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Accadeva che 90 anni fa, il 14 aprile 1930, moriva uno dei padri di quel teatro immediato, diretto ed efficace che era l’Agit-Prop: il poeta e drammaturgo russo Vladimir Majakovskij. Ma è accaduto anche che, 43 anni dopo la prima messa in scena de La Gaia Scienza, ha ripreso vita “La rivolta degli oggetti”, ora guidata dagli stessi protagonisti del 1976.
I testi e la regia di Giorgio Barberio Corsetti, Marco Solari e Alessandra Vanzi ripercorrono proprio la tragedia in versi di Majakovskij, attraverso una selezione di parole che affronta metaforicamente le questioni umane più varie.
Lo spettacolo è attualmente disponibile sulla piattaforma di RaiPlay, un’occasione per rivivere una messa in scena storica tornata coraggiosamente dopo tanto tempo. La rivolta degli oggettiTre giovani interpreti, Carolina Ellero, Dario Caccuri, Antonino Cicero Santalena, basici ed essenziali nell’aspetto, viaggiano sulla scena disseminata di oggetti con cui entrano in vivace sintonia, per una dialettica dell’incontro-scontro pronta a tradurre e rivelare la loro presenza anche come performer. 
Impossibile prescindere dal terreno natio dello spettacolo originario, figlio della Compagnia orientata alla sperimentazione, che guardava con interesse le nuove forme artistiche. La messa in scena ha inizio con i richiami alla Contact Improvisation di Paxton: i protagonisti si muovono in un campo di eventualità, versatile e provvisto della tensione che solo l’impatto casuale con un oggetto può dare. La carta, gettata a terra come un sentiero da seguire, si corrompe e permette la creazione di nuove figure tra gli interpreti.
Come un quadro surrealista, dove gli oggetti sono posizionati -apparentemente- in modo casuale, seguiamo le corse, gli spostamenti affannosi e sincopati dei protagonisti. 
La mutevolezza della scena si fonde a quella della vita reale, dove l’accidentale può intaccare l’ecosistema presente. L’acqua, lentamente, modifica il volto e le vesti dell’attore come le parole che gli fuoriescono dalla bocca, anch’essa preda dell’acqua.
Gli attori appaiono progetti sempre nuovi per una contaminazione delle forme di espressione e, conseguentemente, del loro approccio emotivo.
Un contesto drammaturgico saldo dove il fine ultimo è riuscire a trasmettere la tangibilità del rapporto con la scena, tramutandolo in parole e concetti universali.
Ma qual è il contenuto che abita le molteplici forme?
“La rivolta degli oggetti” appare oggi un esperimento meno evanescente ed onirico, per un pubblico ormai alfabetizzato al racconto teatrale atto a destrutturare gli spazi e i ruoli, abituato alla privazione di una consistente forma narrativa.
Un terreno aperto alle infinite possibilità sceniche e sensoriali, declinate attraverso arti differenti con la compenetrazione della cultura russa, da cui il testo nasce.
Il linguaggio a primo impatto frastagliato, concede al dispositivo teatrale di coinvolgere e attivare il pensiero del pubblico, con il compito di dover concludere le riflessioni sull’umano, nate dalle molteplici stimolazioni prodotte e consegnate dagli artisti.
Si compie il senso di un'elaborazione poetica continua e caotica, che si agita e si srotola con vigore riconnettendoci verso nuove suggestioni; testimoniando la plasticità di un testo consapevolmente rimaneggiato e ancora vivo dopo decenni, confermando l’efficacia delle parole di Majakovskij: azioni teatrali viventi e possibilmente mutevoli, sempre contemporanee e tese, senza fatica, alla possibilità di nuovi contesti storici e sociali.

