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Tra le celebrazioni leonardiane del 2019, in occasione dei cinquecento anni dalla morte di Leonardo da Vinci, la mostra a Palazzo Strozzi, a Firenze, è l’unica a livello internazionale che guarda al giovane Leonardo e alla sua formazione come allievo nella bottega del maestro Andrea del Verrocchio. Dal 9 marzo e fino al 14 luglio 2019, Verrocchio il maestro di Leonardo è la prima retrospettiva dedicata ad Andrea del Verrocchio che celebra una delle figure simbolo del Rinascimento e maestro di Leonardo da Vinci.
Curata da due tra i maggiori esperti del Quattrocento, Francesco Caglioti e Andrea De Marchi, e con una sezione speciale al Museo Nazionale del Bargello, la mostra riunisce capolavori di Verrocchio e degli artisti dell’epoca, a confronto con opere di precursori, contemporanei e discepoli, come Desiderio da Settignano, Domenico del Ghirlandaio, Sandro Botticelli, Pietro Perugino, Bartolomeo della Gatta, Lorenzo di Credi e, infine, Leonardo da Vinci. Essa è dunque centrata su un artista, Verrocchio, ma è al contempo l’affresco di un’intera epoca. Nessuno come Verrocchio, infatti, ha plasmato l’arte di Firenze negli anni di Lorenzo il Magnifico, tra il 1460 e il 1490 circa. Il percorso espositivo si dipana secondo un filo cronologico, radunando i temi e i generi da lui frequentati e rinnovati. Sono oltre 120 le opere tra dipinti, sculture e disegni con prestiti provenienti da oltre settanta tra i più importanti musei e collezioni private del mondo come la Royal Library di Windsor Castle, il Victoria and Albert Museum di Londra, il Metropolitan Museum of Art di New York, la National Gallery of Art di Washington DC, il Musée du Louvre di Parigi, il Rijksmuseum di Amsterdam, le Gallerie degli Uffizi di Firenze. Nella sede del Bargello, dedicata al tema dell’immagine di Cristo, si trovano i bronzi di Verrocchio dell’Incredulità di san Tommaso (1467-1483) per Orsanmichele. Le opere di Leonardo sono quelle degli esordi e sono in tutto sette, alcune delle quali per la prima volta esposte in Italia. Fin dalla prima sala, un confronto tra maestro e allievo si ha nella Dama dal mazzolino (1475 circa) del Bargello posta accanto allo studio di Braccia e mani femminili (1474-1476) di Leonardo da Vinci, concesso in prestito da Sua Maestà la Regina Elisabetta II. La presenza delle mani è l’aspetto più innovativo di questo busto-ritratto in marmo, il primo in cui si siano inserite le braccia: l’opera di Verrocchio diviene modello di riferimento per il suo più grande allievo che negli anni Settanta del Quattrocento lavora nella sua bottega. «Restando a lungo nella bottega di Verrocchio, Leonardo dovette impararvi a modellare benissimo l’argilla», dichiara il professor Caglioti. Come ricorda del resto anche Vasari: «nella sua giovanezza di terra alcune teste di femine che ridono [...], e parimente teste di putti che parevano usciti di mano d’un maestro». Firenze, la Toscana e l’Italia del centro e del nord furono zone subissate per quasi mezzo secolo di busti in terracotta, in stucco e in gesso plasmati da Leonardo e dagli allievi seguaci e rivali di Verrocchio. A tal proposito, importante è l’attribuzione di un nuovo Leonardo: la Madonna col Bambino (1472 circa), scultura in terracotta che per la prima volta esce dalle collezioni del Victoria and Albert Museum di Londra di cui fa parte dal 1858 e dove è solitamente esposta come opera di Antonio Rossellino. L’ultima sezione è dedicata al “piegar de’ panni”, all’esercizio assiduo del disegno nell’arte del panneggio per dipinti e sculture. Qui maestro e allievo catturano su tele di lino l’effetto della luce sui panni, simulato dal vero con stoffe bagnate su manichini. Verrocchio anima le superfici con sapiente uso della luce, in uno studio geometrico delle pieghe, delle masse e in un chiaroscuro quasi d’intarsi, mentre Leonardo in Panneggio di una figura inginocchiata vista di profilo (1470-1475 circa) sfuma vesti, drappi e tessuti. Quello da Verrocchio a Leonardo è l’inizio di un percorso studiato, misurato tra maestro e allievo, orafo e pittore, che conduce a un intreccio profondo e sempre continuo tra scultura e pittura. Verrocchio il maestro di Leonardo è l’inizio di una collaborazione tra Fondazione Palazzo Strozzi, Musei del Bargello e National Gallery of Art di Washington la quale non si esaurirà nella sede fiorentina, ma volerà oltreoceano, a Washington dal 29 settembre 2019 al 2 febbraio 2020.

Elvia Lepore, 12.05.2019

SESTO FIORENTINO – La forza e la potenza del nuovo circo, o circo contemporaneo, sta nel creare un doppio binario di ascolto; se da una parte emergono i “numeri” e le evoluzioni artistiche ed acrobatiche degli interpreti, classiche del circo (senza animali), dall'altra, di fondo, si sviluppa una storia, un plot, una drammaturgia sulla quale si agganciano le varie performance dei protagonisti. Quindi non più soltanto una scena dopo l'altra ma un continuum di flash circensi legati alla narrazione. Due binari per soddisfare anche due tipi di pubblico presenti: i bambini, più propensi a godere, a bocca aperta e naso all'insù, del gesto, e gli adulti accompagnatori che, oltre al momento fisico, riescono ad apprezzare anche quello contenutistico e di senso. E i MadgaClan, giovane gruppo ma già esperto, sono tra i migliori in questo tipo di nuova filosofia e concezione circense che dà molto spazio alla scrittura e al teatro. E' il caso del nuovo “Emisfero” che ha “abitato” un parco cittadino di Sesto Fiorentino per tre settimane; abitato proprio in senso letterale con lo chapiteau blu ad incorniciare le nuvole scure di questo maggio e le roulotte della compagnia che ha fatto suo il parco, lo ha vissuto creando un'atmosfera magica (nonostante il tempo novembrino moltissime le presenze delle famiglie ad affollare il tendone) di lucine da varietà e pop corn, i colori pastello sfocati, l'aria vintage nostalgica che fa tornare tutti indietro nel tempo come fosse una fotografia seppiata e ingiallita.02-MagdaClan-Circo-Emisfero-Nicola-Zolin__web.jpg

