di colpa intriso di tormento, trasporto ed emozione. Un gazebo centrale, che ricorda il piedistallo delle danzatrici di carillon, e attorniato da manichini, ci fa cadere in preda alle percezione più estreme: il loro è sempre più un teatro sensoriale; sembra di sentire i rasi e le sete sotto i polpastrelli, sembra di sentire nelle narici i profumi pesanti o le colonie, sembra di vedere il giallo dei campi di grano povero, sembra di sentire il sudore dei corpi. Un teatro tattile e immaginifico, che ti porta altrove con l'aroma di incenso sparso, con i mandarini a spruzzare l'ambiente di quell'acido rurale, così fresco così pungente.

116-immacolata.jpgI Vucciria sono lavici: nelle loro rappresentazioni eros e thanatos si inseguono, vanno a braccetto, si confondono, si cercano per poi, finalmente, morire l'uno tra le braccia dell'altro, sovrapponendosi, perdendosi l'uno nell'altro in un amplesso caustico e definitivo. Come se le rime aspre di Rimbaud incontrassero l'Urlo di Munch, come se il dandy che albergava dentro Oscar Wilde ballasse con le facce cancellate di Francis Bacon, come se l'abbraccio di Rilke finisse la sua corsa nelle paludi lagunari veneziane di Thomas Mann. Come frullare i Ricci/Forte con Emma Dante e Annibale Ruccello. Teatrali nel senso più alto del termine, il gusto barocco dei Vucciria mette al centro la carnalità (la materia umana, i suoi bisogni e desideri) così come un forte senso estetico (ricordando certe ambientazioni prettamente “siciliane” di Dolce & Gabbana o altre “spagnoleggianti” aldomovariane). Carne tremula e sopraffazione in questo “Immacolata Concezione” (vincitore dei Teatri dei Sacro; visto al ridotto del Teatro Bellini, che lo produce). Ti frugano dentro, ti mettono con le spalle al muro, ti obbligano a guardare il mondo con prospettive diverse in un'altalena di sensazioni che oscillano e fibrillano, che spostano e confondono: la violenza sta insieme ai sorrisi, il piacere convive con il predominio, gli uomini scambiati con le bestie in un magma inscindibile dove la morale si deve fare da parte e il contesto sopravvive solo all'interno di regole primordiali, arcaiche, primitive, ancestrali, animalesche.

Una ragazza (entra in scena nuda Federica Carruba Toscano) permutata dal padre con alcune capre, una ragazza ingenua, solare, pulita, talmente cristallina da diventare vittima di un sistema dal quale però non sente di essere aggredita ma che, attraverso la sua gentilezza e amore e grazia, riesce a trasformare in dolcezza e pace. Una prostituta di bordello che non sa di esserlo e che soprattutto rimane miracolosamente vergine dopo gli innumerevoli incontri con tutti gli uomini del paese, un piccolo borgo polveroso dove tra i clienti in fila, come da favola urbana deandreiana che si rispetti, non possono mancare né il prete né il boss del circondario, il potere spirituale e quello terreno. Concetta, questo il suo nome, emana una luce limpida, propaga un'armonia che riequilibra l'odio e la rabbia, rasserena, calma, addolcisce; con lei gli uomini parlano o si fanno abbracciare, addirittura piangono, abbandonano la loro parte aggressiva e tornano ad essere bambini bisognosi di una carezza, del contatto fisico che quel mondo rude e disperato ha estirpato dai 53825949_2381716232058553_6338901429977088000_o-1024x684.jpgpossibili desideri.

In quest'affresco caleidoscopico di toni tenui e azioni gravi, ecco Anna la maitresse tenitrice della casa chiusa (Joele Anastasi en travestì, anche drammaturgo), Don Saro il rais del quartiere (Enrico Sortino solido e convincente) ed altre figure (che impersonano Ivano Picciallo e Alessandro Lui) in un tourbillon di piccole coreografie che si trasforma in coro tra percussioni e ventagli, oppure corse e vestaglie in una musicalità che tutto riempie, dove importanti emergono la ritmica e il timbro del movimento intessuto con le luci, le parole, ora scarne adesso pennellate, intrecciate con le melodie e le arie, le sonorità degli oggetti, i fischi e i giornali svolazzanti, in un continuo vorticare attorno a questo giardino d'inverno (quasi un peep show di Amsterdam) o un piccolo palcoscenico dove si sale per tornare ad essere diversi, dove si entra per cercare quella felicità lontana nel tempo, dentro il quale ci si fa volentieri fagocitare per ritrovare quel Paradise Lost che si è frantumato crescendo.