Arianna Sacchinelli
16-04-2020

La sesta edizione del festival "Dominio Pubblico_la città agli under 25" è già iniziata, di fatto, alla conferenza stampa di presentazione tenutasi lunedì 10 giugno al Teatro Valle di Roma: in mezzo al foyer, gli artisti della Scuola di Circo BigUp, tra gli ospiti di quest’anno, hanno coinvolto a sorpresa il neodirettore del Teatro di Roma Giorgio Barberio Corsetti in una performance da giocoliere, con tre palle da far roteare in equilibrio sopra di sé. Un avvio di conferenza allegramente anarchico e irrituale che anticipa le parole chiave del nuovo festival (dal 14 al 23 giugno al Teatro India), “ribellarsi” e “sollevarsi”. E sono proprio ribelli che si sollevano nel panorama culturale romano i giovani organizzatori del progetto: "Dominio Pubblico" punta infatti a offrire spazio e visibilità agli artisti di teatro, danza, musica, cinema, circo e arti visive sotto i venticinque anni, in una città che, come ricorda il direttore artistico Tiziano Panici, troppo spesso «nasconde e tende a dimenticare». Panici ha ricordato la genesi del progetto, nato cinque anni fa «da due fucine culturali» della Capitale, il Teatro Argot Studio e il Teatro dell’Orologio. Malgrado la chiusura di quest’ultimo nel 2017, "Dominio Pubblico" ha potuto contare sull’ospitalità del Teatro India, che anche quest’anno sarà per il festival una casa «da abitare, da ripensare e, in qualche modo, da ampliare».

Restano amarezza e non poca polemica per il mancato inserimento (a differenza degli scorsi anni) del festival tra gli eventi dell’Estate Romana, come traspare dagli interventi di Fabio Morgan (direttore generale di Dominio Pubblico) e Luca Ricci (ideatore del progetto). Un «fulmine a ciel sereno», ha dichiarato quest’ultimo, che tuttavia non ha pregiudicato (anche grazie al sostegno economico della Regione Lazio) «un lavoro reale» che valorizza la messa in rete dei soggetti (in particolare giovani) per rimettere il teatro «al centro di un processo di appartenenza tra cittadini». L’incontro di lunedì è dunque proseguito con la presentazione degli oltre cinquanta eventi previsti nel calendario della nuova edizione. Per le sezioni di Teatro e Danza hanno preso la parola Sabrina Sciarrino e Mariaenrica Recchia della (rigorosamente under 25) Direzione Artistica di Dominio Pubblico. Tra gli spettacoli teatrali selezionati abbiamo Intimità (14 giugno) di Amor Vacui, Socialmente (15 giugno), di e con la Premio Ubu Claudia Marsicano, Amore (15 giugno) di Tristezza Ensemble, Pulcinella morto e risorto, scritto, diretto e interpretato Alessandro Paschitto (22 giugno), La Sposa Prigioniera (23 giugno) della Compagnia dei Giovanio’nest. Tra i lavori di danza selezionati ci saranno invece Granelli di cosmo, di e con Camilla Grandolfo, After, di e con Giovanni Careccia (entrambi in scena il 15 giugno) e Variazione: S. Velato (22 giugno) di Lorenzo De Simone.

La Sezione Musica si avvale quest’anno della partnership con LAZIOSound, progetto regionale teso a valorizzare i talenti musicali Under 35 attraverso un concorso i cui finalisti si esibiranno proprio nella cornice del festival: tra gli artisti selezionati, un riconoscimento speciale da parte di Dominio Pubblico andrà a Micol Touadi, voce del trio nu-soul Whitey Brownie, che si esibirà in occasione della serata di apertura il 14 giugno. Nuovo cinema under 25 sarà la sezione dedicata a cortometraggi e documentari, in collaborazione con diverse realtà del territorio tra cui Sapienza Short Film Festival e Zalib. Tra le molte altre partnership ricordate in chiusura di conferenza ci sono quella con il giornale Scomodo, che darà vita agli incontri del Roma Social Forum per confrontarsi sui problemi della Capitale, e quella con la Middlesex University of London per la masterclass Bordless, evento emblematico della vocazione anche internazionale del festival. Riassume perfettamente lo spirito della sesta edizione di Dominio Pubblico l’intervento di Alessandra Carloni, illustratrice, street-artist e autrice dell’immagine di quest’anno, raffigurante un supereroe-fanciullo che si solleva su una mongolfiera luminosa dal buio della città: «Rispetto al resto dei personaggi che rimangono indietro, perché ancora non sono pronti a svegliarsi, lui decide di prendere posizione e di sollevarsi. Un invito, per le nuove generazioni, a prendere coscienza, far sentire la propria voce e mettere in campo la propria creatività».