“Emisfero” ha due accezioni: è una parte del globo terrestre come esiste quello cerebrale. Siamo di fronte ad un mondo che mischia la realtà e il sogno, sogno che a tratti diviene incubo, per poi trasformare nuovamente la vita reale dei protagonisti. Un Re (perché c'è sempre un Re nelle storie d'avventura) e la sua corte, un Sire (il cervello stesso) sempre annoiato e distratto, un Signore dittatoriale che ha tutto e non si rende conto della fortuna che ha e che dà tutto per scontato, considerando i suoi giullari (sinapsi e neuroni) come arredamento o oggettistica da utilizzare invece che vederli come validi collaboratori. Una favola anche sul cambiamento, sul ravvedersi, sul mutare opinione, sul tornare sui propri passi e capire che avevamo sbagliato in precedenza, chiedendo scusa non tanto a parole quanto nei fatti. Il Re, che si muove in hoverboard tra gimkane e zigzagate ardimentose, ci ha fatto venire in mente quello cantato da Dario Fo come la Regina scontrosa di Alice nel Paese delle Meraviglie, Gargamella con i Puffi (lotta e dipendenza reciproca) o, per salire di livello, Riccardo III o Macbeth, per finire con il patafisico Ubu Re.

Addirittura, raffinato tocco che apre e chiude la piece, escono da sotto un tavolo le mani dell'autore, ignoto e nascosto, che battono a macchina le parole che andranno a comporre la storia, il drammaturgo che fa vivere e aziona, attraverso la sua creatività e fantasia, i personaggi nati dalla sua immaginazione, finti in quanto pensati, reali proprio perché portati alla luce dal suo inchiostro. E' anche uno spettacolo sul liberarsi, dalle forme, dai preconcetti, sul rompere le catene dei ruoli e delle regole prefissate da altri, con questo Re che, dopo essere caduto nella ragnatela del sogno, ridestandosi, cambia atteggiamento verso le “persone” che lo circondano sentendosi finalmente sollevato, amato, capito e più felice perché ha attorno amici e non sudditi, fidati assistenti e non schiavi. Una costruzione ricca e profonda, di fatica fisica ed equilibrismi complicati, che è riuscita a ben coniugare corpo, muscoli e, appunto, cervello.

03-MagdaClan-Circo-Emisfero-Nicola-Zolin__web.jpg“Emisfero”
Regia : MagdaClan Circo
Interpreti e co-autori: Giulio Lanfranco, Davide De Bardi, Sorisi Daniele, Tiphaine Rochais, Lucas Elias, Elena Bosco, Achille Zoni, Antonio Petitto, Veronica Maria Canale.
Equipe tecnica: Giorgio Benotto, François Neveu, Meron Celentano; occhio esterno: Petr Forman, Roberto Olivan, Alessandro Maida; cura: Annalisa Bonvicini; disegno luci: Giorgio Benotto

Visione scenografica e proiezioni: Andrea Avoledo e Giovanni Iafrate; Costumi: Giorgia Russo; Allestimento: Andrea Avoledo e Elisabetta Maniga; Produzione: MagdaClan Circo, con il sostegno di: MiBAC, Ministero dei Beni e Attività Culturali, CIRQUEON Praga, Bunker Torino, Blukippe ginnastica – Padova. Coproduzione: FLIC Scuola di Circo, Dinamico Festival, La Corte Ospitale – Teatro Herberia residenze 2018.
Visto a Sesto Fiorentino, il 5 maggio 2018

Tommaso Chimenti 06/05/2018

Foto di Nicola Zolin

CALENZANO – Non si può travisare così una faccenda complessa come quella del “Mostro di Firenze”, tradirla sotto il punto di vista delle carte processuali, dal punto di vista delle vittime, della semplificazione sui moventi e sui criminali che vi furono dietro, conosciuti o che non sono usciti o ancora non si sono voluti incriminare. Una ricostruzione banalizzata, quella di Eugenio Nocciolini, che indugia troppo sulle serate precedenti gli omicidi, facendo diventare la messinscena una fiction vernacolare esaltando l'idea, confutata da tutti i processi, di un unico serial killer, appunto Il Mostro o il “Nessuno” del titolo, con la sua voce calda fuori campo che ci spiega le sue motivazioni religiose e moralistiche. Non escono fuori nomi né indizi né personaggi legati alle alte sfere della società fiorentina dell'epoca, i famigerati chirurghi o le feste in stile Eyes wide shut, i riti satanici ed esoterici creati attorno agli organi genitali estratti.

Nessuno-Mostro-2.jpegNon c'è pietas verso le vittime trattate come numeri da espletare nella rincorsa verso la fine. Manca l'umanità, l'affondo psicologico nei parenti delle vittime (ad esempio il padre di Pia Rontini sfinito nelle udienze), quelli che abbiamo visto peregrinare negli anni nei corridoi dei Palazzi di Giustizia e nei processi senza ottenere granché, manca totalmente l'approccio a quel mondo alto e violento, marcio e vigliacco, misero e squallido del quale i Compagni di Merenda erano solo la punta dell'iceberg, la manovalanza bassa, manca l'intento di andare a fondo sulla testa dell'organizzazione. Una tesi poi, quella di fondo, di un killer, solitario, misterioso, quasi affascinante nel suo non farsi scovare, che uccide per fantomatici motivi moralistici, contro le donne adultere, o religiosi, contro le “deviazioni” degli omosessuali; soffermandoci sugli omicidi dei due ragazzi tedeschi qui Nocciolini fa dire alla voce misteriosa, che ha aleggiato su Firenze dal '68 all'85, che quella di colpire i due ragazzi fosse una scelta consapevole, proprio perché gay, fatto che mai è stato sottolineato da nessun processo: fu un errore perché uno dei due portava i capelli lunghi e poteva somigliare ad una donna.

