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In principio tutto tace. Molte religioni o teorie metafisiche partono da questo assunto: all’origine vi è silenzio, giudicato come reale assenza di rumore. Ciò non significa che non vi sia possibilità di suono: basta una scintilla, un necessario atto della mente e il silenzio diventa parola. E la parola, il discorso è movimento, in primis del pensiero. Così, all’inizio di “Giudizio, Possibilità, Essere” di Romeo Castellucci, presentato il 30 giugno al Festival di Spoleto, vi è il silenzio dell’universo che si fa suono: attraverso delle diapositive, gli spettatori vengono messi a conoscenza che un buco nero appartenente alla Galassia di Perseo, circondato da gas, pare che emetta delle onde sonore, le quali potrebbero rappresentare il suono melodico dello stesso buco. Suono non udibile dall’orecchio umano, ma che uno scienziato ha provato a riprodurre con dei software.553679301072018130331

L’uomo vuole udire parlare il silenzio: ecco, quindi, che il volume del suono del buco nero viene alzato fino a far vibrare le casse stesse e, con esse, il cuore e la mente di chi è presente. Vibrazioni ancestrali che intimoriscono ed affascinano, fino a che tutto nuovamente tace e un cast totalmente al femminile entra lentamente in scena, vestito da Carmen Castellucci con abiti che ricordano le comunità amish americane, le più lontane dalle massive intrusioni della civilizzazione avanzata e le più vicine alla concordia con la Natura e i suoi frutti. Le ragazze non sono disposte a comunicare, né a dialogare: si tagliano la lingua, prima di riunirsi in una sorta di circolo iniziatico che ricorda i primi passaggi di un rituale misterico. Il disagio e l’agitazione interiori, a cui Castellucci sottopone costantemente il pubblico, sono già in questi primi minuti molto alti.
553679301072018130400Teatro, etimologicamente, deriva da un verbo greco che significa “guardare, vedere”. Eppure il regista e drammaturgo non vuole solo mostrare: ecco, dunque, che il suo teatro viene portato fuori dagli spazi più “istituzionali”, nella periferia della città del Festival dei Due Mondi, a San Giovanni di Baiano, precisamente in una palestra, anticamente l’elemento più importante del ginnasio, il luogo dove i giovani eseguivano esercizi ginnici, ma anche centro di cultura e istruzione.

Castellucci, che dal 1981 non dà mai nulla per scontato, ancora una volta sfida lo spettatore ponendolo di fronte ad una scelta: seguirlo nella sua attiva riflessione sull’essere umano, o lasciarsi sopraffare da ciò che vede e sente. Nel solco del più autentico “teatro della crudeltà” teorizzato dal drammaturgo e saggista francese Antonin Artaud, lo spettacolo della Societas Raffaello Sanzio procede per un replicare con bassa ricerca di espressività interpretativa un testo a memoria, fino quasi a renderlo superfluo, a lasciarlo scomparire o recitare da una riproduzione amplificata. Non è l’effettiva rappresentazione de “La morte di Empedocle” del grande poeta tedesco Friedrich Hölderlin (nella traduzione di Cesare Lievi) ciò che davvero rapisce lo sguardo, ma la fusione fra movimento e parola, quest’ultima non necessariamente in sincronia con i gesti: gli esercizi astratti delle attrici somigliano ad una danza perfetta, impenetrabile, elegante, ipnotica, tanto che neanche i canti popolari islandesi e la musica finale composta da Scott Gibbons stavolta riescono a distogliere completamente l’attenzione dello spettatore dalle azioni svolte, passando quasi in secondo piano. Persino quando il cast si riunisce in immobili gruppi separati che ricordano marmoree statue rinascimentali, l’interesse del pubblico è tutto per le interpreti.553679301072018130245

Le ragazze, tra cui spiccano in particolare le quattro protagoniste (Silvia Costa, Laura Dondoli, Irene Petris, Alice Torriani) che a turno si scambiano il ruolo del filosofo agrigentino, si fanno medium, mezzi attraverso cui far giungere un messaggio. Armate e pronte per una rivoluzione, scarse di risorse e esibendo una bandiera americana sudista (qui simbolo delle “cause perse”), le attrici eseguono la parabola di Empedocle così come prevista dalle tre stesure di Hölderlin, giungendo al “sacrificio” finale e rinascendo nude in quel ginnasio che le condurrà verso una nuova rivelazione, senza però consolazione o pietà di sorta. Ritornano, come Empedocle, a quella Natura che svela la finitezza dell’Uomo, in quanto Essere dai poteri conoscitivi limitati, il quale deve servirsi sia dei sensi (gesti), sia della ragione (parola) per comprendere ciò che egli chiama Vita.
Una tragedia colta, leggermente utopista, schietta, aspra, non smorzata o raddolcita da ricercati coinvolgimenti emotivi: il provocatore Castellucci ancora una volta va a segno.

Chiara Ragosta, 05/07/2018

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