Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

                                                                                                             

×

Attenzione

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 768

Il progetto teatrale DonneTeatroDiritti ideato e diretto da Annig Raimondi andrà in scena in prima assoluta il 14 maggio al PACTA Salone di Milano con lo spettacolo “La Monaca di Monza, alias Suor Virginia Maria alias Marianna De Leya”. Ci immergeremo tra le riscritture drammaturgiche di Manzoni, Diderot e Stendhal. Il progetto in questione deriva anche dal palinsesto del Comune di Milano “Manzoni 150”. Il racconto ci porterà all’interno di un convento, una grata immensa che rappresenta l’ostacolo per una storia d’amore. Qui è la Monaca di Monza, personaggio complesso, che riassume e rievoca molte caratteristiche dei diversi personaggi delle suore fra ‘600 e ’800, dalla cronaca scandalosa alla letteratura, da Enrichetta Caracciolo a “La religieuse” di Diderot, alle monache napoletane portate in luce da Stendhal. La monaca diventa emblema di un’opposizione ai compromessi e alla violenza della società, di uno spirito moderno in cerca d’identità e libertà, portavoce di una contestazione verso i poteri civili e politici. Una donna che non vuole più amare solo Dio.
L’ideazione della Raimondi non termina qui. Infatti dal 19 al 28 maggio seguirà “Shocking Elsa” di Livia Castiglioni con la regia di Alberto Oliva in cui vedremo esibirsi l’icona italiana della moda indipendente Elsa Schiaparelli, artista rivale negli anni ’30 di Coco Chanel. Mentre il 29 maggio in collaborazione con Festival delle Abilità, sarà il turno di “Siamo tutti un passaggio nel mondo” di Emanuela Botti per testimoniare la gioia del vivere in totalità, una contrapposizione con la violenza che soffoca ogni pensiero; infine il 31 maggio, “Funamboli”, un’opera funambolica sul baratro della modernità, prodotta dall’Associazione Culturale Tarmeh con la regista e performer Aram Ghasemy e altri artisti iraniani.
Il carattere innovativo del progetto è l’ideazione di un cantiere culturale permanente che porti ad azioni concrete nell’ambito del sociale e che riesca a supportare situazioni ‘ai margini della società’, interagendole con la filiera non solo culturale, ma anche della comunità. Tutto questo rappresenta uno stimolo alla partecipazione diretta da parte delle persone ‘diverse’ o svantaggiate. Oggi come oggi è importante istituire dei ‘campi di ricerca’ con la funzione di collettori che contengono le azioni necessarie perché si riconoscano soggetti protagonisti, di pari dignità e con possibilità di riscatto sociale e culturale.

Carmela De Rose  11/05/2023

MILANO – Esiste il “fine pena mai”, l'ergastolo per i più irriducibili e intransigenti criminali, e poi questo “Fine Pena Ora” che il regista sensibile Simone Schinocca ha messo in scena dopo una lunga gestazione. Incuriosito e coinvolto, affascinato e innamorato della storia epistolare tra il magistrato che aveva firmato la condanna e il carcerato (storia reale con i due protagonisti ancora in vita) che si sono scritti per trentotto anni prima di incontrarsi. Dal libro omonimo (ed. Sellerio) scritto dal giudice Elvio Fassone prima ne fu tratta una piece, per la regia di Mauro Avogadro, con Paolo Pierobon nelle vesti del detenuto (prod. Piccolo di Milano), poi Luca Zingaretti provò a trarne senza risultato un lungometraggio e infine il regista torinese della compagnia Tedacà è riuscito a riportare questo strano incontro tra due uomini dai valori agli antipodi al centro di un palcoscenico. Recentemente, a tema carcerario, per il grande schermo è stato girato “Aria ferma” e la serie “Il Re”. Da un lato un uomo condannato per oltre quindici omicidi, dall'altra un uomo probo, proprio colui che ha deciso la sentenza (non certo un “giudice” come lo descrisse De Andrè), che un giorno comincia a scrivere al detenuto aprendo il Vaso di Pandora, scoperchiando un rapporto che va avanti tuttora. Salvatore, questo il nome reale dell'ergastolano, non ha mai chiesto sconti di pena, non si è mai pentito, non si è mai dichiarato innocente, non ha chiesto perdono alle famiglie degli uccisi, non ha mai rinnegato Cosa Nostra, anzi è orgoglioso del suo silenzio, della sua omertà, di non aver mai parlato con7699_2.png la giustizia né aver fatto nomi, di non aver fatto la spia o, come si dice in gergo, “l'infame”.

E' proprio in questo solco tra due mondi distanti e impossibili da far coesistere nella stessa stanza che è avvenuto il miracolo dell'unione fatta di fogli di carta scritti rigorosamente a mano dove due persone di estrazione, formazione, vita vissuta così diametralmente opposta, si sono ritrovati in un terreno comune, il foglio bianco da riempire per raccontarsi, aprirsi, trovare nuove strade di comunicazione, di empatia. In una cella fatta da sbarre di corde con nodi come fossero tanti rosari appesi alle carrucole, corde che sembrano ragnatele o pentagrammi verticali (e i nodi le note) a creare un'opacità che non permette una visuale libera all'interno, un uomo (Salvatore D'Onofrio è pugnace e d'impatto, muscolare e di presenza solida nell'accogliere su di sé questa figura così “estrema”) rantola su una panchina. Intorno a lui si affolleranno visioni e fantasmi, apparizioni della compagna come dell'uomo di legge, epifanie che verranno a trovarlo, affacciandosi a quel mondo claustrofobico e minimale. Un sogno a tratti d'incubo. Un uomo dei clan, condannato in un maxi processo insieme ad altri 250 imputati, che si scrive di nascosto (se si sapesse all'interno dei corridoi del carcere sarebbe come firmarsi una condanna a morte) come ad un'amante segreta. Non si sa se per tenerezza o per senso06_Fine-pena-ora_ph-Emanuele-Basile-scaled.jpg di colpa, sarà proprio il magistrato (in scena Giuseppe Nitti in toga, attento e rigoroso, si muove fuori dalla frontiera di funi e cavi) che lo aiuterà con consigli pratici su come compilare le richieste per i permessi. Un senso di colpa non in quanto mano che ha deciso gli anni di punizione da scontare ma per la fortuna che alcuni hanno di nascere in alcune città e luoghi e in alcune condizioni familiari ed economiche, potendo studiare, rispetto ad altre fasce della popolazione che sono più soggette a cadere in mano, per povertà, analfabetismo e scarsa informazione, alla criminalità. La frase è “Se io nascevo dove è nato lui” che è un mettersi nei panni dell'altro, senza giustificare in maniera buonista le azioni ma considerando le attenuanti e anche che nessun uomo nasce cattivo o sbagliato o delinquente ma è un mix di habitat, famiglia, società e privazioni che lo portano sulla cattiva strada.

Il giudice muove il primo passo sulla scacchiera delle mosse tra i due regalando al carcerato “Siddharta” di Hermann Hesse 04_Fine-Pena-Ora_ph-Mauro-Biondillo.jpgche prima di allora non aveva mai letto un libro e nessuno gli aveva mai donato niente. Scatta qui il rispetto e l'onore tra i due, senza che mai comunque il detenuto scenda a compromessi con l'autorità. Il sempre appassionato, competente e concreto Schinocca (in questa produzione targata Tedacà, Stabile di Torino con Festival delle Colline Torinesi) non fa un elogio del detenuto, non ne fa un'agiografia ma punta la messinscena sugli uomini e i loro sentimenti, su questo incrocio fatto di lettere tra una persona colta e un semianalfabeta che in definitiva sono due facce della stessa medaglia. La gioventù che se ne va, le attese continue, gli spostamenti da una struttura ad un'altra, i rinvii o le cancellazioni dei permessi per fatalità o contingenze, il 41 bis, le visite della compagna (Costanza Maria Frola, in un doppio ruolo, carica di verità scevra da pathos ed enfasi). Quella stessa “moglie” che gli arriva in sogno con l'abito da sposa e che, nella scena più toccante e intima, il tulle soffocherà l'uomo come stretto, asfissiato in un bozzolo ormai inerme, sconfitto. La pena non finisce neanche adesso per Salvatore ma gli uomini cambiano e si può essere “uomini d'onore” anche soltanto scrivendosi lettere.

Tommaso Chimenti 10/05/2023

Foto: Emanuele Basile

MILANO – Sono i due interpreti che più hanno impressionato positivamente al Milano Off Fringe Festival per presenza scenica, carica emotiva, padronanza del palcoscenico, per le loro storie toccanti e struggenti, per la consapevolezza fisica e drammaturgica. Stiamo parlando di Sergio Del Prete, attore campano protagonista di “Sconosciuto”, e Pierluigi Bevilacqua che ci ha portato dentro le spire foggiane di “Frichigno!”. Due storie che hanno molto in comune: ovviamente quello che salta agli occhi è questo Sud che è poco madre e molto matrigna, un Sud che corrode lentamente i suoi figli, che toglie la terra da sotto i piedi, che incastra, impantana, ti affoga nel fango, ti lascia nelle sabbie mobili senza fune, impotente, senza forze, prosciugato. Un Sud lontano dalle cartoline dei turisti che d'estate accendono le luci su sole e mare mentre durante l'anno tutti si scordano, o non vogliono vedere, quello che succede nell'immobilismo, nell'omertà, nell'impossibilità di un futuro degno di questo nome.