Concetta è una Circe benefica e benevola, una Santa (una sorta di Penelope Cruz nel ruolo di Italia in “Non ti muovere”), una sirena di fotoImmacolataConcezione_©ES18-1.jpgUlisse che circuisce i maschi solo per perdonarli delle loro miserie e dolori e mestizie. Questa ragazza che ha portato l'armonia, porta anche la guerra nel piccolo centro, conflitto scaturito dalla gravidanza (a seguito di uno stupro fuori dal bordello mentre era ubriaca, violenza che perdonerà amando l'autore del gesto, Turi, che diventerà suo compagno) della giovane (come fosse la Vergine Maria) che il malavitoso vuole far concludere con un aborto o con l'uccisione del bambino (come Erode). Il racconto della vicenda, intervallato con la leggenda di Colapesce, ci mostra l'involuzione degli uomini che, sacrificando come agnello pasquale la vita piena di celestiale grazia della giovane, tornano ad essere animali, perdono la loro umanità, si trasformano in capre con il campanaccio al collo (come tanti ciuchini nel Paese dei Balocchi o come, appunto, i maiali di Circe), tornano ad essere manichini governati dall'istinto, tornano ad essere le scimmie di “2001 Odissea nello spazio”. Come se questi uomini non avessero riconosciuto in lei quella forza alta e sovrannaturale, divina e salvifica, come il popolo ebraico non ha riconosciuto Gesù crocifiggendolo al pari dei due ladri.

Tommaso Chimenti 12/05/2022

NAPOLI – “Dedicato ai cattivi, che poi così cattivi non sono mai” (“Dedicato”, Ivano Fossati).

Il Teatro Bellini si è rifatto il look, le sale interne, gli arredi, gli uffici. Se questa estate era un cantiere aperto, i Fratelli Russo sono riusciti a fare il miracolo napoletano e a restituire alla città un teatro che è un fiore con due sale e un cartellone da fare invidia, per acume e scelte illuminate, nomi in un equilibrio tra novità, scommesse e nomi irrinunciabili del panorama italiano. Rifarsi il senno, 175-DonJuaninS.pngdiceva Bergonzoni. Partiamo da qui, dal primo titolo messo in programma, la produzione di casa, questo “Don Juan in Soho” vera e propria bomba pronta a deflagrare, a rompere gli schemi, agitare le acque paludate, scombussolare sistemi antiquati. Una vera scommessa (vinta) il testo dell'inglese Patrick Marber (l'autore di “Closer”) franco, diretto, spigliato, che va dritto al punto, schietto, contro i benpensantismi di facciata e i perbenismi di maniera. Quello che ci vuole adesso al teatro in questa difficile ripresa dove gli anziani (il vero zoccolo duro del teatro nostrano) ancora non si fidano a tornare negli spazi al chiuso e i giovani che sono più attratti dalle serie tv sulle tante piattaforme che hanno preso piede in questi anni e hanno prosperato durante la pandemia.

Siamo di 177-DonJuaninS.pngfronte ad un Don Giovanni contemporaneo, contestualmente ambientato nel quartiere cool londinese (forse il richiamo, e quindi il restringimento del campo immaginifico, ad un particolare luogo geografico potrebbe essere escluso per ampliare e universalizzare maggiormente l'idea) immerso nelle sue tante dipendenze, droga, alcool, donne, nel suo sistema valoriale senza valori, mosso dall'unica regola che è quella di non averne. Un impianto (ben diretto e calibrato dal regista Gabriele Russo; i Russo mangiano pane e teatro fin dalla culla) che ha messo al centro una grande pedana squadrata girevole (ricordate il Tagada dei Luna Park?) che vorticosamente ruota come roulette russa sul palco creando una doppia scena, dove sopra tutto gira e si sposta cangiante e mellifluo, niente ha un baricentro stabile, tutti si muovono nella spasmodica ricerca di un centro di gravità permanente dovendo continuare a muoversi (come fa lo squalo sul fondo marino) per mantenersi in piedi, dritti, in vita. Aggiungiamoci una grande colonna sonora (tappeto sonoro sarebbe riduttivo, di Alessio Foglia), costumi scintillanti (di Chiara Aversano) e uno splendido interprete, un Daniele Russo (fresco vincitore con “Le cinque rose di Jennifer” di Ruccello alle Maschere del Teatro Italiano) esplosivo showman, carico, deciso, sempre più consapevole dei propri mezzi, centrale perno iconico che tutto smuove in scena, che dà ritmo e cadenza, che sposta e accentra, delizioso e sagace, tremendo e odioso: una felice interpretazione pungente e caustica nel doppio registro, spumeggiante e anima nera.

Attorno a lui una compagnia di una decina di elementi (novità: al Bellini è nata una Factory, mentre la scuola al suo interno sarà diretta da Mimmo Borrelli e alla direzione creativa c'è Andrea Esposito) tutti in palla, tutti calibrati per supportare 178-DonJuaninS.pnge sostenere un lavoro dalle molte sfaccettature, che può essere gustato e apprezzato in svariate stratificazioni di senso: vi si può cercare e trovare una critica al nostro tempo, ci si può concentrare sulla sua anima più superficiale, si possono contemplare e fare proprio lo stile di vita dissoluto del protagonista e il suo essere contro l'ipocrisia dominante, si può rimanere affascinati da questo personaggio così teatralmente assolutizzante e romanzescamente estremo, si può cadere nella tentazione di giudicarlo e sentirsi migliori, si può, infine, ascoltare e vedere come in questo stereotipo umano possano confluire le due grandi parti, di luce e di ombra, di bene e di male, che albergano e respirano in ognuno di noi, e ci muovono, a tratti con difficoltà e sensi di colpa, in ogni nostro passo, in ogni bivio che l'esistenza ci mette davanti.

