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CLUJ – La Romania, teatralmente parlando, è una grande Nazione. I drammaturghi, e di qualità, spuntano come funghi, le nuove generazioni fioccano accompagnando la vecchia guardia, ogni città ha i suoi festival estivi, per non parlare di Bucarest vero centro culturale fiorente del Paese. La grande tradizione dell'Est si è innestata sia nel lavoro dinamico e inflessibile degli attori sia nella percezione, nella voglia e passione degli spettatori che affollano (sempre tutti sold out, anche per i prezzi popolari per andare incontro alle tasche dei fruitori) i teatri, che siano quelli istituzionali da mille posti sia quelli non convenzionali, gli studio, gli off, che stanno nascendo per le piccole produzioni. Un'ottantina i teatri municipali, ai quali aggiungere il Teatro di lingua tedesca a Timisoara e il Teatro Ungherese di Cluj, sei i Teatri Nazionali, la capitale Bucarest, Timisoara, Iasi, Targu-mures, Craiova e Cluj, più Sibiu che ha lo status “di interesse nazionale”. Scelta, varietà, possibilità, fermento, fuoco acceso. Ottava edizione per l'“Intalnirile Internationale de la Cluj” (nel nord del Paese, città universitaria con il 30% di cittadini di lingua ungherese, piccola ma vivace) che quest'anno è stato totalmente monopolizzato dalla drammaturgia di casa visto l'anniversario tondo (1918-2018) della fondazione dello Stato. La Romania è nella comunità europea ma non ha rinunciato alla sua moneta, il Leu. Proprio nei giorni scorsi qui è fallito il referendum contro le nozze gay per insufficienza di affluenza alle urne.Angajare de clovn - foto (3).jpg

L'idea che ne scaturisce è quella di una grande ricchezza e varietà, con alcune ingenuità, ma di fondo si percepisce l'immenso amore e propensione, tensione e intenzione, verso la scena; per i rumeni è un bene primario e una necessità andare a teatro, vedere, guardare, gustarsi le storie, le parole e le perenni e sentite “standing ovation” finali stanno a testimoniare questo feeling, questo innamoramento tra chi fa teatro e chi lo guarda. Altro fattore da sottolineare è l'immensa dedizione e instancabilità attoriale; abbiamo visto recitare gli stessi attori della compagnia stabile ininterrottamente per giorni consecutivi, anche due spettacoli diversi al giorno, con una lena, una potenza, una forza straordinarie, senza mai perdere un colpo, senza un cedimento, un tentennamento, una fiacchezza, con un'intensità commovente, con una carica di rara bellezza e pulizia scenica. Se in Italia uno spettacolo debutta ha poi la sua tournée, se va bene, e gli attori sono impegnati in questo lavoro per mesi tra produzione e repliche, qui invece gli attori ogni sera mettono in scena una piece diversa, nel corso dell'anno, tutti gli anni, tra quelle in repertorio e, ogni tanto, mentre le repliche serali vanno in scena, provano e mettono in atto nuove produzioni. A ciclo continuo. Un aspetto che a prima vista sembra inaridire e frustrare il ruolo dell'attore che perde la sua parte emozionale e creativa cedendola al mestiere. Ma, visti dal vivo, non è affatto così: gli attori di Cluj sono dei veri mostri di bravura sui quali ci soffermeremo più avanti.