E da qui nasceSconosciuto.jpgSconosciuto. In attesa di rinascita” di e con Del Prete, attore solido, che fisicamente riempie il piccolo palco di led a creare un recinto luccicante, che abbaglia quel che non puoi fuggire, la tua sorte che ti insegue come la tua ombra e che non puoi lasciare, che non riesci ad abbandonare. In fondo un'apertura a semicerchio quasi cuccia da cane, tenuto alla catena, forno per passare guccinianamente dal camino, o bocca dell'utero, partorito nuovamente con fatica e sudore e sangue. Come sottolinea il titolo questa è, dovrebbe essere, una rinascita, nuovamente risputato, e rispuntato, alla vita. Ed è un incedere di violente parole d'angoscia e attimi dove la parola d'ordine è “paura”, paura di perdersi, paura di non sapere chi siamo, paura di andare come paura di restare, sempre sospeso, traballante, claudicante tra mille forse, zoppicante tra vorrei irrealizzabili e creduti lontani e impossibili da raggiungere.

In questo clima, in questa periferia, in questo grigiore che dai palazzi arriva a macchiare e lordare anche le pareti dell'anima, la speranza è la prima ad arretrare, a scomparire, a chinare la testa di fronte a quel mondo fisso, eterno, che pare statuario, nell'impossibilità di cambiarlo, nell'impossibilità di felicità, nell'impossibilità di realizzarsi come persona, come individuo, cercando qualcosa in più del sopravvivere e dell'arrivare a domani. Una Napoli lontana anni luce da pizza e sole, da Vesuvio e Maradona, forse più vicina ai fondali naturali di Gomorra o a quelle Vele che non volano. Quello che ci dice Del Prete (ha il phisique du role di Raiz degli Almamegretta), investendoci con le sue parole di battaglia, è un mondo purtroppo già visto e sentito, ma l'attore ci mette forza e convinzione, rabbia e lacrime, una sorta di miserere e buoni propositi che si incagliano negli spigoli oggettivi della realtà sempre Sconosciuto. in attesa di rinascita.jpgpiù acida e fastidiosamente appuntita, scarnificante. C'è poesia e risentimento, rassegnazione e abbattimento, e ogni volta che vede un piccolo barlume nella sua progressione drammaturgica subito rincula verso un abisso consuetudinario a macerarsi nel solito porcile che sterilizza i sogni, che toglie le energie necessarie per poter pensare di cambiare le cose. Le key board sono il non sentirsi adeguati a nessuna situazione, il non ritenersi degni e adatti, la bassa autostima, il vivere con il freno a mano tirato in un continuo vorrei ma non posso logorante, stancante, sfibrante, ammorbante, deludente pieno di solitudine, di desideri ammosciati, di luci fioche, di zero soddisfazioni, con il domani uguale a ieri, con l'oggi in loop impercettibilmente peggiore di ieri. E i debiti e le mancanze e un intorno che propone orizzonti di rifiuti e televisori accesi sul nulla colorato che trabocca manesco e urlante dai vari canali starnazzanti, i silenzi di schiamazzi vuoti che fanno male, “terra bugiarda, terra di veleno, terra in cui l'amore non basta”. “Come fai a riconoscere la bellezza se cresci in mezzo ai palazzi abusivi?”. E' il ghetto che ti mangia, è la distanza che ti tiene lontano, che ti emargina, è l'assenza di abbracci, è quella mano allungata che non riesce mai a toccare l'oggetto del desiderio che diventa sempre più piccolo inasprendoti, inacidendoti, incattivendoti, spezzandoti dentro. Sergio Del Prete, immerso in una bella scrittura pungente, ci racconta queste “nostre vite scassate”, con la furia, tenera e allucinata, di un De Niro in “Taxi Driver”, con decisione, risolutezza e chili di personalità.

Stessa pasta e impronta per “Frichigno!” (Piccola Compagnia Impertinente, testo ricco di Enrico Cibelli): stavolta siamo a Foggia, anni '90, e Pierluigi Bevilacqua (corpulento e corposo, in una parola: di sostanza) dà spazio al suo repertorio che miscela comicità esondante nella prima parte alla quale segue un'amara riflessione acre in quella conclusiva. Illuminante e geniale l'incipit, la molla che tutto fa scattare, l'incastro di due personaggi lontanissimi, uno del grande panorama mondiale, l'altro, anche se ugualmente pubblico, vicino, terreno, tangibile, locale. Come avere un binocolo e poter vedere Seattle e l'intorno a te e poi metterli insieme, sullo stesso terreno comune, nella stessa diapositiva. Miscelare Kurt Cobain, eroe musicale con la sua fine annunciata che aveva distrutto l'era del rock e del pop con il grunge e sovvertito le regole dell'establishment musicale, con Zdenek Zeman, allenatore di Praga, contro i poteri forti, allenatore del Foggia dei Miracoli. Li accomunano gli stessi anni, nel '94 Cobain si spara, la stagione di serie A '93-'94 è l'ultima di Zeman con la squadra pugliese rossonera; e il frontman dei Nirvana e il Boemo vivono dentro, come ribellione, come rivalsa, dentro gli occhi e il petto di un adolescente che trova in queste due “divinità” un appiglio, un antidoto alla solitudine in una città sempre descritta dal Sole 24 Ore come maglia nera d'Italia per mancanza di lavoro, prospettive, qualità scadente di vita, dei servizi, abbandono scolastico, criminalità, fiducia nelle Istituzioni. E Zeman, con la sua squadra tutta votata all'attacco, è come se dicesse a questo ragazzo, e a tutti i foggiani, che finalmente “possiamo pensare in grande”, che “ce la possiamo fare”, che “non siamo sempre gli ultimi”.

La genesi di Frichigno poneFrichigno.jpeg le sue basi con gli americani venuti a liberare lo Stivale dal Nazi-Fascismo: giocando a calcio, quando c'era un fallo il soldato a stelle e strisce gridava “free kick”, ovvero punizione, facile la trasposizione per assonanza in frichigno che, se si vuole, sembra più ricordare un giocatore brasiliano tutto dribbling ubriacanti e colpi di tacco. Se nella prima tranche Bevilacqua è associabile a Checco Zalone (soprattutto quando canta l'inno del Foggia strimpellando, male, le corde di una chitarra), nella seconda si trasformerà in Roberto Saviano. Zeman che porta la fantasia al potere, che è contro il doping e contro il sistema Juventus, uno che non si piega pagandone le conseguenze, uno che non è omertoso, che insegna che, con la fatica e sudore, i risultati si possono ottenere. E Zeman cambia la percezione del mondo per i ragazzi di Foggia di allora, gli dice quello che gli adulti, la scuola e la politica non sono riusciti, o non hanno voluto, dire loro: bisogna lottare, rimboccarsi le maniche, sudare, e dove non si arriva con il talento si può arrivare con la corsa, con la tenacia, allenandosi più degli altri, perché se ti impegni tutto diventa possibile, se rispetti le regole: “Il risultato è casuale, la prestazione no” è l'emblema che se fai le cose per bene prima o poi verrai Pierluigi-Bevilacqua-1068x713.jpgpremiato senza dover scivolare nel vittimismo. Zeman ha ridato una verginità ai foggiani (e al Sud), non li ha fatti più vergognare di ciò che erano, gli ha dato un motivo d'orgoglio, di appartenenza: “Non avevamo più paura”, “Esistiamo anche noi”.

Ed è in questo nuovo clima di giustizia e di voglia di farcela, di rialzare la testa e urlare al mondo “Ci siamo anche noi”, che si interseca l'ultima coraggiosa parte, quella dove Cibelli-Bevilacqua (in una drammaturgia sempre organica e viva) fanno i nomi e i cognomi delle famiglie che da decenni annientano e soffocano Foggia con bombe e strozzinaggio, minacce e pizzo, tangenti e corruzione, attentati e omicidi, rapimenti. Cose che non escono sui giornali, fatti che non arrivano al grande pubblico perché la Puglia è bella, la Puglia sono i trulli e il Salento, ci sono le masserie e i vip, e “lu sule, lu mare, lu ientu”. E' un j'accuse feroce e dritto, senza sconti, senza scorciatoie, con i responsabili chiamati uno per uno, con i tanti, troppi istituzionali “la mafia non esiste”, con il Comune, unico esempio, che non si costituisce parte civile nei processi contro la criminalità organizzata. Il '94 è la fine delle illusioni, l'entrata nel mondo degli adulti, la fine dei giochi, muore Cobain, finisce l'era Zeman e tutto ritorna grigio come prima, sbiadito. E' un urlo per la propria città, per la propria adolescenza che qualcuno si è rubato. A livello italiano dopo Tangentopoli, e l'ondata di proteste e il desiderio di pulizia, arriverà Berlusconi: “La nostalgia è un album da colorare già colorato”. Emozionale, motivazionale.