Ricostruzioni piene di illazioni, ricostruzioni dei momenti precedenti alle uccisioni che si trasformano in scenette da filodrammatica, le serate prima dove manca totalmente l'immergersi nell'atmosfera tragica, il pathos delle vittime ma ci si sofferma troppo, per un lungo inutile minutaggio, su dettagli insignificanti (ad esempio la scena della partita). Quando ci si ridesta dal singolo quadro quasi si è perso di vista il motivo per il quale stiamo a teatro, il titolo della piece, l'argomento del quale si vuole trattare. Una scenetta dopo l'altra, il bar, il salotto (l'impostazione si avvicina, purtroppo, ai “Delitti del BarLume”) con una lingua inaudibile, un fiorentino vernacolare che quasi ci fa perdonare i “poveri” autori delle sevizie, ci fa sorridere dei loro strafalcioni letterari sgrammaticati, ci fa ricordare la parte più casereccia, pecoreccia e rustica dell'umano.

pietro-pacciani.jpgLa lezione di Ugo Chiti è stata scordata, dimenticata, neanche presa in considerazione, ovvero quella di rendere il fiorentino arcaico, quello delle campagne rozze e rudi, non tanto il cantato di “è primavera svegliatevi bambine, alle Cascine messere Aprile fa il rubacuor” o “la porti un bacione a Firenze” ma una lingua di chiaroscuri, di ombre, buia e tagliente, grossolana come mani abituate alla vanga e alle zolle, una lingua che incute timore e non rilascia risolini, una lingua animalesca e cupa, di spessore, e non questa serie di smodati intercalari di un volgo che forse non è mai esistito se non negli stereotipi da barzelletta, nei cliché da battuta. Quasi si giustificano i vari Pacciani, Lotti e Vanni, non si cita nemmeno la possibilità di altri componenti di questa possibile terribile banda di criminali, si dimenticano i processi. Non un grande servizio alla collettività e non un grande apporto alla discussione di una comunità che ancora, ciclicamente, si interroga sulle modalità, su come sia potuto accadere, sul perché i veri complici e responsabili non siano finiti in galera, su tutto quel mondo di mezzo, quel sottobosco che gravita e aleggia, e sicuramente anche oggi pulsa da qualche parte (non sparisce, non si esaurisce), che unisce le campagne più rozze ai palazzi più nobili di questa Firenze (con la sua provincia) che non è la cartolina che ci vogliono vendere ma che invece è costellata di sangue dai Medici ad oggi.

Dispiace perché il Teatro Manzoni di Calenzano sta rialzando la testa e quest'anno ha proposto un cartellone di qualità, presentando, poche settimane fa, un'analisi sul Massacro del Circeo; ecco se quella occasione è stato un momento per riflettere sulla nostra società e sui perché che furono alla base di quella violenza, di quella concezione della donna, sul pericolo che certi focolai riprendano vigore, questa sul Mostro di Firenze appare più un'opportunità persa che niente aggiunge anzi fuorvia e, forse, non rispetta nemmeno la memoria delle vittime. L'ideavittime-678x380.jpg drammaturgica di fondo travisa la realtà (l'approccio errato al dramma), i martiri, povere coppie di ragazzi innocenti con l'unica colpa di cercare un riparo dove amarsi, messe in secondo piano, la voce del killer solitario (tratteggiato come Jack lo Squartatore, con il suo carico e bagaglio di enigmi, arcani e misteri che ce lo fa diventare incuriosente) che ci spiega la sua filosofia, ce lo umanizza da una parte attraverso l'esplicazione delle sue debolezze, dall'altro lo enfatizza amplificandolo fino a farlo diventare un semidio che ci guarda, ci osserva, ci giudica e sceglie se punirci o meno per i nostri peccati terreni, per le nostre fragilità.

Dispiace per i bravi attori interni al progetto (Monica Bauco, Antonio Fazzini, Roberto Gioffré, Gabriele Giaffreda sottoutilizzati o non a pieno delle loro possibilità sceniche) che forse non dovevano essere messi insieme agli allievi della Scuola di Formazione di Calenzano che hanno, inevitabilmente, abbassato il livello. Ricordiamo le vittime innocenti: Barbara Locci e Antonio Lo Bianco, Stefania Pettini e Pasquale Gentilcore, Carmela De Nuccio e Giovanni Foggi, Susanna Cambi e Stefano Baldi, Antonella Migliorini e Paolo Mainardi, Horst Wilhelm Meyer e Jens-Uwe Rusch, Pia Rontini e Claudio Stefanacci, Nadine Mauriot e Jean-Michel Kraveichvili.

“Nessuno. Il Mostro di Firenze”, visto al Teatro Manzoni, Calenzano, Firenze, il 30 marzo 2019.

Tommaso Chimenti 01/04/2019

FIRENZE – “Accendi un sogno e lascialo bruciare in te” (William Shakespeare).

Cenere siamo e alla cenere torneremo. Ma anche sotto la cenere cova il fuoco. Viene dalla fredda e gelata Norvegia (dove c'è il ghiaccio sta anche la fiamma per potersi riscaldare) questa pièce, “Ceneri”, questo incastro tra burattini, prima in miniatura e poi a grandezza naturale, e la sfera attoriale, questo incrocio tra la marionetta che prende vita e sembra umana e l'uomo che con essa si confronta, parla, interagisce, perdendo entrambi le proprie sembianze originali. Molto interessante il plot (i direttori del Teatro di Rifredi, Mordini e Savelli, li hanno visti ed apprezzati ad Avignone) con due famiglie, due storie parallele, due narrazioni di padre e figlio che si rincorrono, si aggrovigliano fino a tendere l'una nell'altra, fino a guardarsi allo specchio. Due i punti di vista: il pupazzo, mosso nell'ombra da mani veloci e buie tanto da scomparire allo sguardo, e lo scrittore che descrive la scena. Come essere catapultati in una sorta di “Sei personaggi”, al sapore di Ibsen o al gusto di Munch, dove l'autore vivifica e materializza le sue parole e crea le figure che ha appena descritto con l'inchiostro nelle sue pagine.Ceneri©Kristin_Aafløy_Opdan_02_rifredi.jpg

Il conflitto generazionale è il perno sul quale ruota questa doppia vicenda: da una parte la storia di un ragazzo piromane che incendiava case e fattorie, cascine e fienili nel 1978 nel Paese scandinavo (è stato anche pubblicato il romanzo “Prima del fuoco” di Gaute Heivoll, su quegli accadimenti realmente avvenuti, e dal quale è stato tratto il lungometraggio “Pyromaniac”) figlio di un pompiere (la mente vola subito al draghetto Grisù che invece che incendiare voleva fare il vigile del fuoco o a “Fahrenheit 451” da Bradbury passando per Truffaut), dall'altra lo scrittore, con il suo pc sul boccascena, che cozza con il padre rude e ruvido cacciatore di alci. Lo scrittore è nato proprio nei mesi nei quali si svolgevano i fatti e questo (ci pare un po' poco il nesso e il legame non regge molto) sembra unire in qualche modo la sua esistenza indissolubilmente al piromane.