Tra i molti spettacoli che abbiamo avuto modo di seguire abbiamo scelto di raccontare alcuni di quelli che sono andati in scena in piccoli spazi collaterali, l'Euphorion Studio come il Reactor o il Caragiale Hall, luoghi dove si respira lo stesso fiato degli attori, a pochi centimetri da loro, dove si può vedere la fatica e apprezzare maggiormente il loro grande sforzo e ruolo sociale, sentire il loro strabiliante talento. Ci ha colpito “Old Clown wanted” del prolifico Matei Visniec, racconto surreale e colorato dove la vecchiaia dell'attore si miscela ai casting del talent, strizzando l'occhio ad un omaggio al teatro italiano (i personaggi si chiamano Filippo, Niccolò e Peppino), non dimenticando le migrazioni, le valigie con una stoccata alla vicina Ungheria di Orban e le sue frontiere serrate a doppia mandata blindata Scrisori de pe front - foto Alexandru Rădulescu (2).jpg(“L'Europa è chiusa per noi”). Sono clown clochard che hanno perso tutto e che si fanno la “guerra tra poveri”, attendendo una chiamata da parte del loro Godot di turno. Sono infelici tra le tante palline colorate rotolate a terra ma immobili come pianeti di un sistema solare ormai cronicizzato e ancorato. Recitano in tutte le lingue europee come a dirci che sono (siamo) tutti sulla stessa barca nella metafora tra gli attori e l'umanità in un carillon triste di marionette vintage e scalcinate che nessuno vuole più. Prima volevano entrare ad ogni costo e adesso non possono più uscirne, è l'avvilita parabola dell'oggi: “Essere o non essere un clown, questa è la domanda”. Vibrante nella sua leggerezza di facciata.

Se i tre clown un sorriso lo strappano nelle “Letters from the front” la cosa risulta proprio impossibile. Il marchingegno messo in piedi da Ionut Caras ha tre piani di snodo, il primo è stato quello di miscelare reali lettere spedite dalle trincee della Prima, della Seconda Guerra Mondiale come dall'Afghanistan, il secondo quello di mettersi, e mettere noi spettatori, attorno ad un tavolo quasi fosse un pranzo in famiglia o anche, purtroppo, un'ultima cena di carni mandate al macello, il terzo è quello del “gioco” con soldatini di plastica (ci ha ricordato “Kamp” degli olandesi Hotel Modern) ad ingolfare e abitare il tavolo, a esemplificare una guerra planetaria fatta dai potenti sulle spalle dei popoli, un grande Risiko dove chi vince non è mai la povera gente. Come a dirci che ogni guerra, in ogni dimensione temporale, dagli albori dell'uomo a Guerre Stellari, dalla clava al mitra, procura lo stesso dolore e ferite e squallore e miseria in chi va e in chi resta, che l'uomo sarà l'unica razza animale che si autodistruggerà con le proprie mani. Questo “Letters” ha un sapore di perrottiana memoria. Siamo nellaScrisori de pe front - foto Alexandru Rădulescu (4).jpg penombra, a lume di candela come in un bunker, nascosti, braccati. Nelle parole dei soldati traspare la normalità dell'atrocità. E il monumento al Milite Ignoto è l'ennesima ipocrisia di un sistema che prima ti spedisce al fronte e poi si ripulisce la coscienza con un po' di bronzo ad imbruttire una piazza di periferia. Con i ceri accesi siamo immersi in un rito, una cerimonia funebre. Nelle loro righe c'è rassegnazione e fatalismo, accettazione di un nuovo sistema di regole e valori: guerra fa ancora rima con merda.

Anche “Emigrants” viaggia sul filo della nostalgia e della malinconia come sul binario della claustrofobia. Tra un tavolaccio, sedie di fortuna, letti da accampamento, sporcizia, tubi e degrado, fisico, umano, ambientale, i due emigranti del titolo, vivono (sopravvivono) in questo scantinato di fortuna. Uno non vuole perdere la dignità, legge, scrive, ascolta musica classica, per cenare anche con una scatoletta di tonno mette la tovaglia, l'altro vive alla giornata, forse è un ladruncolo, non paga l'affitto, non ha imparato la lingua del Paese che li ospita. Il loro è un odi et amo continuo, risate e violenze, complicità e brindisi come pugni e rincorse sudate. Esce fuori la solitudine, deborda una tristezza infinita del vuoto che hanno, entrambi per versi diversi, nel cuore e verso il futuro. Sono simili anche se ci sembrano così distanti, non hanno Emigrantii - foto (3).jpgpiù possibilità o nessuno al mondo, possono solo andare avanti e non tornare indietro. Se il primo ci appare come “pasoliniano”, ovvero un intellettuale che sta a fianco alla miseria umana per capirla e descriverla nel suo romanzo della vita, che non ha comunque cominciato e che mai completerà, l'altro fa tenerezza per la sua ignoranza e superficialità, per il suo analfabetismo e impossibilità. Sono due facce della stessa medaglia, hanno bisogno l'uno dell'altro, si cercano come il ferro con la calamita e poi si repellono e si allontanano. Si raccontano tra sogni piccoli e meschinità quotidiane, entrambi sconfitti, entrambi di un'infelicità cosmica. Sono topi incastrati nella trappola del capitalismo, impantanati nel miraggio di una vita migliore, nell'illusione del “volere è potere”.