Tommaso Chimenti 28/09/2022

Foto "Sconosciuto": Guido Mencari

Leggi qui il resconto su Milano Off Fringe Festival: https://www.recensito.net/teatro/milano-off-fringe-festival-resoconto.html 

MILANO – Francesca Vitale, direttrice del Milano Off Fringe Festival assieme a Renato Lombardo, in questi ultimi anni ha viaggiato per il mondo (da Edimburgo a Orlando fino ad Adelaide) per capire, studiare strategie e portare in Italia un modello di fringe che si potesse adattare all'Italia. Nelle ultime stagioni molti ne sono nati, da quello di Roma a quello più organizzato di Torino. In quest'ottica, con il Milano Fringe attivo dal 2016, quest'anno nascerà, sempre diretto dalla stessa organizzazione, anche il Catania Off Fringe nel mese di ottobre. Questa edizione è stata molto più strutturata, composita, dettagliata delle precedenti con ventiquattro diversi spazi dislocati in città, 56 spettacoli diversi (dal 18 settembre al 2 ottobre), un sito ben curato e preciso (milanooff.com), tanti convegni mirati e workshop professionali, due giurie, quella degli esperti del settore e quella dei giovani, e soprattutto grandi premi per i vari vincitori per esportare il proprio lavoro: il premio della “Giuria dei ragazzi” di 1000 euro, il premio “Valore Italia”, il premio “Avignon Le Off”, con ventun giorni di repliche nel famoso fringe francese, il premio “Soho Playhouse” con due settimane di repliche al fringe di NY tutto spesato, il premio “Hollywood Fringe” a Los Angeles, il premio “Barry Church” con partecipazione al “Fringe di Edimburgo”, il premio “Gothenburg Fringe” per partecipare al concorso svedese, il premio “Stockholm Fringe” per esibirsi nella capitale scandinava; e ancora il premio “Palco Off Catania” con repliche al fringe siciliano, il premio “Binario 7” con una data nel teatro monzese, il premio “Teatro Factory 32” con una recita nello spazio milanese, il premio di formazione internazionale “SRSLY”. Un bel quadro, una grande prospettiva di crescita, una spinta di promozione ottimistica per tante giovani compagnie.

Si sa, nei fringe in giro per il mondo, la miglior scelta è buttarsi nel teatro fisico, nel muto, nel gestuale. Questa la scelta del gruppo austriaco Lemour che qui, selezionati dal fringe di Goteborg, Balloon adventures.jpeghanno presentato “Love's left hand” un lavoro che, confusionariamente, ha miscelato danza, circo, comicità in un frullatore che, senza il supporto della musica, onnipresente, decade e si sgonfia inesorabilmente. Una sorta di presentatrice che propone gag ormai abusate e vecchi numeri di cabaret ammicca al pubblica, gioca con il cilindro, tra mosse, mossette, risatine, si mette una barba finta, si atteggia. La drammaturgia è soltanto musicale e nei rari momenti di pausa si sente tutto il gelo del vuoto che si amplifica e si spande dal palco alla platea, il pubblico cade in depressione perché il vuoto cosmico e siderale morde le caviglie. Guardiamo l'orologio ma il tempo, quando ci si diverte, non passa mai. Se voleva far ridere non ci è riuscito. Ma è un lavoro, fatto con la mano sinistra, che ha anche delle pretese: irrompe in scena una coppia che nell'arco di un minuto ha finito la sua parabola esistenziale di incontro, conoscenza, amore e separazione. Non risulta nemmeno infantile perché anche i bambini lo avrebbero trovato banale e sciatto. Non riusciamo a trovare un appiglio, nessuna salvezza arriverà in nostro soccorso. Tocca rimanere fino alla fine per vedere se ci stiamo sbagliando: ecco che imperversano balletti non sense tra la figlia depressa per essersi lasciata dal fidanzato e la madre mentre il compagno resta inspiegabilmente per un buon quarto d'ora sotto il lenzuolo disperato e temiamo che invece non stia soffocando. La madre si veste come il fidanzato (in una sorta di transfert da Psycho al contrario) e il tutto ha un gusto rancido tra il trash e l'incomprensibile. Ma una è la domanda più pressante che ci ronza in testa: perché tutti e tre gli interpreti hanno i calzini bucati? Non lo sapremo mai, come il terzo segreto di Fatima: insvelabile. Il teatro è moribondo, il pubblico allibito, esterrefatto, restiamo increduli tra il soporifero e pesanti silenzi. La recitazione questa sconosciuta. Senza parole era lo spettacolo, senza parole siamo rimasti noi.

Di tutt'altra pasta “Ballon's Adventures” del Collettivo Clown, certamente uno spettacolo per i più piccoli ma che mai scade nella stupidità del gesto, nel facile, nel triviale; invece ha pennellate, poesia, leggerezza, gentilezza, garbo. Già a partire dai costumi dei due interpreti, uno in giallo e l'altro in blu, una chiara presa di posizione cromatica a favore dell'Ucraina. In scena una grande mongolfiera, che muovono con i piedi come fa Fred Flintstones con la sua auto in pietra, e questi due clown goffi e incerti, sbadati e caotici, “sbagliati” come tutti i pagliacci, dalle scarpe grosse e dal cuore altrettanto ampio che si fanno i dispetti ma sono legati da profonda amicizia. Con dei semplici palloncini allungati e cilindrici compiono trasformazioni alchemiche: diventano gabbiani, poi un arco e racchette da tennis, volante di auto e cintura e tergicristalli, ombrello e sterzo di motocicletta, onde del mare e pesci, maschera da sub e pinnai fiori del nuovo mondo.jpg di squalo, bocca e orecchie di coniglio, salsiccia, fiore, ape e cane al guinzaglio (ricorda l'opera di Jeff Koons esposta al Museo Guggenheim di Bilbao), pappagallo sulle spalle dei pirati, fune, elica, spada, fin quando non vengono ingoiati e fagocitati dalle stesse gigantesche palle. Un messaggio anche ambientalista, per insegnare ai più piccoli che niente si crea e niente si distrugge ma tutto si trasforma. E che qualsiasi oggetto può portare felicità e stupore.

Due amici, legati da un doppio filo di dipendenza, sadico e masochista, sicuro e incerto, deciso e titubante, decidono di lasciare il nostro mondo e di imbarcarsi per altre terre forse cercando “I fiori del nuovo mondo” (compagnia Teatro Segreto, testo, interprete, regia e costumi di Ludovico Buldini). Arrivati la sera su una banchina in attesa di questa barca-Godot per salpare per altri lidi ci ricordano i migranti che lasciano tutto per cercare fortuna altrove: ma aspettano una barca a vela e il loro abbigliamento con polo, pantaloni bianchi e scarpe firmate li identifica più con Porto Cervo che con la Libia. La notte una tempesta shakespeariana sta per travolgerli e sommerge tutto tranne quel limbo di asfalto, quella boa di cemento che adesso (come l'abbazia francese di Mont Saint-Michel con la marea) galleggia in mezzo alle onde. Soltanto con una scatola magica-oracolo che contiene delle carte riusciranno a placare i marosi e i flutti confessandosi peccati per troppo tempo celati, mettendo sul piatto recriminazioni e colpe, aprendosi finalmente oltre l'ipocrisia di rapporti consolidati e incancreniti. Tra i due emerge attorialmente, e soprattutto una bella voce profonda, Diego Frisina, il personaggio timido e irrisolto. La storia è buona anche se quando si mischia il reale con il metaforico si rischia sempre di non essere credibili. La mattina dopo, quando è tornato il sereno, e i due protagonisti sono usciti indenni da questo sogno-incubo, riappare la strada e uno dei due prende effettivamente questa barca che arriva veramente a prenderlo; in quel momento il simbolismo decade e noi crediamo un po' meno a tutto l'impianto.

Pezzo generazionale, ma di valore e qualità, è questo “Mi ricordo”, del gruppo siciliano Barbe à Papà, scrittura e regia di Claudio Zappalà, con in scena tre brave protagoniste che tirano fuori dai loro magici cassetti ricordi d'infanzia che mischiano il piccolo particolare personale autobiografico con la grande storia che scorre con noi, attraverso noi, malgrado noi. Ne emerge un quadro per niente consolatorio della generazione under 30 confusa, con i sogni spezzati prima ancora di averli pensati o sperati, alla quale hanno tolto anche le illusioni, il lavoro, la pensione che non ci sarà, una generazione cresciuta in una scuola che non boccia più, in una università triennale a crocette che ti dà il pezzo di carta ma non forma, una generazione di ragazzi in balia di telefonini e falsi miti, like sui social e apparenza su Instagram. Un j'accuse. Tirano fuori i loro diari e appunti (hanno cazzimma da vendere e capacità interpretative Chiara Buzzone, Federica D'Amore e Roberta Giordano), come doni, come conigli da un cilindro delle meraviglie che però porta più lacrime che sorrisi, poesie, scatti di viaggi. Ne esce fuori insicurezza, incertezza sul domani, anzi voglia di vivere soltanto il presente perché il futuro, Mi ricordo - ph Vito Raia 3.jpeganche a breve gittata, fa paura, perché tutto è in rapido cambiamento e non si riesce a prendere le misure e questi ragazzi non hanno antidoti in uno dei Paesi con la più alta disoccupazione giovanile, dove i ragazzi non vanno a votare perché non si sentono rappresentati, dove è facile deprimersi e demoralizzarsi perché non si hanno orizzonti, perché la meritocrazia non è di casa qui, perché i migliori se ne vanno all'estero. Ed escono da questi parallelepipedi medaglie e cd, libri e sciarpe di squadre, polaroid e cravatte, cappelli. Sono giovani e sembrano parlare con una nostalgia canaglia di un mondo lontanissimo e soprattutto che non ritornerà, come se quella felicità non potesse tornare mai più. Si sente sfiducia e rassegnazione e un lasciarsi andare che fa male all'anima. Ma più che altro, la parola che torna più spesso è “paura” di un mondo che non c'è più e di uno che non si riesce né a costruire né tanto meno a vedere né immaginare.

