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Avanza solenne. Soppesa ogni passo. Aspetto androgino, peplo rosso, corazza e sguardo fiero. La fierezza di chi è consapevole del privilegio di cui investito. Quando attraversa il palcoscenico siracusano, Valeria Solarino esprime un rispetto profondo verso quel luogo antico. Valeria Solarino è la Vergine sacrificale che si concede al dio Teatro, la sua è una processione sacra. Come novella Atena, guerriera dell’intelletto, presta la voce all’eroe cancellato nel monologo di Alessandro Baricco, “Palamede”, che chiude il 54° Festival del Teatro Greco di Siracusa.
Palamede Baricco ph. Franca CentaroValeria Solarino è un Palamede iconico, rappresenta la Verità sconfitta. “Verità” è parola antica. Le sue radici arrivano fino all’indoeuropeo, e lì cominciano le ambiguità, oscillando tra l’oggettività di un fatto realmente accaduto e la sfera di credenze e scelte. Tra scienza e fede. Lo spiega Baricco nel monologo iniziale, lungo ma necessario. Soltanto 40 minuti, in realtà, ma didascalici e ridondanti, importanti per introdurre il personaggio e questioni come le fonti, le mentalità e la simbolizzazione del mito, pane quotidiano per i filologi, meno per il variegato pubblico siracusano. Recupera, lui fondatore della Scuola Holden, la questione dello storytelling (“mito” per i Greci) e illustra come i poemi omerici non siano altro che un recipiente per conservare e trasmettere valori: in ogni personaggio dell’“Iliade” è condensata un’esperienza umana. Somma era nei Greci «la capacità di sintetizzare la geografia umana», afferma; se la furia bellica aveva nome Achille e il potere Agamennone, l’intelligenza trova degni rappresentanti in Odisseo, l’astuto, e Palamede. Era un uomo giusto, bello, coraggioso. Intelligentissimo. Eppure tutti ricordano Odisseo, dal multiforme ingegno, Palamede no. Eppure Odisseo (e ciò che lui rappresentava) aveva l’appoggio dell’élite che contava, Palamede no. Odisseo non era coraggioso, aveva evitato in tutti i modi di imbarcarsi per Troia per combattere una guerra che non gli apparteneva. Il giusto Palamede no, e quando si reca ad Itaca per convocare Odisseo ne smaschera la finta pazzia. Da quel momento tra i due sarebbe corso solo sangue avvelenato dal risentimento. Così Odisseo lo incastra, producendo le false prove di un mai avvenuto tradimento. Il sofista Gorgia da Lentini, dopo secoli, in uno dei suoi esercizi retorici a dimostrazione del potere della parola, della forma sopra il contenuto, scrive il discorso che Palamede dovette sostenere, prima di essere condannato alla lapidazione, davanti ai generali Achei.
Presentato allo Stadio Palatino di Roma in occasione del Roma Europa Festival 2016, l’anno successivo all’Olimpico di Vicenza e in onda su Rai 5, Palamede torna nel suo habitat naturale, quelle pietre antiche in cui riecheggia il peso della storia e che la Solarino ha abitato con riverenza somma. La scenografia, essenziale, accompagna lo spettatore in questo viaggio accelerato nel tempo e nella tradizione culturale occidentale. Tutto viene affidato alla parola. Le luci (Roberto Tarasco) e gli stacchi musicali declinati come fenomeni acustici (Nicola Tescari), sono funzionali al discorso e ricoprono lo stesso ruolo della punteggiatura: accentuano il pathos, creano suspense. L’impressione è che sia il teatro stesso a parlare e a raccontare la storia tra le storie.
Palamede Solarino ph. Franca Centaro«Non di vita o di morte si discute, ma di onore e disonore»: la difesa di Palamede è cominciata. È l’eterna storia del giusto condannato ingiustamente, dell’Invidia che prevale sul Bene, della tirannia della minoranza. È la storia dell’oscurantismo contro l’illuminismo, è Galileo contro la Chiesa postconciliare. Palamede mostra di non avere movente; dimostra che, anche volendo, non avrebbe potuto e, anche potendo, non avrebbe voluto: «tradire la Grecia è impossibile, volerla tradire insensato». Vendere ai Troiani il modo per entrare nell’accampamento degli Achei? L’eroe al quale i Greci attribuiscono l’invenzione della parola d’ordine, degli scacchi, del nome delle stagioni, delle unità di misura, l’eroe che aveva ordinato il disordine del mondo non poteva aver ordito il tradimento di cui lo si accusava. Aveva dedicato la forza della sua mente al servizio dei Greci di oggi e di domani: non poteva essersi macchiato di un crimine simile. 
Per una sera gli spettatori di Siracusa sono gli Achei chiamati ad ascoltare l’accorata ma lucidissima difesa di Palamede: Baricco lo riporta alla vita, Valeria Solarino gli presta la solidità della sua voce e del suo corpo scenico con una potenza magnetica e commovente. L’applauso finale esplode come un tributo a tutto il festival e ha il sapore di un arrivederci all’anno prossimo. Il morale della favola di fine stagione è nella sapienza comunicativa che la cultura classica ha conservato intatta, dalla maestria compositiva delle storie, agli insegnamenti etici, agli ammonimenti perché si impari dal passato – mitologico o storico – a non ripetere gli stessi errori.