Della compagnia sottolineiamo la forza plastica di Enrico Sortino, il Ricky Martin del teatro italiano, Alfonso Postiglione, il lacché e ruffiano di corte, alter ego e perfetta antitesi del protagonista, Mauro Marino, attore di peso (ci ha ricordato fisicamente Mario Brega), Arianna Sorrentino che dà brio, Noemi Apuzzo, la fidanzata illibata del Don Giovanni, Federica Altamura, protagonista della scena della coatta, la più spassosa ed elettrizzante, sensuale ed eccitante.

Un'opera (che arriva direttamente da Moliere e Mozart ma con un gusto e un fascino tutto londinese per l'eccesso, anche di stampo linguistico che alle nostre latitudini cattocomuniste non sciocca ma sempre leggermente imbarazza) che ci mette di fronte uno specchio e ci intima di guardarci dentro, ci dice di riflettere senza puntare il dito, ci dice non di immedesimarci ma di comprendere debolezze e limiti dell'essere umano (che comprende anche noi stessi, evidentemente); potremmo riassumere questa lezione nella frase “Ogni persona che incontri sta combattendo la sua dura battaglia di cui non sai nulla: Sii gentile, sempre”, che sia attribuita a Platone o a Carlo Mazzacurati o a Ian McLaren.

L'inizio 179-DonJuaninS.pngè la fine della pièce in un senso di circolarità molto cinematografico. Il testo è un progressivo scendere nel buco nero, nel pozzo, nell'abisso di questo Mefistofele moderno talmente depravato e pervertito, maledetto e contorto da tenerci lontano, ammirandone a distanza le doti d'amatore e conquistatore insensibile ma rinnegandolo e prendendo come punto di riferimento per quello che non siamo e che non abbiamo voluto (o potuto?) essere. Il nostro Faust kamasutrico soffre (o s'offre) di tutte le dipendenze-addicted in una crescente patologia che lo spinge sempre più nell'imo recondito in questo incubo dalle fattezze distorte psichedeliche del sogno, oltre la linea del non ritorno. 181-DonJuaninS.pngE' un Satana in carne ed ossa, infedele e bugiardo, senza principi che non siano quelli della sua soddisfazione carnale, dei suoi capricci infantili, un Satiro marcio, senza ritegno, cattivo senza vergogna, corroso dai suoi demoni. Con Stan, il suo aiutante, un Alfonso Postiglione perfetto viscido servizievole doppiogiochista, formano una coppia da mettere a fianco di altre più celebri: Batman e Robin o Sherlock Holmes e Watson, in un lieto incastro sia interiore che di phisique du role. In questa compulsività che diventa malattia conclamata, in questi costumi scellerati da narcisista caterpillar dei sentimenti altrui, egotico, autoreferenziale crudele ed egoista viziato all'ennesima potenza, nelle mosse perennemente corrotte di questo Lucignolo pericoloso e Lucifero dissoluto, arrogante, impunito e impetuoso e presuntuoso angelo caduto nel fango che tutto e tutti guasta, contamina, lorda e avvelena, però si apre la breccia della considerazione finale se, paradossalmente, sia più coerente il suo sistema di vita così palesemente e in maniera lampante spinto dall'onesta volontà dell'istinto senza pensare alle conseguenze e al domani, o la visione più consuetudinaria e comune (altrimenti immaginate il caos sociale) del controllo sociale calmierato che tutti muove, ovvero l'ipocrisia, del fare basta che non si sappia in giro, delle strategie, del muoversi sempre sul filo del segreto, del non-detto rispettando quei valori di comunità, famiglia e società che ci legano indissolubilmente agli altri nel nostro piccolo e consolatorio e radicato sistema di relazioni faticosamente tenuto in piedi. Chi è più puro tra la cosciente e intenzionale esagerazione e il vorrei ma non posso delle "brave persone"?

C'è energia hot e pop, ritmo hard ed eccitazione osé in questo up and down continuo di sensazioni tra squallidumi in quantità e richiesta di perdono, tra eccessi smodati e ripiegamenti verso le preghiere e i “cambierò” (ci ha ricordato il pentimento del cattivo Scrooge di “Canto di Natale” di Dickens), in questa altalena che ci prende, ci scuote dal nostro candore giudicante. Divertimento puro, per gli occhi e per il cuore, di pancia e cervello. Cuore di tenebra.

Tommaso Chimenti 04/11/2021

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