E' complicato quando continuamente ti cambiano le regole sotto al naso e tutto si muove troppo velocemente e tu non sai, anche perché nessuno te lo ha insegnato, come muoverti, in quale direzione andare in questo deserto dove se la cava chi ha le spalle coperte o talenti sopra la media: ma tutti gli altri? Rimangono in quella vaghezza che va ad ingrossare il fiume degli insoddisfatti, dei consumatori compulsivi, degli infelici che si sfogano sulla tastiera. “Quello che oggi sembra imprescindibile domani sarà dimenticato”, “Quello che oggi sembra importante domani ci sembrerà ridicolo”. Senza punti di riferimento, in balia delle onde, in mezzo a cambiamenti che non si sanno fronteggiare, senza scialuppe di salvataggio è normale annaspare, galleggiare a stento se va bene, o perdersi nel vittimismo o peggio ancora nel nichilismo. I ricordi fanno male perché ti portano nel terreno caldo familiare quando tutto era più piccolo e certo, quando le responsabilità erano ovattate, quando tutto era più semplice. Questi ragazzi sembrano siano senza pelle, più soggetti alla sofferenza, senza rimedi né farmaci contro questo mondo globalizzato che ogni giorno sembra sempre più grande tanto da soverchiarli, fagocitarli in un solo boccone, dove tutto è da consumare e in fretta altrimenti si perde, si sciupa, si rompe o qualcuno ce lo ruba: “Sarà così spaventoso il futuro?”, si/ci chiedono. Non possiamo rassicurarli, purtroppo. “Perché a vent'anni è tutto chi lo sa, a vent'anni si è stupidi davvero, quante balle si ha in testa a quell'età”, diceva Guccini indossando il suo “Eskimo”. Non viene da condannarli questi ragazzi, verrebbe invece da abbracciarli. Sarebbe bello dire loro “Andrà tutto bene”, ma anche i cartelli sui balconi accanto al basilico si sono sdruciti e sgualciti e scoloriti.

Tommaso Chimenti 26/09/2022

MILANO – “Tu vuoi l'America, che sta al di là del mare, tu vuoi l'America, che io non ti posso dare” (Edoardo Bennato). L'idea del regista Francesco Leschiera e del suo Teatro del Simposio è ambiziosa: indagare tre mostri sacri della letteratura americana attraverso drammaturgie originali scaturite da un mix tra le biografie dei personaggi e i loro capolavori. Se tre anni fa esatti debuttavano con il primo step della Trilogia su Carver (qui la recensione di “Ray. Con tutta quell'acqua a due passi da casa”: https://www.recensito.net/teatro/american-dream-ray-carver-francesco-leschiera.html), il secondo capitolo è stato incentrato su Tennessee Williams mentre il terzo sarà su Truman Capote. Sullo sfondo gli anni '60 con alcune particolarità da sottolineare che fanno da comune denominatore delle tre messinscene: la scenografia sarà la stessa (un tavolo e poche sedie e una madia) come a dire che l'humus culturale, storico, economico sia lo stesso, tre saranno sempre i personaggi in scena, e sempre saranno presenti alcool e fumo. Con queste linee di demarcazione, con questo recinto strutturale e concettuale, sia per quanto riguarda il trattamento su Carver sia questo su Tennessee Williams, “Whisky Circus”, scritto da Zeno Piovesan (visto al Teatro Linguaggi Creativi vicino ai navigli milanesi), possiamo affermare che centrale sia questa grande sofferenza e disillusione, una tristezza che si trascina, un baratro che si spalanca sempre più sotto i piedi, nessuna via di fuga, 

6461.jpgnessuna alternativa né strada parallela da percorrere o intraprendere e l'abisso che si avvicina a grandi falcate senza che nessuno dei protagonisti abbia la forza e l'energia, l'entusiasmo, il desiderio di scansare il precipizio ma anzi, vittimisticamente, ricercano la sconfitta, la caduta senza possibilità di potersi rialzare.

Qui, in un disegno di dramma domestico quasi da cabaret o da varietà con le lucine accese sul boccascena, siamo all'interno di un Luna Park stralunato, di un Circo tragico e ambiguo composto da un solo numero in una piccola stanza di un appartamento. Uno zio (Ettore Distasio sul palco è enigmatico e sobillatore), che ha i tratti dell'incestuoso e del padre padrone, che potrebbe essere simbolicamente lo Zio Sam, l'America stessa con cappello e divisa a stelle e strisce, un'America che illude ed esalta, che stritola e corrompe, che svuota, che possiede, che usa e sfrutta, che spolpa con le sue false abbaglianti bagliori e fulgori che camuffano e trasformano la realtà, uno Zio Sam che ti liscia con le sue bugie fino a farti capitolare, che ti convince come un serpente a sonagli fino a portarti nella sua tela e rete, che ti manipola anaffettivamente fin quando non ti ha depredato di tutti i tuoi averi e valori, fin quando non ti ha derubricato a cosa, ad oggetto da muovere a proprio piacimento. In questa sorta di boudoir di quart'ordine, sciatto e squallido, sporco e unto, viscido e maleodorante dove è il disagio ad essere il vero prim'attore, una ragazza, una contorsionista ormai però annebbiata dall'alcool e depressa e senza più volontà, incontra, con il placet dell'esattore zio che le procaccia i clienti come ruffiano e pappone, clienti che pagano per restare soli con lei, per assistere ad un numero che non esiste più.

La Sogno-americano--678x381.jpeggiovane (Greta Asia Di Vara ha innocenza e oscurità) è l'unica superstite dei freaks di questo mirabolante e fantomatico circo viaggiante, quest'epoca dorata (che forse non è mai esistita) della quale si vanaglorifica lo zio intrallazzone e affarista senza scrupoli. Sono personaggi fragili e indifesi, ognuno dipendente dall'altro. La ragazzina ha addosso lo strazio e il tormento dei volti femminili di Vermeer, ha tatuato nell'anima il fallimento, ha abbracciato la perdita, ha sposato il progetto dello smacco perenne e imperituro, si è votata al tracollo. Vive rannicchiata in un cubo di vetro (anche questa immagine potente di alto simbolismo) rassegnata come un rettile in una teca aspettando che la tirino fuori per l'esibizione desolata e misera della sera, una campana di cristallo che finge di proteggerla dai mali dell'esterno ma che anzi, al contrario, la fa essere carne da macello in mostra, in vetrina al miglior offerente, esposta alla mercé come oggetto in prestito, affittabile, cosa, prodotto da poter utilizzare. E' sempre impaurita e titubante, spesso ubriaca in preda alle sue ansie e frustrazioni come alle sue convinzioni che, in perfetta linea con la Sindrome di Stoccolma, la fanno parteggiare per lo zio sfruttatore, irradia attorno a sé la sua aria mesta, la sua cappa lenta di disfatta, lei che è “il contrario di un angelo”, che è “un pugile all'angolo”, che “vive dentro una prigione”, che “per un ti amo mischierebbe droghe e lacrime” ma che non sa più che cosa sono i “brividi” immersa nell'abbandono e nella desolazione quotidiana in questo mare di schifo che fa male solo a pensarlo, che ferisce al solo annusarlo.

Nell'incastro patologico tra lo Zio e la nipote entra ad interrompere il rapporto, fatto di violenze e sopraffazioni come di 6461_5.pngminacce e intimidazioni psicologiche, il Cliente (Mauro Negri haberiano) che paga e che, come nelle migliori tradizioni, la vuole “salvare” e portare via da tutto quell'ammasso di ribrezzo, sporcizia, indecenza e disgusto che ti si attacca alla pelle come grasso indelebile. I due uomini contrattano sulla pelle della ragazza, come fosse una merce da poter comprare o vendere a seconda del punto di vista. Manca l'amore e il rispetto. Quasi si percepisce l'odore di quella povertà che prima di essere economica è interiore. L'atmosfera sa di polvere e disfacimento e sembra uscire direttamente dalle pagine dello “Zoo di vetro” come da i “Blues”. Sono strazianti e devastanti questi spettri marciti nel senso di colpa, contaminati dal non avere un futuro da sognare, impantanati e infangati in questo “Sogno Americano”, il titolo della trilogia di Leschiera e compagni, che si fa sempre più incubo urlante, affannoso e opprimente, in questa discesa agli inferi, in questa schianto e tonfo sordo nel tunnel nero della perdita dell'autostima, nella vergogna, nello sfruttamento. Sono tre facce di una stessa medaglia, derelitti, affranti con aspirazioni azzerate, con ambizioni svilite, conigli sacrificali sull'altare dei soldi.