Ph. Franca Centaro

Alessandra Pratesi
25/07/2018

Se assistere ad uno spettacolo negli antichi teatri greci significa presentarsi ad un appuntamento con la storia, la 54° edizione del Festival del Teatro greco di Siracusa va oltre ed invita a fare il punto dello stato dell’arte del teatro oggi. È inevitabile, d’altronde, quando il dittico delle tragedie porta le firme di Yannis Kokkos e di Emma Dante. Come negli agoni tragici la scelta dei titoli della trilogia formava un unico spettacolo, così gli allestimenti siracusani sono espressioni di una medesima progettualità, a cura di Roberto Andò, direttore artistico della Fondazione INDA. Ed una comprensione dell’uno non può prescindere dall’analisi dell’altro. I registi sono due esponenti del teatro contemporaneo che a Siracusa testimoniano di due direzioni opposte ma complementari e necessarie del teatro odierno: due facce di una stessa medaglia che si confrontano e dialogano offrendo due prodotti di altissima qualità artistica. Dal 10 maggio al 24 giugno l'“Edipo a Colono” di Yannis Kokkos e l’“Eracle” di Emma Dante si alternano sulla scena fisica del teatro per ricostruire quella mentale e politica del potere, secondo la definizione di Luciano Canfora che presta il suo sostegno storico e filologico all’edizione 2018.

Schermata 2018 05 28 alle 19.28.26I testi sono due classici del patrimonio classico, “Edipo a Colono” di Sofocle “Eracle” di Euripide, che presentano no pochi punti di convergenza. Ad affrontare un destino impervio è sempre l’uomo, con le sue fragilità e debolezze, semplice marionetta nelle mani capricciose degli dèi. Entrambi gli eponimi si macchiano di delitti indicibili senza averne consapevolezza. Eracle fa strage della moglie Megara e dei figli credendoli la prole di Euristeo, il fratellastro re di Micene che gli impose le dodici fatiche in “una cavalcata di follia” dettata dalla gelosia di Era che in Eracle vede il frutto dell’amore adulterino di Zeus per Alcmena. La storia di Edipo è, se possibile, ancor più desolante, perché dopo aver ascoltato gli oracoli e aver fatto tutto ciò che era in suo potere per evitare che si compissero le orrende profezie, si allontana da quelli che crede i suoi genitori, ma quando arriva a Tebe uccide Laio e sposa Giocasta. Inconsapevole. Quando capisce, si cava gli occhi e si allontana dalla polis accompagnato dalla devota Antigone, figlia e sorella. “Cerca pure quanto vuoi, ma non vedrai mai un uomo che può sottrarsi al dio che lo trascina”, dice Antigone al coro di vecchi, “un dio ha distrutto in un attimo il destino di un uomo”, commenta angustiato il corifeo con riferimento a Eracle. Non rimane che Teseo, re di Atene, amico di Eracle e ospite compassionevole di Edipo, a rappresentare un’ancora di salvezza arginando il desiderio di morte dell’uno e ponendo fine al vagabondare dell’altro. Teseo diventa il comun denominatore simbolo di democrazia, la luce nel buio della tirannide di Lico e di Creonte che si sostituiscono con la forza al legittimo sovrano. Una democrazia capace di accogliere e perdonare, di comprendere senza giudicare. Una lezione di politica e di civiltà che ci viene dalla sapienza degli antichi e che assume un significato particolare nel clima di vuoto governativo post 4 marzo. 