Emanuele Bucci 11-6-2019

Bisogna rappresentare la vita come ci appare nei sogni, non com’è o come dovrebbe essere”: in queste poche parole, tratte da Il Gabbiano di Anton Čechov, è racchiusa l’idea di Teatro di Luigi Siracusa, l’allievo regista del II anno dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”, che porterà in scena – nell’ambito del "Progetto Čechov" a cura del M° Giorgio Barberio Corsetti, nuovo direttore del Teatro di Roma – Sulla Riva di un Lago (studio da Il Gabbiano) il 2 e 3 marzo 2019 al Teatro Studio “E. Duse” di Roma.

Il tuo studio Sulla Riva di un Lago è tratto da Il Gabbiano di Čechov, una tra le opere maggiormente rappresentate del drammaturgo russo, quali sono i motivi della tua scelta?
"Il Maestro Corsetti, curatore del progetto, ci ha proposto inizialmente di lavorare sugli atti unici di Čechov, però fin da subito ho espresso il desiderio di mettere in scena Il Gabbiano, non solo perché è un testo che ho studiato e che mi ha sempre affascinato ma soprattutto poiché, in questo preciso momento della mia vita, avverto una grande aderenza tra quello che voglio comunicare e la percezione che ho di quest’opera. Mi è sembrato quindi il momento più giusto per affrontarla, contrariamente alle precedenti occasioni in cui avrei potuto farlo".

Cosa ha significato per te lavorare con il Maestro Giorgio Barberio Corsetti, un esponente così illustre del panorama teatrale italiano?
"Lavorare con Corsetti è stato estremamente stimolante. Al primo incontro, quando gli ho proposto di lavorare su Il Gabbiano, mi ha sostenuto, comprendendo da subito quanta importanza avesse per me questa scelta. Gli sono molto grato per aver acconsentito: solo un maestro, un mentore, riesce a guidarti sulla strada giusta con un tale grado di libertà. Giorgio, insieme alla professoressa Bortignoni, mi ha accompagnato in questa avventura non solo supervisionando il mio lavoro ma dandomi degli stimoli, delle scosse, che hanno spesso destabilizzato alcune delle mie convinzioni e soprattutto dando ascolto alla mia voce, al mio modo di fare teatro, aiutandomi così a perfezionarlo, a migliorarlo".

In che modo hai reinterpretato l’opera di Čechov?
"La mia idea è sempre stata molto chiara: ciò che mi premeva raccontare non era il pentagono amoroso tra i personaggi ma il loro rapporto con l’arte, di come questa abbia distrutto le loro vite. I loro fallimenti personali, le relazioni incompiute, sono soprattutto conseguenza di un mestiere che è diverso dagli altri, un mestiere nel quale non c’è discontinuità tra la vita dentro e fuori la scena. Molti personaggi comprendono che l’unico modo per andare avanti è sopportare, resistere come Nina. Ma quando un sogno si tramuta in delusione c’è anche un’altra strada, quella della resa, scelta da Kostja che decide infine di morire. Questa morte però la considero come un atto di libertà che il personaggio compie perché capisce che non c’è vita senza l’arte e gli affetti".

Cos’è per te la libertà, nell’arte e nella vita?
"Per me il Teatro è libertà: è raccontare seguendo un istinto, un punto di vista, ed ogni volta che non mi sento libero non riesco a farlo. Questa è una delle cose che ho capito in questi anni di sacrifici: il Teatro è dare corpo e voce all’immaginazione ed è questo per me il senso della libertà".

Quale è stata la difficoltà più grande che hai incontrato nel confrontarti con l’opera originale?
"Una difficoltà iniziale è stata disegnare lo spazio in cui avrebbero agito i personaggi, poiché per me la regia parte proprio da quello. La prima cosa che dovrebbe fare un regista è costruire un luogo dove i personaggi possano prendere vita ed in questo caso quel luogo è il lago. C’è stato anche un incontro di sintesi sul testo: oltre a sciogliere un po’ il linguaggio, ho lavorato, insieme al drammaturgo Michele Mazzone, su alcuni tagli al testo così da portare in scena solo i personaggi che ritenevo giusti per rappresentare ciò che mi premeva comunicare".