“E in faccia ai maligni e ai superbi il mio nome scintillerà, e dalle porte della notte il giorno si bloccherà. Un applauso del pubblico pagante lo sottolineerà e dalla bocca del cannone una canzone suonerà” (Francesco De Gregori).

Tommaso Chimenti 09/04/2022

MILANO – Quello che abbiamo visto assistendo alla novità “Bed Boy Jack” (prod. Filodrammatici, Stabile Veneto, Next '20) scritto e diretto da Bruno Fornasari si potrebbe racchiudere nell'epitaffio di Schopenauer “Il mondo come volontà o rappresentazione” ovvero il reale là fuori è la mia rappresentazione e tutte le rappresentazioni sono oggetti del soggetto e tutti gli oggetti sono rappresentazioni quindi il mondo è copia e non realtà vera. Perché è di questo che si discute e discerne sullo sfondo della vicenda, di cronaca vera, di Jack Unterweger serial killer di prostitute austriaco,Jack Laila Pozzo-6.jpg che uccideva le proprie vittime formando un cappio attorno al collo con il loro reggiseno. Figura particolare, tra gli anni '70 e '90, putto mefistofelico che riassume tratti positivi e malesseri psicologici profondi, bollato come assassino poi in carcere elevato a santo ed eroe, capro espiatorio della società, reietto che, attraverso la cultura, aveva saputo redimersi, ripulirsi, farsi perdonare e restaurare una reputazione che sembrava compromessa e reinventarsi una verginità davanti al mondo, preso ad esempio anzi, innalzato come uomo di spicco capace di cambiare strada e direzione, di migliorarsi grazie ai libri, alle letture e alla scrittura e per questo messo sul piedistallo come fulgida e positiva dimostrazione filosofica, etica ed esistenziale che il sistema carcerario poteva, se non repressivo ma accogliente e tollerante, essere una molla per riformare la comunità.

Attorno a Jack ruotavano personaggi particolari e molto influenti come Gunter Grass e Elfriede Jelinek (non a caso due futuri Premi Nobel per la Letteratura) per avvalorare le tesi di una certa sinistra progressista. Il tagliente dramma messo in piedi da Fornasari (autore troppo trascurato in Italia; stavolta nessuna nota di ironia caustica a differenza dei suoi testi precedenti dove miscelava argomentazioni profonde e un grande sarcasmo provocante) scivola nell'abisso di un equilibrio precario tra i ricordi della realtà, viziata, offuscata, collusa, camuffata, distorta, e la sua, appunto, rappresentazione come se, e il set sul palco sta lì ad indicarcelo, fossimo proprio davanti, dentro una location da fiction (compreso un tappeto di foglie secche; le scene iconiche di Erika Carretta), da serie tv con i piani a sovrapporsi in dissolvenza: i quattro fari laterali come il nastroJack© Laila Pozzo-3.jpg giallo della polizia che indica una zona interdetta perché in quel perimetro si è consumato un delitto. Si è dentro i fatti ma si assiste alla vicenda anche in una sorta di ulteriore allontanamento, un passo indietro, come se i personaggi, ovviamente già ruoli attoriali, impersonassero se stessi nel momento di rimettere in scena dettagli e attimi accaduti in una sequenza che adesso devono essere riallocati, ridisegnati, riaggiustati per meglio comprendere tutto il processo, il progressivo svolgersi del tempo, il riannodare le bobine e il dispiegarle sul tappeto di una logica che rimane sospesa, alla fine comunque senza una soluzione certa, nel limbo creato ad hoc dalla regia (che scandaglia e fiuta le paludi del non detto, dell'interruzione dell'evidenza, di quel Purgatorio dove l'innocenza come la colpevolezza sono entrambi estremi eccessivi) che mischia i piani sequenza temporali, mixa tempistiche, mostra apparizioni e fantasmi, connette il mondo dei vivi con quello dei defunti, fa parlare gli animali.

Personaggio contorto e complicato, e per questo affascinante, che Tommaso Amadio ha incarnato in una bellezza ora disarmata adesso velenosa, in comportamenti melliflui e accondiscendenti a cercare conferme e carezze come in iraconde fuoriuscite di lava, ora oratore capace di dialettica ed eloquenza adesso bruto feroce delinquente manipolatore, con i capelli impomatati ricordandoci Hitler, anche lui (e forse non è un caso) austriaco. Come in “American History X” ha il corpo tatuato, come il Fuhrer ha un cane e proprio un pastore tedesco e proprio una femmina, uscito dal carcere si mise a scrivere libri come il brigatista Cesare Battisti libero e trionfante in Francia protetto dalla dottrina Mitterand, dopo aver ucciso e scontato la sua pena una volta in libertà ha commesso lo stesso reato come Angelo Izzo Jack© Laila Pozzo-5.jpgdel massacro del Circeo. Il Male in tutte le sue forme ripercorre strade già viste e segnate, solca la via del non ritorno, si perde nelle nebbie, cade si rialza e inganna. Attorno a Jack-Amadio (istrionico e fascinoso come Di Caprio in “The wolf of Wall street” e psichedelico e allucinato come Christian Bale in “American Psycho”) ruotano in questo variopinto Luna Park tra mass media e sangue, un ispettore, lo stesso Grass, un pappone (Emanuele Arrigazzi sul bordo di un perenne baratro oscuro con i chiaroscuri guasti e corrotti dei suoi personaggi tanto amorevoli quanto limite), una prostituta, la moglie di Grass, la Jelinek (Sara Bertelà che colora di nuance tenere e tenaci le sue battute, calibrata), la giovane fidanzata minorenne e il cane, che ci ha ricordato quello di “The Summer of Sam” di Spike Lee (Chiara Serangeli leggera, assorta, effervescente come spuma).

Perché il punto focale (meglio, in questo caso, nodale visto che le vittime furono uccise con un nodo scorsoio) è tutto giocato tra la realtà dei fatti, che in definitiva non si è mai appurata oltre ogni ragionevole dubbio ma solo supportata da un processo indiziario, e quello che Jack ha fatto credere agli amici intellettuali, ai giornali, alle tv che lo intervistavano incessantemente, ai tabloid che pubblicavano i suoi articoli, alle donne che lo amavano per il fascino perverso del malvagio, alle prostitute che, pur riconoscendolo, stavano al gioco credendolo cambiato, redento, tornato puro. Un inganno continuo per cercare di apparire in una forma celestiale (il suo completo intonso e candido) per celare il nero interiore e la voglia di morte e vendetta che covava dentro. Fuori un uomo nuovo da portare sul piedistallo e dentro l'uomo antico narcisista patologico che aveva bisogno di nuovo sangue, forse, ogni volta, per tentare di uccidere metaforicamente quella madre prostituta che lo aveva abbandonato, che non sapeva fermarsi davanti alle sue malate perversioni e pulsioni omicide e sadiche. Due i refrain musicali che si intervallano e ritornano come cantilena che ricongiunge e riannoda i fili, creando una ragnatela che tutto cuce e cesella: “Der Kommissar” di Falco, non a caso anche lui austriaco, e “Sono come tu mi vuoi” di Mina ad indicare la sua propensione camaleontica a modellarsi sui bisogni e desideri dell'astante per coglierne fiducia e disvelare i suoi punti deboli.

E' fragileJack© Laila Pozzo-8.jpg, piange, fa la vittima, si professa non colpevole a gran voce, la piazza e la pancia del Paese si divide tra giustizialisti e innocentisti, non ha alibi ma non ci sono prove marmoree, è simpatico, lusinga i suoi interlocutori, è un Grande Burattinaio che tira i fili delle sue marionette. Un Angelo demoniaco o un diavolo paradisiaco che è riuscito a toccare le pieghe e le piaghe del nostro mondo contemporaneo Jack© Laila Pozzo-14.jpgche si fa volentieri abbagliare dalla forma, sceglie consapevolmente di farsi ingannare perché è più charmant, è più divertente, perché siamo pigri e spesso è molto più semplice prendere per buona la confezione ammaliante che analizzare, con la fatica del dubbio e dell'intelletto, il suo contenuto. Il binomio Amadio/Fornasari, ancora una volta, riesce a far riflettere, riesce a non far finire lo spettacolo con la fine della piece, ci fa portare “i compiti a casa”, ci scuote, ci mette in imbarazzo, ci costringe nell'esercizio di osservare il male fuori per scorgerlo dentro di noi, non ci lascia dormire sonni tranquilli: il loro non è certamente un teatro borghese consolatorio né inutilmente e pretestuosamente provocatorio. Nei testi di Bruno Fornasari c'è carne per andare a fondo, c'è materia e magma, c'è fuoco vivo e mercurio guizzante, c'è intelligenza, da sempre vaccino contro le soluzioni facili e a buon mercato.