Un ultimo accenno a questi fantastici interpreti di elevata caratura, infaticabili, inarrestabili, che ci hanno fatto gridare al miracolo. Su tutti Matei Rotaru, splendido soprattutto in “Emigrants”, carisma e presenza da vendere, ma anche gli eccezionali Ionut Caras e Cristian Grosu, ammirato in “On the sensation of resilience when treading on dead bodies” di Visniec (bellissimo titolo e miglior spettacolo di questa edizione del festival), il potente Radu Largeanu, magnifico protagonista di “Love stories ai first sight”, l'esperto Ioan Isaiu, la statuaria Patricia Brad, meravigliosa Cantatrice Calva, l'interessantissima e plastica coreografa di “Rambuku”, Andrea Gavriliu. Romania mia, Romania in fiore.

Tommaso Chimenti 17/10/2018

CLUJ – Siamo nel nord della Romania proprio nei giorni in cui il Teatro della Limonaia mette il suo focus con “Intercity Bucarest” sulla drammaturgia rumena. Qui ce l'hanno con gli ungheresi; dicono che gli portano via il lavoro. Paese che vai, stessi problemi che trovi. Siamo a quattrocento chilometri da Bucarest, con il treno undici ore. Una sola autostrada chiamata “Del Sole”, come la nostra Milano-Napoli, arteria del sistema del traffico su asfalto, dalla capitale a Costanza, sul Mar Nero. Per il resto strade e binari a scorrimento lento. Siamo in Europa ma si paga ancora con la vecchia moneta, il Leu. Cluj è una cittadina viva, per lo più universitaria, un'aria austroungarica di fondo, viali borghesi ed eleganti, la vecchia cittadella con i ciottoli. Impossibile lasciarla senza aver addentato, più e più volte, i covrigi alle visciole da Gigi, bagel caldi riempiti di salsa alle ciliege. Infiniti i rotoli di fili neri dell'elettricità aggrovigliati ai pali.
Soltanto ad ottobre fioriscono due festival di cinema, tre teatri, quello Nazionale dell'Opera, con mille posti, e due spazi più piccoli, una Casa della Cultura molto attiva, un teatro in lingua magiara. La gente è affamata di cultura, il teatro è una pratica comune e consueta, da esercitare molti giorni alla settimana, le persone si innamorano dei testi, li seguono, tornano più volte a vedere le stesse piece, ne imparano a memoria pezzi e stralci. Una passione smisurata.rodrigiogarcia
Il Teatro Nazionale di Cluj ha una compagnia stabile composta da una quarantina di attori. Il sistema che gestisce le attività è assai curioso per un italiano: la nuova piece prodotta dal teatro, dopo il suo debutto, rimane in cartellone per pochi giorni per poi essere ripresa più volte nei mesi successivi ma mai per lunghe teniture, poche serate alla volta. Quindi ci si può imbattere in mesi dove oggi c'è Shakespeare, domani Moliere, a seguire Pirandello e infine Cechov. Ogni giorno uno spettacolo diverso: una goduria per un pubblico di appassionati, una bella sfida e fatica per gli attori ogni sera impegnati con importanti testi e messinscene.
All'interno del festival internazionale “Intalnirile International de la Cluj”, alla sesta edizione, quest'anno dal titolo “In cautarea Autorului” (In cerca d'autore), abbiamo scelto di portare alla luce due spettacoli, il “Mort et reincarnation en cow boy” di Rodrigo Garcia (qui è stato messo in scena anche il suo “Agamennon”) e il “Richard III will not take a place” di Matei Visniec, uno dei maggiori drammaturghi rumeni viventi (qualche anno fa vedemmo il suo “I cavalli alla finestra” messo in scena con successo dall'ITC San Lazzaro di Bologna).