E cos’è per te la regia? Che rapporto instauri con i tuoi attori?
"Questo è un tema abbastanza complesso. Il secolo scorso è stato quello del teatro di regia, mentre oggi questa sensibilità è mutata. Io credo nella regia però credo anche che ogni spettacolo sia un mondo a sé. Il Teatro è un luogo di incontro ed ogni volta, in questo incontro, si stabiliscono delle regole diverse: ci sono dei testi che richiedono una forte presenza della regia ed altri in cui questa funziona meglio se invisibile. Uno degli aspetti positivi di essere in un percorso di formazione è anche avere la possibilità di lasciar parlare i testi, di far si che siano loro a comunicarci che tipo di regia realizzare. In questo studio ho optato per una regia invisibile, che dà valore ad uno spazio scenico in cui le vite agiscono in totale semplicità, sintesi ed astrazione, senza fronzoli né strutture. C’è solo un’umanità che parla ad un’altra, al pubblico che ascolta, partecipa e vive lo spettacolo. C’è comunque tanto di me nel testo, così come degli interpreti che spingo sempre ad essere autori dei loro personaggi".

Čechov scrisse che “non si enunciano pensieri profondi tutti i giorni e a getto continuo. No, quasi sempre nella vita si mangia, si beve, si fa l’amore, si dicono delle sciocchezze. È tutto questo che si deve vedere sul palcoscenico […] bisogna lasciare la vita qual è, gli uomini quali sono, seri, veri e non gonfi di retorica”. L’autore russo intendeva quindi liberare il Teatro da tutti i suoi schemi e rappresentare sul palco la vita stessa. Condividi la sua visione del Teatro? Cosa rappresenta per te?
"Credo che ci sia una frase del testo che possa esprimere il mio pensiero: Kostja dice che “bisogna rappresentare la vita come ci appare nei sogni, non com’è o come dovrebbe essere”. Non mi è mai piaciuta la rappresentazione realistica della vita, perché per me il teatro è l’unico luogo dove possiamo ancora sognare, è una bolla protetta. È chiaro che i personaggi agiscono in modo concreto, sono pur sempre uomini e donne con una loro vita, ma voglio che agiscano in uno spazio che non sia reale ma di sogno. Il Teatro è però anche un momento di riflessione, di confronto e credo che sia fondamentale trovare un modo per renderlo (così come l’arte in generale) necessario alle tante persone che non lo sentono come un bisogno".

Chi vorresti vedere seduto in platea e quali sono i tuoi progetti per il futuro?
"Mi piacerebbe vedere le persone che ho incontrato in questi anni di studi, coloro con i quali mi sono confrontato, i maestri, i colleghi, gli amici.
Di progetti per il futuro ce ne sono sempre tanti, la testa è sempre piena di immaginazione: chiaramente ciò che spero è di continuare a fare teatro, sia in questo luogo protetto – l’Accademia che ho tanto sognato – che al di fuori."

Sulla Riva di un Lago, studio da Il Gabbiano di Anton Čechov, è diretto dall’allievo regista Luigi Siracusa (con adattamento di Michele Mazzone e Luigi Siracusa), con Zoe Zolferino e gli allievi attori del II anno del Corso di Recitazione dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico” Cecilia Bertozzi, Lorenzo Ciambrelli, Carlotta Gamba, Michele Enrico Montesano, Diego Parlanti, Caterina Rossi e Giovanni Scanu. Le musiche originali sono composte ed eseguite dal vivo da Luca Nostro.