Tommaso Chimenti 31/03/2022

Foto: Laila Pozzo

MILANO – Proprio nei giorni nei quali scompare la grande attrice Monica Vitti. Sembra un ossimoro questo corpo a corpo dell'attrice Francesca Vitale sulla scena con il padre scomparso, qui presenza-fantasma-evocazione, cortocircuito perché riannoda i fili di una vita, la ricorda, la riporta al cuore e alla mente e alle labbra, per riesumare proprio quei ricordi che si sono affievoliti, annebbiati, perduti nella foschia di neuroni che hanno smesso di funzionare. Mentre lei ricorda a poco a poco i momenti di una vita piena e vissuta dal padre, nella mente del genitore questi svaniscono, si fanno nuvola e questo “Parole mute 2.0” (all'interno della rassegna Palco Off al Pacta dei Teatri milanese) sembra essere da una parte un'esorcizzazione dell'accaduto (che in definitiva non si supera mai ma si convive con il dolore) e dall'altra come un ricordare per entrambi, come fossero, padre e figlia (si rimane sempre figli a qualsiasi età) ancora insieme.

Una confessione che è una lettera d'amore, uno spaccato a cuore aperto, un dilaniarsi per riportare in vita sia il genitore sia il suo essere stata figlia, devota, complice, che ammirava in maniera incondizionata quest'uomo, suo idolo. La chiave di lettura scelta dalla convincente Francesca Vitale (in questo recital canta divinamente) è stata quella di presentare il padre (la piece è totalmente autobiografica e sentita e partecipata e ancora emotivamente faticosa) come l'invincibile, l'inscalfibile, l'avvocato sicuro di sé e della sua dialettica, del suo talento come del potere acquisito attraverso il lavoro, quello che non badava a spese, quello che faceva i giri del mondo in Concorde, quello che, per sfizio e passione, aveva aperto un night a Catania a cavallo tra gli anni '60 e '70 dove passarono tutti i più grandi artisti del tempo, da Fred Bongusto a Domenico Modugno, Le Gemelle Kessler e Patty Pravo, Milva e la Vanoni. Una vita spumeggiante, gloriosa, eccentrica, charmant, piena di bollicine, sopra le righe, sicuramente sopra la normalità, di altissima qualità, tutta di picchi e up e successi, applausi. E' proprio in quest'aura miracolosa dipinta attorno alla figura del padre, mitologica e mitizzata, che le crepe, le mancanze, i cedimenti, le zoppie claudicanti, i piccoli fallimenti quotidiani di questa malattia tremenda, l'Alzheimer che tutto sporca e profana e appiattisce, che fa perdere i connotati dell'intorno e del sé, fanno ancora più rumore andando a ledere l'imperturbabilità, la fierezza, il portamento e la possanza, il vigore, l'autorità di questo padre deus ex machina vulcanico, pieno di interessi e attività che, come un interruttore, si spegne improvvisamente e inesorabilmente, senza salvezza.Francesca-Vitale-media2-min.jpg

E il fil rouge di fondo sono anche le canzoni che con i loro testi fanno da drammaturgia e legano le scene, proprio quelle hit evergreen che, in bianco e nero e con le sigarette tra le dita e i sorrisi di gioventù e l'appagamento mondano, suonavano e cantavano in questo locale notturno iconico fulcro, perno e simbolo di quegli anni ruggenti e per tutti quelli che volevano mordere la vita e assaporarla fino in fondo. La Vitale, nella messinscena strindberghiana di Manuel Renga, è come se entrasse in punta di piedi dentro una casa abbandonata, forse la mente del padre, un castello fiabesco, adesso lasciato ammuffire, ora disabitato e disadorno, come la sua infanzia e adolescenza dominate positivamente da questo uomo ingombrante e accentratore di attenzioni e carismatico, stanze dove la mobilia è stata silenziata e “messa a dormire” sotto teli coprenti di plastica, cumuli polverosi perché nessuno più ha vissuto, da molto tempo, quelle mura. E ad ogni svelamento, ad ogni coperta alzata, appaiono e fioriscono e sbocciano ricordi, oggetti che spalancano cassetti della memoria, materiali come voragini di senso, parentesi su mondi ormai sfocati e lontani che nella figlia risuonano e fanno eco e nel padre erano cancellati.

La Vitale maxresdefault (3).jpgdialoga con il padre-fantasma come sprofondato sulla sua poltrona-trono e questo suo ultimo disperato tentativo teatrale è un cercare di riallacciare i discorsi sospesi, le frasi smozzicate e non finite cadute nei vuoti di memoria, negli inciampi, nei silenzi, nelle amnesie. Ma è anche un percorso, certo faticoso ma anche catartico, un passaggio di consegne verso l'età adulta: mentre il padre è divorato dall'interno, Francesca Vitale prende le redini, non si fa schiacciare né sconfiggere dal trauma, come se divenisse genitore di suo padre accompagnandolo, parlando una lingua tutta loro fatta non più di parole ma di piccoli tocchi, di occhi, di quelle tenerezze mai affrontate durante la vita sana e forte e piena di impegni. In fondo “Parole mute 2.0” (che porta in giro dal 2009) è anche una riflessione sulla malattia, su questa malattia che porta via quello che intimamente siamo ovvero le nostre esperienze e le nostre parole, la nostra capacità di esprimerci e di comunicare, sul mistero dell'esistenza, sulle domande inevase dell'uomo così fragile pulviscolo minuscolo di fronte alla morte, nel tentativo di dare una spiegazione al dolore, brancolando nel buio, spaventati, impauriti davanti all'oblio, sul precipizio dell'abisso che ci inghiotte.

Tommaso Chimenti 04/02/2022

MILANO – C'era una volta “Quel che resta del giorno”. Qui invece, in questo viaggio, la luce è in fondo al tunnel, va cercata, trovata, tenuta, stretta. E' un cammino a ritroso terapeutico questo “Quanto resta della notte” (prod. Manachuma Teatro, visto al Pacta all'interno della rassegna Palco Off diretta da Francesca Vitale), un percorso di Pollicino dentro il bosco andando a becchettare tutte quelle briciole lasciate sepolte dal tempo, un andare a vedere che cosa si è voluto nascondere sotto il tappeto, un cercare consapevolezza eliminando i falsi ricordi giustificatori di un'esistenza traumatica. C'è molto di autobiografico, con le dovute distanze e differenze, in questo testo di Salvatore Arena (regia condivisa con Massimo Barilla) che in scena, come sempre, si dona, si dà, si danna, come bloccato, forzato sulla sua sedia d'ordinanza, mai comodo, sempre appoggiato in punta, pronto a scattare, ad alzarsi ma qualcosa (la storia che sta raccontando) lo tiene legato a terra, a quel passato da rievocare, da far trasudare come Sindone, da far emergere come tossine, scorie, sudore per nuovamente tornare a respirare senza filtri, senza barriere, senza oppressioni. massimo barilla salvatore arena 1024x686

E' una storia che arriva da lontano: un uomo che per lavoro si è spostato in Sicilia e sua madre morente in un letto nella sua casa di Reggio Emilia. Nella realtà Arena è vissuto in un paese nel messinese e si è trasferito, per amore molti anni fa, proprio nella città emiliana. E' un transfert che sboccia e sblocca, che addolcisce e scambia, che sposta le caselle, che mischia la tastiera, che mixa le pedine sulla scacchiera, che crea rimandi psicologici ed eco immaginifiche, apre porte misteriose, spalanca riflessioni. Un piccolo viaggio, di tre giorni come quelli che servirono a Gesù per la sua rinascita e resurrezione, per ripulirsi da un passato ingombrante e martellante e tartassante che non aveva saputo affrontare né accogliere né tanto meno perdonarsi ma che, attraverso un continuo gioco di vita e morte, di salvezze e perdite irreparabili, porta ad una nuova accettazione di sé, una nuova concezione, una nuova idea, forse meno granitica, più imperfetta ma più vera, più fragile e sbagliata, con tutti i limiti dell'essere umano che cade e si rialza, che inciampa ma non per questo molla la presa.

Quanto Resta Della Notte 5 2Arena è su una sediola impagliata e il nero tutt'attorno, il buio dietro, la pece ai lati, l'oscuro sopra la testa, le tenebre che fanno scenografia, il tetro che diventa costume di scena. Un uomo solo nel nulla, fuori la nebbia che tutto cancella, ammanta, patina, lecca come pennellata grigia. La triangolazione è tra Pietro, il protagonista, la madre (se vogliamo continuare con i parallelismi con l'autobiografia di Arena qui potremmo inserire al posto della genitrice il padre per un nuovo miscuglio di senso tra realtà e finzione) e il fratello Antenore. Niente a che vedere con Caino e Abele né con il film “Incompreso” di Luigi Comencini che in alcuni momenti però fa capolino. Un fratello che c'è pur non essendoci più, che è ancora più pressante e presente proprio perché la sua assenza è così pulsante e palpitante. E il racconto si snoda e si incunea in questo passato doloroso fino ad un evento che ha cambiato la storia di tutte e tre le componenti in pista, che li ha mutati, stravolti per sempre. E' una rincorsa questa verso l'abisso per uscire finalmente a rivedere le stelle, è un guardarsi dentro e vedere l'angoscia, la solitudine e, con forza e determinazione, con sofferenza chirurgica, riuscire a risollevarsi facendo tabula rasa, digerendo colpe, ripulendosi l'anima. E si sente Dante e il suo travaglio negli Inferi, come si ha percezione di qualche tocco proveniente dalla pellicola “Una pura formalità” di Tornatore.