Al Teatro di Rifredi (scopritori di teatro internazionale d'alta qualità) abbiamo avuto modo negli anni di assistere a meravigliosi spettacoli senza parole che esplodeva di senso in perfetto equilibrio tra una grande maestria teatrale e artigianale immersi in contenuti profondi; pensiamo alla Familie Floz o ai Kulunka. Certo in quel caso erano le maschere le protagoniste a differenza dei burattini di questo “Ceneri”. Manca qualcosa, la storia è debole, forse un fuoco di fondo, quel quid che poteva legare esponenzialmente le due famiglie, le due infelicità dei figli e la loro protesta nei confronti del padre, il primo che incendia e distrugge contro il genitore che bagna e seda la scintilla, il secondo tentando di elevarsi e cercare soddisfazione in un lavoro di concetto e intellettuale sconfessando il machismo patriarcale. Ma il parallelismo non tiene, dopo un po' si scioglie e si sfalda, l'amalgama non regge, il collante mostra le crepe. E' molto forzato, o non è spiegato a sufficienza, o mancano degli anelli di congiunzione. “I roghi non illuminano le tenebre” (Stanislaw Jerzy Lec).

La ffanchon_bilbille_.jpg__454x266_q95_crop_upscale.jpgigura del piromane (a grandezza naturale ricorda molto l'autoritratto di Van Gogh) si amplifica e diventa ora la coscienza, ora il Grillo Parlante adesso un Lucignolo nei confronti dello scrittore in un dialogo continuo tra se stesso e le sue paure, timori, angosce, dubbi, incubi (il lupo gigantesco che s'issa alle sue spalle). Semmai possiamo trovare un punto di congiunzione tra i due figli tentando di elaborare la psicologia di fondo che li muove: la vendetta, il senso di ribellione, l'opposizione che nel primo caso diventa distruttrice e nella seconda invece si fa positiva e promotrice. Ma entrambi vogliono affermazione e richiedono attenzione, vogliono battere i genitori, il primo sfidandolo sul suo terreno, pungendolo nell'orgoglio, il secondo provando a riuscire in un mestiere agli antipodi del padre. “Non si può asciugare l’acqua con l’acqua, non si può spegnere il fuoco con il fuoco, quindi non si può combattere il male con il male” (Lev Tolstoj).

C'è una guerriglia sotterranea, il primo la affronta direttamente, il secondo cercando una strada diversa. Tutti e due cercano consenso: lo scrittore attraverso l'egoticità e l'autorefenzialità del proprio nome sul volume stampato, il piromane attraverso le fiamme che lo ergono a deus ex machina, a fautore di luce, a creatore di distruzione e morte, quasi il Dio del Vecchio Testamento. La marionetta diventa l'alter ego del letterato, la sua parte più buia e più cattiva, in un trasfert junghiano che ha il sapore di Psycho. Qui i pupazzi si fanno a grandezza naturale come le loro fattezze incredibilmente vicine, e scambiabili, con quelle umane. Ma non basta a far scattare la fiammella. Si sente che l'ingranaggio non è stato reso così comprensibile.

“Dentro di noi abbiamo un lupo buono e un lupo cattivo. Tra i due vincerà quello che nutrirai di più” (Motto Cherokee).

Tommaso Chimenti 10/02/2019

A Firenze il teatro riparte dai classici. Per riattivare il Teatro Niccolini, gioiello architettonico incastonato tra i palazzi di via Ricasoli a due passi da Santa Maria del Fiore, i giovanissimi attori della compagnia de “i Nuovi” diretti da Marco Baliani dall'11 al 22 aprile portano in scena la favola teatrale di un illustre fiorentino: “La Mandragola” di Niccolò Machiavelli.

Mandragola locandinaNicia, dottore in legge, è sposato con la bella Lucrezia, ma la coppia non riesce ad avere figli. Callimaco è innamorato di Lucrezia. Si presenta dunque a Nicia nella veste di medico e propone una soluzione alla sterilità della coppia: una pozione a base di mandragola che permetterà alla donna di restare incinta, ma il primo uomo con il quale giacerà morirà. Di qui la soluzione di mettere nel letto di Lucrezia un garzonaccio (in realtà Callimaco stesso). Fra Timoteo e Sostrata sono incaricati di vincere, attraverso la materna e cristiana persuasione, l’onestà della donna. Siro e Ligurio collaborano a tessere le trame e a convincere lo scettico marito. Gravidanza con effetto immediato e, per ringraziare lo zelante medico, Nicia acconsente a far trasferire Callimaco nella loro magione.
Il plot è noto, il gusto boccaccesco, il riso amaro, la riflessione sulla natura dell’uomo e della società pessimista. A scrivere è l’autore del “Principe”, il politico esiliato e deluso. Amareggiato. “Una commedia è uno specchio della vita reale” afferma Machiavelli nell’unica dichiarazione di poetica desumibile nel suo corpus. Il classico triangolo amoroso (Nicia-Lucrezia-Callimaco), qualche macchinazione (la beffa ideata da Ligurio ai danni di Nicia per favorire l’amico Callimaco), servi burloni doppiogiochisti (Siro) e frati dalle ampie vedute (Fra Timoteo), la plautina notte degli inganni, l’aristofanesco banchetto a coronare il lieto fine, conciliante ma non pienamente soddisfacente. Tutti gli uomini sono rei, diceva Machiavelli nel “Principe”. E infatti non si salva nessuno, nemmeno la fortezza di virtù (apparente) che è Donna Lucrezia.
Ispirandosi all’operazione compiuta da Fassbinder sulla goldoniana “Das Kaffeehaus”, Marco Baliani mette in scena una dark comedy, dal gelido umorismo che non muove alla risata ma immobilizza il pubblico e lo costringe alla riflessione e all’autoanalisi. Firma una regia e una riscrittura la cui cifra stilistica è da ricercare nel mood di Machiavelli durante l’esilio e in quella malattia dell’anima che segna, contagiosa, il sentire di un’epoca. Di quel male nero (la melancolia), “La Mandragola” di Baliani e dei Nuovi è il ritratto, pur rappresentando il promettente starting point della nuova era del Niccolini: passa in rassegna vizi e limiti delle umane genti senza possibilità di salvezza ed ogni personaggio si presenta come un tipo umano sul modello della commedia dell’arte. Ci sono il troppo stupido e credulone Nicia (Sebastiano Spada) e la sua troppo virtuosa consorte Lucrezia (Nadia Saragoni); la madre di lei, Sostrata, spregiudicata e disincantata (Beatrice Ceccherini); c’è il furbetto traffichino Ligurio (Francesco Argirò) in combutta con il bello e bravo kalòs kaì agathòs Callimaco (Athos Leonardi), con il servo Siro al seguito (Filippo Stefani) e il frate ben disposto a reggere il gioco e favorire l’inganno (Francesco Grossi).
Mandragola ombreL’azione è ambientata in una scena scarna e oscura fatta di panche e panneggi damascati porpora a fondo nero, i personaggi vestono total black (scene e costumi a cura di Carlo Sala). Baliani riduce in un atto unico senza intervallo i cinque originali, snellisce qua e là, aggiunge il lazzo delle urine à la Molière e l’inserto comico-intellettualoide della definizione simil enciclopedica e stregonesca della radice di mandragola e delle sue proprietà miracolose. Ad arricchire l’azione, altrimenti piuttosto statica, una scenografia work in progress (panche spostate, accatastate, accantonate), la componente musicale come parte integrante della drammaturgia e l’impiego dei mimi. I Nuovi dimostrano capacità e potenziale: cori a cappella sui ritmi dei madrigali a ricreare l’atmosfera, assoli da musical ad esplicitare i pensieri dei personaggi. E le ombre (Filippo Lai, Davide Diamanti, Maddalena Amorini, Laura Pinato), veri e propri doppi che con il linguaggio del corpo e brevi coreografie commentano e accompagnano la vicenda, con un risultato simile ai pantomimi impiegati da Emma Dante nella sua “Cenerentola” rossiniana, per intenzioni, e, per risultati, al “Folk-s” di Alessandro Sciarroni.
L’intervento del regista si estende fino alla sfera linguistica, in un’operazione di avvicinamento della forma e dei temi alla contemporaneità. In tal senso viene eliminata la celebre battuta in cui si sostituisce “carrucola” a “Verrucola” (ossia il monte Verruca vicino a Pisa che era stato lo scenario di un’impresa militare fiorentina di successo), riferimento che risuonava certo alle orecchie del primo pubblico ma risulterebbe oscuro oggi. Eppure vengono lasciati i riferimenti alle spade degli ungheresi (quando Nicia dice a Callimaco: “Ho più fede in voi che gli ungheresi nelle loro spade”). Complessivamente adattamento più che traduzione, vengono abbandonati vernacolo e regionalismo e viene offerta una proposta valida nella forma letteraria e attoriale, scenica e musicale.