INDA Edipo francovich caronia Centaro

Di mai esaurita attualità si dimostrano anche le tematiche che, orizzontali, attraversano le due tragedie, dalla famiglia all’accettazione benevola del diverso. Imprescindibili e strutturali per i Labdacidi, i legami di sangue sono fortissimi e costantemente rimarcati da Megara, madre e moglie. Nella condizione dell’Edipo esule e nell’ipotesi che i figli di Eracle prendano la strada dell’esilio per allontanarsi dalla furia di Lico prende forma la dialettica inclusione/esclusione dello straniero. La condizione della vecchiaia, infine, accomuna i due veri protagonisti, due anziani dal corpo martoriato che rimpiangono di non avere l’energia e l’impeto per combattere le avversità del destino: il cieco Edipo e l’Anfitrione su sedia a rotelle.

Per nascita entrambi singolarmente legati alla tradizione della Grecia e della Magna Grecia, i registi Yannis Kokkos (Atene, 1944) e Emma Dante (Palermo, 1967) portano in scena due eloquenti prove del teatro d’attore e di parola l’uno, del teatro di regia l’altra. Dove si ferma l’uno, osa l’altra. Dove è statico, ieratico e monocromo l’uno, è dinamismo, ritmo e cromie accese l’altra. Dove è recitazione e poesia l’uno, è azione e gesto l’altra. Se Yannis Kokkos presenta una traduzione corretta, grammaticalmente ineccepibile, Emma Dante compone una belle infèdele. Due artisti con due visioni nitide e distinte di teatro antico il cui spirito viene avvicinato alla sensibilità moderna, restituito con abiti rinnovati.INDA Edipo coro donne Carnera

Lui, Yannis Kokkos, veste i 57 artisti, tra coro e attori principali, degli abiti scuri e castigati della Grecia della sua giovinezza e dei postbellici anni ’50, un’intonazione incolore e grigia investe coerentemente tutto l’allestimento, che trova nella parola declamata, sofferta, soppesata vigore e bellezza. Il testo (nella traduzione di Federico Condello) è scandagliato magistralmente. È il testamento spirituale dell’anziano Sofocle che ad un’ultima prova drammaturgica affida il suo commiato dalla vita; è l’ultima sfida dell’eroe della Sfinge, un Edipo ormai cieco e anziano che va a Colono per morire purificato e in pace; è la grande interpretazione di un grande attore, Massimo De Francovich, che sulle sue spalle ultra ottuagenarie sostiene la responsabilità di un intero spettacolo. Dal suo entrare in scena fino all’attraversamento di quella statua antropomorfa nel cui busto, alto 6 metri, è collocata la porta che divide il mondo dei vivi dal mondo dei morti, l’Edipo di De Francovich è il re indiscusso della scena e della parola, coadiuvato da prove attoriali mature ed emergenti. Si distinguono in particolare la vibrante Ismene di Eleonora de Luca, il Creonte villain istrionico e alla ricerca di consenso di Stefano Santospago e il Messaggero di Danilo Nigrelli, che nella potenza evocativa del suo parlato nasconde la ricchezza dei cuntisti. Il coro, formato dai ragazzi dell’Accademia D’arte del Dramma Antico, riempie plasticamente con i suoi volumi l’immensa e asimmetrica scena ideata da Kokkos stesso: la statua-portale e il bosco sacro delle Eumenidi al centro, da qualche pietra in primo piano e dalla porta d’oro simbolo di Atene di lato. Gli dèi, infine misericordiosi, con “i tuoni continui, così fitti e i colpi delle folgori” annunciano a Edipo che la fine dei tormenti del fisico e dell’animo si avvicina. “Non essere mai nati è la fortuna che supera ogni altra. Ma se l’uomo viene alla luce, ritornare presto là da dove è venuto è la migliore sorte che ti rimane”, è la celebre gnome qui affidata al virtuosismo del coro, tra assoli, sincroni, pianti funebri e canti liturgici. 