Silvia Piccoli 28/02/2019

La Parola è una potente Signora, metteva in guardia il sofista Gorgia. E sulla parola, infatti, è giocata “Le Rane”. Terminate le repliche de "I Cavalieri" di Solari, la commedia metateatrale di Aristofane torna al Teatro Greco di Siracusa il secondo anno consecutivo per la regia di Giorgio Barberio Corsetti con il duo di comici palermitani nei ruoli principali. Dioniso (Salvo Ficarra) si mette in viaggio con il suo servo Santia (Valentino Picone) per l’Oltretomba con l’intento di riportare in vita Euripide, poeta tragico per il quale lui – un dio – ha una vera e propria venerazione. Nel panorama contemporaneo, infatti, il dio dell’ebbrezza, delle metamorfosi e della tragedia non vede altro che «stupratori della poesia» (Aristofane compone “Le Rane” nel 406 a.C., a un anno dalla morte di Sofocle e di Euripide). È il peso delle parole a decidere quale, tra Eschilo e Euripide, meriti di tornare nel mondo dei vivi. E sempre la ricerca sul linguaggio è terreno di incontro tra antipodi: nel 1968 un giovane Pier Paolo Pasolini intervista Ezra Pound. Con l’inserimento di un brano di quell’intervista storica, Barberio Corsetti chiude le sue “Rane”.
LE RANE Ficarra e PiconeLe dinamiche servo-padrone del testo originale sembrano cucite addosso al duo Ficarra&Picone. La loro tipica cadenza palermitana ha fatto breccia nel cuore di tutta Italia, con una comicità autentica e genuina. Nel loro mirino, benevolo più che polemico, i pregiudizi a 360 gradi della società italiana: dai calciatori ai meridionali, dagli impiegati statali ai politici, da “Nati Stanchi” a “L’ora legale”, assicurano un ritratto placidamente comico e veritiero del Bel Paese. Il botta e risposta non dà tregua, così come i doppi sensi. In Aristofane pure, e lo scenario infernale suggerisce ulteriori spunti: «Io all’inferno mi sono divertito da morire», racconta un Eracle in pantaloncini rossi da basket (Roberto Salemi), fratello per parte di padre, al quale Dioniso si rivolge per un consiglio sulla strada migliore per raggiungere il regno di Ade in virtù della sua esperienza (il riferimento è alla dodicesima fatica che prevedeva il rapimento del cane Cerbero); «Qui ci scappa il morto», esclama impaurito Santia in fase di preparativi per il viaggio. L’interscambiabilità tra Ficarra e Picone è confermata anche dalle esigenze drammaturgiche che vogliono il travestimento di Santia in Dioniso, a sua volta mascherato da Eracle con clava e pelle di leone. Vestendo i panni di Dioniso e Santia traslitterano, di fatto, la ricetta della loro comicità nell’Antica Grecia: un po’ Don Chisciotte un po' Sancho Panza, Ficarra-Dioniso è un gradasso fifone, mentre Picone-Santia è una spalla perfetta. Tanto sono ben rodati i due, tanto è fluido lo spettacolo. Unico rallentamento al ritmo comico si avverte nel momento dell’agone tragico, quando a condurre l’azione sono Eschilo (Roberto Rustioni) ed Euripide (Gabriele Benedetti), mentre Ficarra e Picone si limitano ad osservare e commentare.
LE RANE EuripideIl coro di rane della palude infernale, che dà il titolo all’opera, è affidato al gruppo dei SeiOttavi, portavoce italiano del contemporary a cappella. Voci estremamente versatili, sonorità che ricordano le Chordettes Anni Cinquanta, in lustrini verdi e cappello da cabaret intonano il «Brekekex koax koax» delle rane infernali, componendo ed eseguendo dal vivo l’accompagnamento musicale dell’intera commedia. Il resto del coro, ovvero i sacri iniziati ai Misteri Eleusini, i dannati e i marionettisti, è nelle mani, anzi nei corpi e nelle voci, dei valentissimi e talentuosi ragazzi dell’Accademia d’Arte del Dramma Antico. Movimenti coreografici, recitazione, canto: si insinuano nei dialoghi principali sorreggendo la drammaturgia e la mobilità della scenografia, a cura di Massimo Troncanetti. Le riprese video – marchio di fabbrica irrinunciabile del regista – sono a cura di Igor Renzetti e risultano perfettamente funzionali nell’inquadrare i primi piani che nella grandiosità del teatro siracusano andrebbero perduti, quella mimetica facciale oltremodo espressiva e già di per sé maschera comica che il pubblico di Ficarra e Picone ha imparato a conoscere, da Zelig Circus alla produzione cinematografica.
Fino alla proiezione di quei pochi minuti di intervista in bianco e nero di Pasolini a Ezra Pound, la commedia di Barberio Corsetti aveva rappresentato un esempio riuscito di commedia antica resuscitata e riallestita modernamente fruibile e godibilissima. Quell’inserimento, però, in apparenza omaggio ai poeti del Novecento o provocazione gratuita, diventa ulteriore trait d’union con la contemporaneità. Il regista chiede al pubblico degli Anni Duemila: e oggi? La letteratura e il teatro cosa possono contro i mala tempora? Dioniso, indeciso su chi riportare in vita, affida ad un’ultima prova la risoluzione ed infine è Eschilo, pronunciando il consiglio migliore per la crisi di Atene, ad avere la meglio sul vacuo ed evanescente Euripide. Aristofane, reazionario e conservatore, credeva in un teatro politico. Le sue commedie parlano sempre al cuore politico e sociale del pubblico, mai solamente alla pancia (pur presente, tra scorregge e ammiccamenti fecali). Euripide, invece, fu il ponte dalla tragedia alla commedia borghese che da Menandro in poi avrebbe rappresentato il modello unico di teatro europeo. “Le Rane” sono una dichiarazione di poetica per antifrasi: Aristofane non si riconosce nel «cesello» di Euripide e nella sua umanizzazione della tragedia, aperta non solo a eroi e divinità ma anche ai servi; si riconosce piuttosto nel mos maiorum, nella vis guerriera, nel «dramma intriso di Ares» di Eschilo. E oggi? Chi scegliere tra l’eroe e il borghese? L’agone tra Eschilo e Euripide si risolverebbe con una riappacificazione: sono entrambi necessari nella loro complementarietà. Barberio Corsetti si appella a Ezra Pound e Pier Paolo Pasolini perché esemplari di uno scontro generazionale e ideologico risolto dalla Poesia. «Stringo un patto con te. Ezra Pound – dice Pasolini, parafrasando una poesia della raccolta "Lustra" – Ti detesto ormai da troppo tempo. Vengo a te come un fanciullo cresciuto che ha avuto un padre dalla testa dura. Sono abbastanza grande ora per fare amicizia». La risposta è sibillina: «Pax tibi, pax mundi».