Un ritorno necessario alle origini, un perdersi per ritrovarsi, un Ulisse che torna nella sua Itaca e la trova cambiata perché capisce come i suoi ricordi siano frutto di rimozioni, di spostamenti che la sua menteMC 07339 copia ha messo in atto per salvarlo dal senso di colpa che lo avrebbe distrutto, schiacciato, portato a fondo. Ma adesso è arrivato il tempo di fare i conti con se stesso e, grazie alla morte della madre che diventa salvifica proprio perché ha il gusto e il prezzo del sacrificio, riesce finalmente a darsi pace, ad abbracciare quel se stesso bambino che non è riuscito a salvarsi. Il figliol prodigo torna su quegli stessi luoghi che ha voluto abbandonare, lasciare, dimenticare proprio per abbandonare, lasciare e dimenticare una parte di sé, quella che gli faceva più male, quella che lo tormentava, che non lo lasciava dormire. Un linguaggio poetico che si intreccia ad una sintassi quotidiana. E anche il nome del protagonista, Pietro, sa di masso inscalfibile, di montagna dura da scolpire e sconfiggere ma che invece alla fine implode e, come nei Non finiti imperfetti di Michelangelo, i suoi incompiuti, gli “Schiavi” o “Prigionieri”, riesce, con estrema fatica, a rinascere, tirarsi fuori da quelle sabbie mobili granitiche che lo tenevano bloccato a terra e gli attanagliavano le caviglie come un anaconda tra le mangrovie per annegarlo, per togliergli ossigeno. Il passato torna prepotente e, anche grazie a figure catartiche che sembrano uscite da una “Spoon River” della Bassa, angeli o demoni o anime vaganti che siano, che riescono a togliere la polvere dal passato e a portarlo a vedere meglio, a riconoscersi, a darsi una seconda chance di vita. Perché c'è sempre tempo per perdonarsi, c'è sempre tempo per avere un nuovo tempo.

Tommasco Chimenti 10/01/2021

MILANO – La gestazione è stata lunga, più volte cominciate le prove, poi interrotte, nuovamente sul palco ed ancora stoppate. Infine, dopo due anni, la scena, l'agognato debutto. Era il 2019 quando venivano gettate le basi per questo “Decameron, una storia vera” dell'accoppiata solida Filippo Renda, drammaturgia, e Stefano Cordella, regia, supportati dalla produzione dell'MTM e TrentoSpettacoli. Partendo dall'idea boccaccesca, dieci giovani che per rifuggire la peste, scappano in un luogo isolato e iniziano a raccontarsi novelle, i nostri sei sul palco attuale (nella finzione teatrale) si recludono per fuggire alla pandemia, ognuno portando le proprie storie (le suggestioni arrivano direttamente dalle loro autobiografie) sul piatto, connesse a paure, ansie, traumi. Renda è oniricoDecameron_1_foto Alessandro Saletta.jpg e visionario, ha una forte carica e ascendente e, anche quando è sulla scena in veste di attore, ha il polso della situazione per dirigere, spostare, divenendo punto di riferimento carismatico, ago della bilancia, fulcro.

Una drammaturgia stratificata a quadri, dieci, ognuno segnalato ed evidenziato con dei colori, dai più acidi ai più tenui, un timer a scorrimento veloce per indicare il tempo che sta finendo, per una escalation molto cerebrale che quasi sfocia nel criptico con molti segni e innumerevoli riferimenti che è complicato cogliere nella loro totalità. Quasi una caccia al tesoro che, se fosse stata più chiara, avrebbe reso più fluida e fruibile la comprensione armonica, il senso compiuto generale. Perché questi quadri sono sì espressioni singole ed individuali ma, viste in un'ottica di corpo complessivo, hanno molto da dire se prese nel loro insieme acquistando respiro ed ampliando la riflessione. Troppe stesure del testo, rimaneggiato più volte causa stop and go continui, hanno creato sovrapposizioni come una sorta di scorza indurita dove l'autore (e gli autori-attori e le loro improvvisazioni sul tema) ha dato molte informazioni per scontato creando quel mistero (giusto, l'arte non deve essere tutta lampante) che a volte (alcuni quadri sono venuti meglio di altri) è scivolato nel nebuloso. Ci sono tantissime sfumature che si perdono, infiniti particolari che vengono miscelati (ed è un peccato), dettagli dissipati o soltanto non valorizzati come avrebbero potuto.

Ma Decameron_2_foto Alessandro Saletta.jpgandiamo per ordine: lo spettacolo inizia con alcune scritte che appaiono sul fondale; qui si racconta (vicenda vera) che a New York è stato posizionato, il 19 settembre 2020, un orologio con un conto alla rovescia che, secondo svariati calcoli di scienziati ambientalisti, terminerà tra 7 anni, ovvero il momento del disastro ambientale, il punto di non ritorno, la catastrofe. Un'informazione fuorviante che ci porta dentro l'ecologismo e la fine del mondo, dentro le dinamiche e le meccaniche che l'uomo ha perpetrato ai danni della Natura e quindi di se stesso. Poi arrivano le dieci scene (e non sette come gli anni dal 2020 al tracollo) del Decameron contemporaneo che invece ci portano dentro la pandemia e dentro la ricerca della salvezza (nel 1300 era dalla peste, oggi dal Covid) che l'Uomo ha messo in atto per difendersi dal virus. Quindi se da una parte parliamo di un processo ormai inevitabile che ci condurrà alla morte e all'estinzione, dall'altra, in maniera diametralmente opposta, si racconta dell'uomo che sta facendo di tutto, mettendo in campo anche l'autoisolamento, per salvarsi. Delle due l'una: o ci concentriamo sulla distruzione in atto (stiamo andando su un treno impazzito a velocità folle e senza guidatore) oppure sulla possibilità di frenare, fermarci, ripensare al mondo, al nostro stile di vita. A meno che non si colleghi il virus alla deforestazione, alla cementificazione e all'innalzamento della temperatura globale, ma qui si entra in un altro terreno ancora molto complesso. Il pubblico è giusto che “lavori”, che non stia in poltrona aspettando l'imbeccata didascalica ma in questo modo, ripeto molto concettuale (la pasta c'è) spesso il ragionamento diventa macchinoso e faticoso. L'orologio iniziale poi non verrà più nominato e allora ci siamo chiesti perché tirarlo in ballo.

I personaggi hanno i nomi di battesimo degli attori stessi, come a sottolineare una veridicità e un parallelismo con la realtà. Ogni quadro in fase di produzione è stata una scelta personale di Decameron_3_foto Alessandro Saletta.jpgogni singolo attore che ha trattato e declinato la materia, portando sue suggestioni e idee al pensiero. Ne esce un affresco frammentario, a sprazzi e flash, con alcuni momenti più toccanti o godibili da portarsi a casa o tenere in memoria.  I titoli dei vari capitoli avrebbero dovuto essere più espliciti: di solito un titolo spiega qual è l'argomento che la narrazione, sviluppandosi, tratterà. Qui invece siamo di fronte a continui spostamenti di senso e slittamenti semantici. La regia di Cordella (periodo fitto di impegni questo per lui con il debutto tra pochi giorni di “Oblomov” al festival “Inequilibrio” a Castiglioncello con gli Oyes e “La rivolta dei brutti” il 22 luglio sempre al Litta) gioca sui cambi di luce, su questo andamento armonico cercando di far passare l'idea di un progressivo allontanamento delle proprie quattro mura da parte dell'uomo, idea interessantissima che però non si riesce a cogliere fino in fondo.

Si Decameron_foto Alessandro Saletta.jpgparte dai “Dati”, che è l'inserto numero uno, l'orologio fuorviante, e una festa dove non c'è niente da festeggiare, proseguendo con “Intrattenimento”, un conduttore aggressivo di un talk show surreale, arriva “Contatto” dialogo dadaista tra una ragazza e un rider, appunto senza alcun contatto, ormai impauriti dall'altro, il quarto è “Rivoluzione”, un uomo in cerca di spiegazioni e soluzioni e un cartomante, “Controllo” (uno dei più riusciti) dialogo tra un'intelligenza artificiale che governa un bagno pubblico e una ragazza (Silvia Valsesia convincente) che era chiusa lì dentro in cerca di un po' di sollievo e pace, “Confini” (altro quadro up) che è un pezzo ritmato (il sound design è di Gianluca Agostini) che pare un hip hop potente che ci porta nelle periferie (Daniele Turconi in grande forma e sugli scudi), il settimo “Estinzione” con una coppia ingaggiata da un regista invadente per mettere in piedi un film hard-core per far eccitare e conseguentemente riprodurre i panda (divertente, con Woody Neri e Silvia Valsesia di fronte a Nicolò Valandro e Alice Redini, tutti in palla e ben affiatati). Se all'inizio veniva fornita l'indicazione dei sette anni da qui all'estinzione e chiamandosi proprio così il settimo capitolo pensavamo che la piece volgesse al termine, arrivando appunto alla sua naturale conclusione. Invece si susseguono altre tre sezioni: “Preghiera”, “Domani” e “Nostalgia”, ma dopo l'estinzione chi è che pregherà, aspetterà il domani e ne avrà nostalgia?