Schermata 2018 05 28 alle 19.27.30Lei, Emma Dante, percorre la strada multidirezionale della composizione e ricomposizione della tradizione visiva, narrativa, rituale dell’Occidente. Sceglie un cast tutto al femminile in cui persino all’eroe per antonomasia è un’attrice che presta corpo e voce: Eracle è Maria Giulia Colace, poderosa ma meccanica. La Dante lavora sugli archetipi, su un’idea di personaggio. E così Eracle è forza suprema (“era uno che ammazzava bestie”, lo taccia Lico con riferimento alle fatiche dell’Idra e del leone di Nemea) e una follia inarrestabile annunciata dai gesti nervosi e dagli occhi spalancati. Megara incarna la maternità e la dignità regale (una forse troppo artefatta Naike Anna Silipo); Lico è la quintessenza della hybris (una studiatissima Patrizia Zanco). L’Anfitrione di Serena Barone restituisce la saggezza popolare degli anziani ed è, infatti, l’unico a parlare con la cadenza del dialetto palermitano; offre la migliore prova attoriale, al punto da far nascere il sospetto che vero eroe eponimo sia lui, non il figlio Eracle. Modula la voce e la fisicità (costretta su una sedia a rotelle a sottolineare la sua condizione minoritaria di anziano, come già il Creone dell’“Emone” per la regia di Raffaele di Florio), assume intonazione tragica e comica assecondando e alterando il corso degli eventi, si propone come spalla e rifugio per la (presunta) vedova e i suoi figli, tiene testa ai deliri di onnipotenza di Lico. La Dante plasma e reifica l’immaginario visivo dell’antropologia e del folklore nostrano, con l’abile sinergia di costumista (Vanessa Sannino) e scenografo (Carmine Maringola). INDA Eracle mariagiuliacolacecentaroTrasforma Eracle in un pupo senza fili nelle mani degli dèi e Megara in una Madonna arcaica da mostrare in processione, con copricapo, manto e corone di fiori a ornamento. Il coro dei vecchi tebani (gli allievi dell’ADDA, unica componente al maschile del cast) assume la foggia e le movenze dei dervisci turchi dalle gonne roteanti, ma anche delle beghine timorate e ricurve, non dissimili dalle streghe del “Macbettu” di Alessandro Serra Premio Ubu 2017, fino alla danza vorticosa ed estenuante sul modello di Loïe Fuller del messaggero che annuncia e rievoca la morte di Lico. Vestite di fucsia e con una mimica facciale talmente grottesca ed esasperata da sembrare maschere, sono Sabrina Vicari, Mariella celia, Silvia Giuffé, Sena Lippi, i mimi al seguito del tiranno Lico, esecutrici di terrore e violenza. I personaggi sono le pedine di una “festa di morte”, di un “baccanale senza gioia” (secondo le parole del corifeo) e si muovono in uno scenario che trasuda morte: la frons scenae è allestita come un cimitero, tappezzata di foto in bianco e nero dei defunti del secolo scorso, abitata da vasche-sarcofagi per le abluzioni rituali e da croci lignee che girano al variare del vento (artificiale) a sottolineare che la giostra della vita non si ferma mai. Eracle non ha più nulla dell’eroe, gli resta solo l’armatura di metallo e fama. È un borghese, ormai, con il suo pesante fardello di errori con il quale convivere: “Vorrei diventare una statua, immemore dei miei dolori”, confessa Eracle a Teseo, “Ti comporti da donna”, gli risponde l’amico con sommo effetto di ironia metateatrale. INDA Eracle coro centaroCon Euripide si attraversa il confine che divide l’epico e il quotidiano e si traccia la strada per quella commedia nea lontana dai grandi temi della politica. Il dolore di Eracle è tutto umano. E così la musica (a cura di Serena Ganci) con il quale viene presentata la sua famiglia è Chopin, accompagnamento per eccellenza delle famiglie bene dell’Ottocento per sfociare nelle dissonanti e aggressive sonorità di Aphex Twin. Commentano la morte e conducono gravemente ad una conclusione senza redenzione il suono stridente degli archi, le melodie arcaiche dei canti popolari e il ritmo senza tempo dei tamburi delle bande popolari di paesi della Sicilia orientale come Buccheri e Motta Sant’Anastasìa. A lenire i dolori dell’uomo, ormai, solo il venerando padre e quell’amico sincero resuscitato dall’Ade, Teseo, che mostra all’eroe di un tempo eterna gratitudine e umana consolazione. La misericordia e l’empatia di un uomo verso l’altro uomo: ecco l’immortale insegnamento che ci consegna il dramma antico.

Ph. Alessandra Pratesi, Franca Centaro, Gianni Luigi Carnera

Alessandra Pratesi 28/05/2018

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