Una decina d'anni fa abbiamo incontrato Rodrigo Garcia proprio a Sesto Fiorentino dove ha sede il Teatro della Limonaia, nel quale fu Barbara Nativi, la direttrice e regista purtroppo scomparsa prematuramente, a “scoprirlo”. In quell'occasione parlammo più del “suo” Atletico Madrid che di altro, lui argentino d'origine e spagnolo d'adozione, adesso alla direzione del Teatro Nazionale di Montpellier, contratto che scadrà a fine 2017 e già deciso che non gli sarà rinnovato. E' curioso, disponibile, cappello calato sulla testa o cappuccio, gli occhi veloci, parla un esperanto svelto e fruibile tra spagnolo, italiano, francese e inglese, beve solo acqua. In Italia fece scandalo la sua performance dove un astice veniva rosolato su una piastra e mangiato in diretta. Al festival “Contemporanea” di Prato, diretto allora come oggi da Edoardo Donatini, intervennero animalisti e carabinieri e sia l'autore che il direttore furono denunciati per maltrattamento ai danni di animali.
visniecIl suo “Morte e reincarnazione di un cow boy”, che abbiamo visto in una delle ultime edizioni della Biennale veneziana nel suo adattamento originale, viene qui, dal regista rumeno Andrei Majeri, completamente stravolto, rivoluzionato (e non è che questo sia necessariamente un male): al posto dei due cow boy che giocano rabbiosi e violenti con pulcini e gatti, come nella versione al Teatro delle Tese all'Arsenale, il discorso è stato suddiviso in quattro attrici divenendo un vero e proprio inno al femminile gioioso, colorato, pop. Quattro donne, vagamente tarantiniane, una diversa dall'altra, vestite in giallo, blu, grigio e rosso, spicca per presenza fisica e scenica, voce e temperamento Sanziana Tarta, parlano di sé e dei problemi delle donne (è dura essere donna, ieri come oggi) giocando a biliardo (le palle in buca, metafora), tra birre e cactus, riducendo la poetica provocante e antisistema di Garcia ad una commedia inframezzata da canzoni godibili folkeggianti (potrebbe somigliare al “Due partite” di Cristina Comencini). Sono rock, toste e country queste donne che non vogliono cedere alla loro voglia di essere femmine e madri e ancor prima donne e persone, sono tutte wonderwoman nell'arena della vita, si fanno torere nel mezzo della corrida quotidiana, sono Charlie's Angels che rivendicano il loro ruolo nella società.RiccardoIII
Il “Riccardo III” di Visniec, per la regia Razvan Muresan, è un affondare nelle viscere, nella ferita ancora aperta del comunismo, nelle imposizioni, nel controllo e nella censura della dittatura. Il teatro nel teatro, come nei “Sei personaggi in cerca d'autore”, fa vivere le figure d'inchiostro ideate dal drammaturgo in una sorta di sogno-incubo tra donne incinte, Stalin che appare come il padre di Amleto, ora comprensivo adesso punitivo, topi giganti. Nodo centrale è la libertà negata e la follia, baratro nel quale vengono spinti i pensatori autonomi, gli intellettuali non allineati al sistema che tutto sgranocchia e appiattisce in melma, in melassa, nella solita pappa uniformata. Non può esistere satira né critica e la tortura è la soluzione, la panacea a tutte le deviazioni dell'individuo che vuole rivendicare la sua unicità. I nove attori si muovono con millimetrica disinvoltura in un piccolo spazio, non lesinando forza, sudore, corse, gioco sporco, cuore, impegno. Gli attori, la miglior cosa vista a Cluj.

Tommaso Chimenti 12/10/2016

Nelle foto (dall'alto): Rodrigo Garcia, Matei Visniec, gli attori del "Riccardo III"

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