Alessandra Pratesi
16/07/2018

Dopo i fantastici concerti del Pescara Jazz, che hanno visto sul palco del Teatro D’Annunzio Bobby McFerrin, Ravi Coltrane, Cassandra Wilson, Robert Davi, Ron Carter Foursith e altri grandi musicisti, il Pefest è tornato ad animarsi con l’opera “Histoire du Soldat”, di Igor Stravinskij sul libretto di Charles-Ferdinand Ramuz, messa in scena all’Aurum il 25 luglio.
Lo spettacolo, nato nell’ambito del progetto abruzzese “Backstage… on stage”, è frutto della collaborazione tra gli studenti e artisti dell’Accademia delle Belle Arti dell’Aquila, del regista Giorgio Barberio Corsetti, uno dei maggiori rappresentanti del teatro di ricerca italiano, già docente dell’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico, e del direttore d’orchestra Marcello Bufalini. Un’idea interessante e stimolante, per donare visibilità a “Backstage… on stage” e per far conoscere nella città adriatica il lavoro degli artisti dell’Accademia dell’Aquila, che merita giustamente una rivalutazione.
Il regista Barberio Corsetti, molto legato all’opera (già nel 1995 la portò in scena al Festival di Avignone nella versione riscritta da Pasolini, in collaborazione con altri notevoli registi come Mario Martone, Gigi Dall’Aglio e con l’attore Ninetto Davoli), questa volta trasforma la rappresentazione in un complesso di arti, musica, recitazione, teatro danza, pittura e istallazioni digitali. Sul palcoscenico solo quattro attori, il soldato disertore Giuseppe, il Diavolo (interpretato insieme da un uomo e da una donna) e un narratore esterno illustra la vicenda, ma infrangendo le regole classiche della narrazione, irrompe nella storia, dialogando anche con il personaggio principale, quasi come se fosse la sua coscienza. Sul fondo i pannelli neri compongono tutta la sceneggiatura dello spettacolo e diventano le tele di disegni proiettati digitalmente; immagini dai colori delle transavanguardie e che a tratti ricordano i dipinti di Chagall.
“Histoire du Soldat” è il racconto di un combattente disertore, che stanco di infinite fatiche vende il suo violino al Demonio in cambio dell’eterna ricchezza, ma allo stesso tempo perde gli affetti e i veri valori, che poi cerca invano di riconquistare, per cadere sempre nel tranello fino alla sua definitiva sconfitta.
Una storia che sembra emblema della contemporaneità, come del resto ci ricordava Pasolini, che fece vestire alla televisione e alla società di massa i panni del Diavolo. Facendo ancora un piccolo passo in avanti leggiamo ancora altro tra le righe: oggi siamo circondati da media che vogliono invogliarci a ottenere sempre di più, a coprirci di una voluttuosa apparenza, per nascondere spesso un’insoddisfazione profonda e una grande noia, che, alla fine, è forse il male di questa nostro tempo.

Silvia Mergiotti 29/07/2015

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