Fondato a metà Seicento, frutto del desiderio di avere un luogo interamente dedicato al teatro indipendentemente dalla corte medicea, viene intitolato al drammaturgo livornese nel 1860 e venduto alla famiglia Ghezzi nel 1934. Trasformato in sala cinematografica fino agli anni Settanta poi sottoposto ad una serie di restauri, è inattivo dal 1995 ed infine acquistato da Mauro Pagliai nel 2006. Nel 2018 il Teatro Niccolini dà il via ad una rinnovata e inedita stagione di teatro ed etica sociale. Sotto l’egida della Fondazione Teatro della Toscana, 16 allievi neodiplomati della Scuola per Attori “Orazio Costa” del Teatro della Pergola (“i Nuovi”) prendono in carico il teatro, la sua gestione materiale, amministrativa e artistica. Un percorso di formazione a 360 gradi sulle professioni del teatro di durata triennale che li vede già impegnati nelle operazioni di accoglienza al pubblico, pulizia dello stabile, promozione degli eventi e, last but not least, collaborazioni con registi di fama nazionale e protagonisti di produzioni ad hoc. “La Mandragola” inaugura la serie e torna a fare "il tristo tempo più suave".

Alessandra Pratesi
22/04/2018

Ph. Filippo Manzini
Spettacolo visto il 17 aprile (secondo cast).

Quello di CANGO Cantieri Goldonetta è uno spazio suggestivo che si presta alla sperimentazione e all’immaginazione, plasmandosi ogni volta a rappresentare un altrove ancestrale ed evocativo. Un luogo in cui prendono vita e sono rappresentate le creazioni coreografiche del fiorentino Virgilio Sieni; tra sabato 24 e domenica 25 marzo 2018 va in scena “Illuminazioni” su musica di J.S. Bach.

IlluminazioniVirgilioSieniphValdinaCalzona1Dopo la notevole riscrittura scenica del balletto “Petruška”, Sieni torna a giocare sulla mescolanza di antico e contemporaneo e sui sensi degli spettatori: le impressioni uditive e visive, interrotte e talvolta stravolte con l’alternanza di silenzi, respiri, rumori e musica, di luce, ombra, penombra e buio, di movimenti vorticosi, gesti ad alta definizione formale, movenze appena accennate e artisticamente sporche o impercettibili. Il titolo è programmatico; diverse “Illuminazioni” prendono forma nello spazio scenico, sia nel senso più banale del termine, che nel suo significato metaforico. L’illuminotecnica è fondamentale nella coreografia: luci diffuse, di taglio ed effetti di controluce che rendono statuari i corpi dei danzatori, ma anche luci fievolissime che innescano nel pubblico la voglia di vedere meglio, di vedere di più. L’illuminazione è anche quella mentale di un’idea che nasce a partire da qualcos’altro, come dalla percezione delle “Suites per violoncello solo” di Bach: note e ritmo sono seguiti ed eseguiti dagli interpreti che si fanno ora archetti sulle corde, ora vibrazioni sonore, ora la bacchetta di un direttore inesistente che dirige il violoncellista. IlluminazioniVirgilioSieniphEmilianoCertini2Non è la prima volta che il noto coreografo fiorentino lavora con il compositore barocco, pensiamo a “Sonate Bach _ di fronte al dolore degli altri”, tuttavia di significato e forma profondamente diversi.