Le luci catartiche (di Fulvio Melli) svolgono un'importante funzione in un crescendo psichedelico, passando dal viola all'arancione, dal grigio al rosso acceso, dal verde al rosa tenue fino a sciogliersi in un bianco pallido. La sensazione è quella di un'Ultima Cena mixata con Lost, una reclusione volontaria che, dopo dieci giorni di segregazione, non ci ha resi migliori in un cortocircuito in loop gattopardesco. “Andrà tutto bene” era soltanto uno slogan da balcone. Sulle terrazze è meglio metterci i gerani.

Tommaso Chimenti 24/06/2021

Foto: Alessandro Saletta

MILANO – “Riferiscono le cronache che quando è giunta in tribunale la notizia dell'assassinio di Walter Tobagi, il brigatista Corrado Alunni l'ha accolta con una sghignazzata di tripudio. Abbiamo sempre combattuto la pena di morte sul presupposto che l'uomo non ha il diritto di uccidere l'uomo. Il presupposto lo confermiamo. Ciò di cui cominciamo a dubitare è che gli Alunni e quelli come lui siano uomini. Sui cadaveri sghignazzano le iene” (Indro Montanelli).LIFE 17.jpg

Sono passati cinquant'anni dai cosiddetti “anni di piombo”, dalle stagioni del terrorismo che hanno infangato e impaurito l'Italia, ma è ancora difficile parlarne, complicato non giudicare, non schierarsi, impossibile rimanere, per chi li ha vissuti, impassibile e neutrale. Li abbiamo voluti rimuovere con l'euforia degli anni '80, la musica dance, gli elettrodomestici presi a rate del boom economico, i Campionati del Mondo di Pertini. Non ci siamo riusciti. I '70 stanno ancora lì imperterriti, impettiti, ognuno con le sue ragioni mentre il mondo intorno è cambiato, rivoltato, mutato, sventrato e quelle teorie e dogmi ci sembrano oggi così assurdi, così lontani, così distanti da poter essere capiti fino in fondo. Che cosa spingeva un giovane universitario a seguire l'influsso dei Cattivi Maestri, cosa portava un operaio ad abbracciare la lotta armata? Prendere una pistola e fare occhio per occhio, dente per dente?

E' per questo che l'operazione di Emiliano Brioschi (suoi testo e regia) risulta complessa e sfaccettata, dinamica e senza soluzioni: “Life”, un titolo di speranza, positivo, vita, una parola che sembra rifulgere, splendere, un termine che si getta a capofitto nel futuro. Invece, simbolicamente e ossimoricamente e paradossalmente, la sua scrittura parla costantemente di morte mettendo di fronte (anzi di lato senza mai guardarsi o sfiorarsi né toccarsi, storie parallele che non si incontreranno nemmeno all'infinito), a confronto il carcere di Ulrike Meinhof (interpretata da Cinzia Spanò, sempre dentro le parole), terrorista tedesca, con la prigionia di Roberto Peci, giustiziato dalle Brigate Rosse dopo 54 giorni (come Aldo Moro, raLIFE 2.jpgccontato così bene da Daniele Timpano in “Aldo Morto”) di processo proletario illegittimo. Il campo è e resta scivoloso.

Un lavoro raffinato e diretto, schietto, che non cade mai nel banale, che non cede al sentimentalismo, duro in molti passaggi, violento, essenziale. Un lavoro nato dentro i giorni del lockdown: è proprio questo il tema che fa da sfondo a quegli anni, a quelle tensioni. La segregazione, la costrizione fisica, la prima (morta suicida nel '79) per mano dello Stato tedesco dopo aver perpetrato omicidi e altri reati gravi, il secondo, innocente, ucciso (nell'81 dalle BR) solo perché fratello del brigatista pentito Patrizio. Già nel mettere in parallelo queste due storie Brioschi ha dimostrato coraggio artistico, riabilitando la figura di Peci che per molti decenni è stato considerato un terrorista senza avere invece alcuna colpa, e dall'altro umanizzando (troppo) la figura della Meinhof che tribunali e leggi tedesche stavano facendo marcire in galera. Ecco è in questa parte, la più corposa mentre Peci-Brioschi rimane incappucciato e silente (parla per lui un video rimontato uguale alle riprese che le BR effettuarono processandolo), che abbiamo sentito uno stridore quasi di apologia non tanto delle gesta criminose quanto degli ideali professati e una critica forte, decisa, netta, energica allo Stato “fascista” che chiude, segrega, umilia, schiavizza, priva i cittadini anche se colpevoli. “Il riciclaggio presuppone che il danaro provenga dal delitto. E' sporco per la sua provenienza. Nel terrorismo è sporco per la sua finalità” (Pierluigi Vigna, magistrato).

Frasi come “Il suicido è l'ultimo atto di ribellione”, “Appropriatevi di ciò che vi è negato”, “Bisogna incendiare tutto”, “Intaccare la società dei consumi, distruggere i centri commerciali” non creano nessuna empatia per il personaggio e certamente non ce l'ha umanizzata. “Poliziotti e agenti in divisa sono bestie” e ancora “Il male è il prezzo della libertà” fanno sobbalzare sulla poltroncina dell'Elfo milanese, fanno alzare le difese, fanno sobbollire di rabbia. Questi invasati e fanatici, questi folli razionali, deviati, imbevuti e radicalizzati hanno sparso odio e morte e se decidi coscientemente e consapevolmente di fare del male lo Stato, ovvero le regole condivise di un popolo e di una Nazione, ha il potere di toglierti i diritti personali. Se Peci è tratteggiato come un innocente schiacciato negli ingranaggi di un gioco molto più grande del singolo, per quanto riguarda la Meinhof si sente un minimo, non di giustificazione, ma almeno di comprensione, di vicinanza se non di ammirazione per la fierezza e la forza, l'abnegazione e la barra sempre dritta senza piegarsi, senza pentirsi. Sono l'uno la faccia doppia di quegli anni quando qualcuno si arrogava il diritto di essere giudice super partes o di perseguire la violenza sociale e la guerriglia civile per il bene del Popolo senza che quest'ultimo fosse stato messo al corrente, senza che avesse avuto modo di esprimere le proprie idee, personaggi che si erano autoproclamati, autoesaltati, autoinneggiati.LIFE 18.jpgIl terrorismo prosperò grazie a chi diceva: compagni che sbagliano” (Gianni Oliva, storico).

Un testo (e una tesi di fondo) e una messinscena dolorosi e rigorosi quelli di Brioschi, intellettuale prestato al teatro, che crea discussione e divisioni, che fa nascere il dibattito, che ci riporta dentro quei fatti sui quali abbiamo operato rimozioni psicologiche salvifiche. Soffriamo, anche fisicamente, per il cappuccio nero asfissiante, e respiriamo a fatica con lui sperando nel perdono che sappiamo con certezza che non arriverà. Spanò e Brioschi sono credibili e le storie che riportano in superficie sono importanti da strappare all'oblio. Il terrorismo è stata una pagina fosca e buia di persone che giocavano a fare la guerra sulle spalle delle vite della gente comune, perpetrando una lotta destinata inevitabilmente alla sconfitta. Forse LIFE 25.jpgerano soltanto ambiziosi di potere, riempiendosi la bocca di slogan come “Potere al popolo” quando del popolo non avevano una grande opinione (patriarcalmente lo volevano istruire e instradare), volevano soltanto arbitrariamente, e non come avviene in un processo democratico, sostituirsi al potere costituito: “Volevamo che il popolo ci seguisse, poi ci siamo voltati e non c'era nessuno dietro di noi”. “Uccisi perché? Per il sogno di un gruppo di esaltati che giocavano a fare la rivoluzione, si illudevano d'essere spiriti eletti, anime belle votate a una nobile utopia senza rendersi conto che i veri “figli del popolo”, come li chiamava Pasolini, stavano dall'altra parte, erano i bersagli della loro stupida follia” (Mario Calabresi).

Se parliamo dell'estrema sinistra, sui 4.000 inquisiti (1.300 solo nelle BR) per reati collegati a gruppi terroristi italiani, sono in carcere soltanto ventuno reduci degli anni di piombo, undici irriducibili con l'ergastolo ma che non hanno mai chiesto la possibilità d'uscire, che dopo ventisei anni consecutivi di detenzione sarebbe stata concessa. La maggior parte è stata scarcerata e adesso sono liberi, molti sono diventati scrittori o opinionisti politici chiamati da giornali o tv compiacenti. Ma davvero ne valeva la pena? Da far vedere agli studenti delle scuole. “Chiedere perdono richiede più coraggio che sparare, che azionare una bomba. Quelle sono cose che possono fare tutti. Basta essere giovane, ingenuo e avere il sangue caldo” (Fernando Aramburu, scrittore basco).

Tommaso Chimenti  22/06/2021

Pagina 1 di 4

Libro della settimana

Facebook

Formazione

Digital COM