“Illuminazioni” è una messinscena bipartita, scissa in femminile e maschile; le prime a esibirsi sono le giovanissime Noemi Biancotti e Linda Pierucci, seguite dal duo Jari Boldrini e Marurizio Giunti. Ogni coppia lavora sulla scoperta dell’altro, del movimento reciproco; è anche un guardarsi allo specchio, un lavoro sulla sincronia e sulla continuità. Tutto è un divenire, un trasformarsi, non esistono pose ma solo puro movimento. I due danzatori rappresentano due linee complementari che si uniscono e si separano formando fluide frasi coreografiche sulle Suites. Il primo capitolo, quello femminile, richiama i lavori di maestri contemporanei come Trisha Brown, interagendo con spazi palpabili, basandosi sulla ripetizione e sulla ri-scoperta dei movimenti, in un crescendo dai più semplici ai più complessi. La seconda parte, maschile, è maggiormente legata all’illuminazione: richiama atmosfere oniriche, mondi lontani, immaginari e poco definibili e mostra il corpo nelle sue potenzialità anatomiche. Sieni rende viva un’altra opera ricca di suggestioni, con l’obiettivo della continua sperimentazione ma senza mai prescindere dal passato, dalle origini. Ed è un caso riconoscere il celebre pezzo ballettistico dei quattro cigni in un frammento che si ripresenta, con variazione, in entrambi i segmenti?

Benedetta Colasanti 30/03/2018

Sipario rosso, buio, silenzio e atmosfera di sorpresa. È ciò che accade pochi attimi prima dell’inizio di ogni spettacolo teatrale. Ma si tratta di qualcos'altro: si sente infatti una musica lontana, gridi di guerra. Nell’oscurità, un fascio di luce illumina di taglio Alessandro Mannarino e la sua chitarra acustica. Tra le tappe del tour del cantautore romano, il Teatro Verdi di Firenze, ormai infestato dagli spiriti dei personaggi che abitano il suo Impero: Marylou, Deija, Babalù e i tanti animali tra cui i pesci del mare. Dopo più di quindici anni di carriera Mannarino ha creato un vero regno ma l'"Impero crollerà", il suo scopo è distruggerlo: «qualunque sia il tuo Impero, ovunque si trovi, qualsiasi nome abbia, ci deve essere da qualche parte un suono che lo farà crollare». La scelta di esibirsi nei teatri italiani è curiosa: si tratta della ricerca di uno spazio più intimo? Di un altrove sacro e ancestrale per mostrare i suoi dei? Un’operazione di protesta nei confronti dei luoghi comuni? Sperimentazione artistica?
Presentandosi come cantastorie, figura ormai Mannarino fotodiPaoloPalmieri1perduta, Mannarino pratica un recitar-cantando che ricorda qualche grande cantautore del passato; narra fiabe per adulti in cui non critica ma stimola la riflessione su temi più che attuali. Discutere di politica, religione, scienza, crudeltà umana, amore, famiglia, solitudine, paura e attrazione per l’ignoto non lo spaventa e se nelle prime canzoni lo faceva senza filtri, adesso usa sottili metafore; prendendo le distanze dal tema trattato, stimola un discorso critico disincantato, oggettivo, sincero. Si rivolge a personaggi diversi incontrati per strada o nei suoi viaggi. Nel tour 2018 porta con sé brani tratti dall’ultimo album "Apriti Cielo" (“Roma”, “Apriti Cielo”, “Arca di Noè”, “Babalù”, “Le Rane”), da "Al Monte" (“Malamor”, “Deija”, “Gli Animali”, “L’impero”, “Scendi Giù”, “Al Monte”, “Le Stelle”), e indietro nel tempo da "Supersantos" ("Rumba Mannarino fotodiPaoloPalmieri3Magica", “Serenata Lacrimosa” w "Marylou") e dal "Bar Della Rabbia", con versioni riarrangiate di “Tevere Grand Hotel” e “Me So’ Mbriacato”. Notevole la versione personalizzata di “Ultra Pharum”, il nuovo singolo composto con Samuel, alla cui musica associa le parole de "L'Onorevole".
Ogni titolo è una storia, ogni album un pellegrinaggio. Pensiamo ad "Apriti Cielo", esito artistico di un viaggio in America Latina. In quest’occasione assorbe e sperimenta sonorità etniche, come già in parte aveva fatto con “L’impero” e con i ritmi popolari italiani e balcanici degli album precedenti. I ritmi latini fanno danzare l'anima e l’organico strumentale, già ricchissimo, accoglie nuove idee dall’esterno. L’Impero di Mannarino è supportato da un esercito di musicisti poliedrici e di talento che non solo lo accompagnano, ma si esibiscono con lui in un unico e perfetto meccanismo contrappuntistico.
La scenografia è costruita su atmosfere ricche di ombre che rimandano a foreste esotiche inutilmente colonizzate. Una bandiera si innalza dai fumi del sottobosco e si fa guidare da un caldo vento. Un manifestante e un onorevole amplificano la propria voce con un megafono; sui visi, segni tribali di battaglia. Gli interpreti si esibiscono in penombra, quasi insinuandosi nel golfo mistico, facendosi sentire prima che vedere. La musica è palpabile, le vibrazioni sonore si fanno via via più forti fino a far crollare idealmente l’Impero dei pregiudizi che avvolge il nostro quotidiano, per trascorrere una serata di libertà in mondi incontaminati e per concludere con un grido di spensieratezza. E ricordando, infine, che dopo la spensieratezza di una sera in compagnia, si torna a casa guardando le stelle e chiedendo loro risposte, dimenticando che non sono altro che lo specchio in cui si proiettano i nostri pensieri.

Dove va a finire
il profumo delle stelle
che da qui non si sente…

Dopotutto, ognuno lotta contro il proprio Impero interiore.

Foto: Paolo Palmieri

Benedetta Colasanti 27/03/2018

 

FIRENZE – “Pensa a tutta la bellezza rimasta attorno a te e sii felice” (Anna Frank).

L'impianto scenico rispecchia i temi che in questi anni Emma Dante ci ha abituato a cogliere, e apprezzare, nel suo teatro: una lingua biascicata e sporca, una realtà squallida e intrisa di povertà, miseria, analfabetismo e provincialismo, la sconfitta dei suoi personaggi fiabeschi e contemporanei allo stesso tempo. Stavolta la drammaturga palermitana affonda le mani su una delle favole noir di Giambattista Basile, capostipite seicentesco partenopeo, ben prima dei Grimm, della tradizione della fiaba.La-Scortecata-184.jpg
La versione della Dante de “La scortecata” (prod. Festival Spoleto, Teatro Biondo Palermo) prevede due figure, le anziane sorellastre (interpretate da due attori nel solco della tradizione en travestì anche se qui lavora più d'immaginazione che per costume) e, in mezzo a loro, un castello fiabesco in miniatura azzurro come il Principe che deve abitarlo, blu come il sangue che gli dovrebbe scorrere nelle vene. In un misto, anche questa cifra riconducibile e marchio di fabbrica, tra il polveroso vintage seppiato di colori fuliggine e un pop melò (grazie anche agli intermezzi con gli inserimenti della grande tradizione napoletana della canzone nostalgica), che fa frizione e incastro poetico, queste due sorelle, nel chiuso claustrofobico spoglio della loro autoreclusione e prigionia emarginata, sviluppano un corpo a corpo fatto di recriminazioni e gelosie, invidie e rimasugli di quella vita alla quale si stanno aggrappando con tutte le forze residue. Il giovane Regnante si è innamorato della voce di una delle due, le quali, con un esercizio orale da fellatio compulsiva, levigano il mignolo dalle rughe per presentarlo attraverso la fessura di una porta (che fa voyeur ma anche cintura di castità e ci porta con la mente alla locandina de “La chiave”) e sembrare così il ditino di una fanciulla.
La-Scortecata-029.jpgUn conflitto dialettico interno (sognando e fantasticando le beltà del reale) senza esclusione di colpi, sgrammaticato, irto e pungente, corrosivo, come arpie ad azzannarsi ma, allo stesso tempo, a volersi bene, ad amarsi riconoscendosi l'un l'altra il ruolo di supporto e stampella di una vita intera. Le due (Salvatore D'Onofrio e Carmine Maringola sugli scudi) attraverso il linguaggio del corpo fatto di artriti e gobbe, di posture sciancate e gambe trascinate, di colonne vertebrali storte, ci parlano di deformità ma anche di vecchiaia, di accettazione di sé ma anche di consapevolezza, di solitudine come di abbandono. Si trovano, come naufraghe, nel mezzo di una tempesta che sanno perfettamente che le condurrà alla sconfitta, senza alcuna possibilità di vittoria: da una parte vorrebbero non osare e rimanere nel limbo squallido, ma almeno conosciuto e ovattato, di questo duetto raccolto nella loro catapecchia, dall'altro vogliono avere e concedersi l'ultimo giro di giostra, l'ultima probabilità di essere felici.
Il fil rouge scorre tra una grande padronanza fisica e tecnica di D'Onofrio e Maringola, il primo più contenuto, l'altro più istrionico, l'uno più tra le righe, l'altro esplosivo (ce li dipinge in un universo pastellato come elfi o come nani di Biancaneve), e una sequenza melodica che spazia da “Reginella” a “Comme facette mammeta”, da “Simme 'e Napule, paisà” mixata con “Mambo italiano” fino a “Cammina Cammina” di Pino Daniele. Coinvolgente.

“Non bisogna amare per amore, ma per schifo. Perché l'amore finisce, ed è una delusione. Anche lo schifo finisce, però è una soddisfazione” (Massimo Troisi)

Visto al Teatro di Rifredi, Firenze, il 22 marzo 2018

Tommaso Chimenti 23/03/2018

Da Eduardo De Filippo a Luigi Pirandello. Dopo l’inganno di “Filumena Marturano”, messa recentemente in scena, Liliana Cavani si occupa ironicamente degli onesti. “Il piacere dell’onestà” è una commedia scritta intorno al 1917. A partire dal 14 marzo 2018 va in scena al Teatro della Pergola di Firenze con Geppy Gleijeses e Vanessa Gravina nei ruoli protagonisti.

Ilpiaceredellonesta11«Ecco, veda signor marchese: inevitabilmente, noi ci costruiamo. […] Ma, in fondo, dentro queste costruzioni […] restano poi ben nascosti i pensieri nostri più segreti, i nostri più intimi sentimenti, tutto ciò che siamo per noi stessi, fuori delle relazioni che vogliamo stabilire». È con questa premessa che si presenta il signor Angelo Baldovino (Gleijeses). Non c’è commedia più tragica di quella di Pirandello; l’opera è interpretabile su più livelli: uno superficiale, piatto, statico; uno profondo, intimo e ricco di tremende verità. Tra apparire e essere c’è il dramma di non appartenere a nessuna categoria sociale se non a quella degli emarginati. Pirandello non parla di maschere ma del disagio di vivere in un corpo che non ci piace, che ci sembra estraneo e che silenziosamente obbedisce a convenzioni da cui vorremmo fuggire. Per chi non conosce la trama, la sensazione è quella di assistere a un complicato e non svelabile intreccio. Angelo Baldovino e Fabio Colli fanno un patto: il primo sposerà l’amante incinta del secondo; ma le bugie hanno le gambe corte e sono vulnerabili. Nel gioco fra reale onestà e onestà di facciata, i personaggi sono infelicemente in lotta con sé stessi e con il mondo. Torna in scena l’espediente del matrimonio, centrale nella “Filumena Marturano” e usato da Pirandello anche in “Pensaci, Giacomino!” e “Ma non è una cosa seria”. L’amore è l’ultimo dei problemi: a vincere è la falsità di un’unione che ha il solo scopo di conseguire interessi primari come quello di non infangare il proprio buon nome e di non contrastare con la morale condivisa. Ma anche i personaggi più ipocritamente onesti sono destinati a crollare; diventano irosi, si sfogano, piangono, e lo fanno nel privato delle mura domestiche. Con l’ausilio della scenografa Leila Nerli Taviani, la Cavani costruisce un’elegantissima scenografia in stile anni ’20: un arredamento pulito e ricercato per una perfetta dimora borghese. D’altra parte risponde a un gusto contemporaneo per l’arredo che richiama il vintage ma non rinuncia alla praticità del moderno. Così, oltre a trasferire la vicenda nei nostri giorni, la scenografia scandisce il tempo della commedia: i tre cambi di scena corrispondono ai tre atti. Il secondo richiama più degli altri l’attualità, presentando quello che potrebbe essere un ricco ufficio degli anni Duemila.

Ilpiaceredellonesta3Geppy Gleijeses, alla sua quarta interpretazione pirandelliana e dopo aver lavorato con Liliana Cavani nella precedente messinscena teatrale, si cimenta in una nuova avventura: «Baldovino è un personaggio strano perché è come se fosse avvolto nel mistero» afferma. Nel monologo su citato l’uomo rimane timidamente fermo davanti alla porta, come se dovesse costruire il proprio personaggio prima di entrare effettivamente in scena. La regista rende toccante questo momento attraverso una sonorità grave e a tratti quasi impercettibile; si tratta di un’immedesimazione nell’immedesimazione, complessità sottile che è propria di Pirandello. Secondo Gleijeses è il non detto che rende interessante il suo personaggio: «cerco di non dare al pubblico tutte le risposte», altrimenti «non si appassiona». L’attore protagonista, artista poliedrico, fa tesoro della propria esperienza come capocomico e sale sul palcoscenico del Teatro della Pergola con consapevolezza e ponderazione: ogni movenza e ogni singola emissione vocale è curata nel dettaglio e presuppone un significato profondo, un atteggiamento dell’anima, una chiave di lettura per il non detto. Accanto a lui Vanessa Gravina che entra in scena a piedi nudi, in preda a una crisi isterica femminile e canonica nel teatro e nella letteratura di inizio Novecento; con movimenti controllati e gesti tra il meccanico e il ricercato, conferisce freddezza al personaggio di Agata. Sul palco, inettitudini come quelle di “Una vita” di Svevo, di personaggi che sono umani solo nei loro monologhi. Pirandello sembra voler prescindere dall’inconscio e dall’interiorità propria di autori come Dostoevskij e Joyce, occupandosi di una quotidianità immediata, vissuta passivamente senza prestare ascolto ai sentimenti. Non c’è via d’uscita, non c’è spazio per i sogni. La Cavani rappresenta il testo di Pirandello dando l’impressione di un articolato piano sequenza, complice la sua esperienza come regista cinematografica.

Benedetta Colasanti 15/03/2018

Un omaggio al balletto “Petruška”, rappresentato per la prima volta nel 1911 al Théâtre du Chatelet di Parigi su coreografie di Michel Fokine e musiche di Igor’ Stravinskij. Il protagonista è una marionetta vittima di un incantesimo, vista non nel successo dell’esibizione ma nella miseria del retroscena. Petruška soffre per l’amore non corrisposto di Ballerina e il Moro, rivale in amore, lo uccide davanti agli occhi attoniti del pubblico. Non c’è niente da preoccuparsi, ammonisce il ciarlatano, si tratta solo di una marionetta. Ma Petruška ha un’anima ed è pronto a vendicarsi. Comincia da qui la storia raccontata da Virgilio Sieni nella sua nuova creazione coreografica, in scena dal 27 febbraio all’11 marzo a Firenze presso Cango Cantieri Goldonetta.1PetruskaChukrumVirgilioSieniRoccoCasaluci

«La tragedia d’Oreste in un teatrino di marionette!» annuncia il signor Anselmo Paleari nel “Fu Mattia Pascal” di Pirandello. «Sarà l’Elettra. Ora senta un po’ che bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe?». È la rivoluzione copernicana di burattini che si rendono conto di ciò che sono; è la brama di Pinocchio che vuole diventare un bambino vero; è il sentimento dell’uomo che esce dal proprio microcosmo per esplorare il mondo. Carnevale e folklore popolare, incantesimi, automi e ballerine sulle punte sono gli elementi principali del balletto romantico. “Petruška” è una ventata di rinnovamento sia nell’estetica del balletto – pensiamo alla componente drammatica e al protagonismo maschile – sia nella musica: la composizione movimentata, dissonante e bizzarra di Stravinskij, definita «sporca» dalla Filarmonica di Vienna, conferisce alla storia e ai personaggi canonici un nuovo statuto: da eterei e perfetti a brutalmente onirici. Stravinskij collabora attivamente con i Balletti Russi di Djagilev musicando, oltre a “Petruška”, “L’uccello di fuoco” e “La sagra della primavera”, il primo ripreso regolarmente dalle compagnie classiche e il secondo danzato da molti contemporanei, pensiamo all’israeliano Emanuel Gat.

Sieni trasforma lo spazio del Cango in un suggestivo teatrino di marionette. Il suo progetto ha a che fare con l’estetica ma non esula dalla ricerca, salda base su cui poggiano i passi di danza. Tra stage e astanti, uno schermo opaco che imprigiona i performers e disturba la visione. Sulle note di “Chukrum” di Giacinto Scelsi, spettatori e danzatori ambulanti come ciechi cercano un contatto visivo interrotto, impossibile. Ombre distorte, corpi e mani in una condizione esasperata e intrappolata tentano di emergere in superficie. 4PetruskaVirgilio SieniRocco CasaluciSono ricordi del passato, anime che come i morti del fiume Acheronte hanno lasciato qualcosa in sospeso. Nella cultura mondiale vivono ancora le maschere della Commedia dell’Arte; Firenze è un punto nevralgico di questo genere performativo: al teatrino della Dogana e nel privato della Corte Medicea andavano in scena le commedie degli Zanni. Le maschere si ripresentano nel Carnevale e in alcuni caratteri macchiettistici del teatro e del cinema; non sono più quelle infernali di Tristano Martinelli né quelle beffarde e leggere di Domenico Biancolelli, sono fantasmi malinconici. Sieni dimostra di conoscere profondamente questa cultura e va oltre, esplorando in modo psicanalitico l’interiorità del ballerino in quanto uomo. La musica di Stravinskij, tra il giocoso e lo spaventoso, rievoca sentimenti antichi e sensazioni inconsce, infantili, lontane, sincere. Dopo aver esplorato il primordiale in precedenti produzioni come “Cantico dei Cantici”, i danzatori della compagnia - Jari Boldrini, Ramona Caia, Claudia Caldarano, Maurizio Giunti, Giulia Mureddu e Andrea Palumbo - continuano il viaggio temporale giungendo fino all’epoca di Stravinskij. Si spogliano di ciò che indossano quotidianamente, si mostrano nella propria nudità e vestono i veli sbrindellati di Petruška, rappresentandone diverse sfaccettature. Si muovono a scatti, stravolgendo la propria formazione classica e divincolandosi in una danza concitata e acrobatica che è sinonimo di tormento emotivo; agiscono all’interno di una scatola scenica minimalista ma elegante, fatta di velari color rosa cipria che contornano lo spazio performativo. L’uso delle maschere è significativo: richiama la tradizione, rende disumano il performer e permette, come nell’antichità, di distinguere i vari personaggi. Un’opera singolare, ricca di spunti e rimandi non solo al passato ma anche alle mode attuali, si pensi ai videoclip musicali della cantante australiana Sia, danzati dalla giovane Maddie Ziegler, un tipo di spettacolo lontano da quello di Sieni nel contesto, nelle modalità e nei significati ma similare nello stile e nei costumi.

Benedetta Colasanti 12/03/2018

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