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Trasformare i difetti in virtù: il secondo album in studio de La Municipàl è un elogio all’imperfezione, estetica e interiore, che ci rende autentici, personali (e forse anche migliori). A chi di fronte a uno specchio non è mai capitato di fissare in continuazione una smagliatura, una cicatrice o una voglia? O proprio un neo uguale al particolare sul viso della ragazza dai capelli ramati in copertina del disco Bellissimi difetti, uscito lo scorso 29Bellissimi_difetti_La_Municipàl_cover marzo per l’etichetta indipendente iCompany, a tre anni di distanza dall’esordio con il primo LP ‘Le nostre guerre perdute’ (2016). «I difetti non sono dèmoni, bensì peculiarità che ci contraddistinguono dall’altro in una società assuefatta all’omologazione di massa», ha dichiarato Isabella Tundo, musicista e cantante insieme al fratello Carmine (chitarra e tastiere nel disco, da lui scritto e prodotto), nell’intervista per Rai Radio2 che ha preceduto l’esibizione del duo pugliese sul palco di Piazza San Giovanni a Roma lo scorso Primo Maggio. Palco che ha battezzato nel 2018 la gavetta inaugurale della band salentina (e il suo séguito sulle piattaforme di streaming), vincitrice del premio 1M NEXT, il contest per gruppi emergenti organizzato ogni anno dal Concertone, oltre che il premio Siae, Nuovo Imaie e il Premio L’AltopArlAnte. E palco che segna dopo diversi mesi, nonostante le sfortunate peripezie vissute (furto della strumentazione e riarrangiamento dei pezzi con le pedaliere prese in prestito ai ragazzi de La rappresentante di Lista, insieme a loro tra le realtà più interessanti dell’itpop attuale), la presa di coscienza di una sopraggiunta maturità artistica. Il nuovo disco è una prova di scrittura consapevole (lontana dall’epoca in cui cantavano ‘Valentina Nappi’): un pop d’autore introspettivo, turbolento, passionale che restituisce in dodici tracce (tredici con ‘Iole’, bonus track nella versione cd) una visione romantica del presente, un’istantanea (o ‘Italian polaroid’) senza filtri né finzioni di una storia vera, un percorso verso l’accettazione di se stessi, che è al contempo esaltazione di pregi e delle proprie intimissime vulnerabilità.

Bellissimi difetti, anticipato nel corso del 2018 dai singoli dell’Ep B-Side quali l’ironica ‘I mondiali del ‘18’ e ‘Mercurio cromo’, è uno screening identitario che si situa per ambedue gli artisti – figli un ex comandante della polizia municipale (a cui si deve l’omaggio nel nome) – alla soglia dei trent’anni, nella terra di confine tra la migliore gioventù e l’ingresso nell’età adulta, tra lo spaesamento di chi ritorna in provincia dopo aver vissuto in metropoli (che è la storia autobiografica di Isabella, trasferitasi da Galatina a Roma, e poi di nuovo in periferia) e chi gira l’Italia in cerca di nuovi stimoli creativi (Carmine, impegnato come solista in molti altri progetti musicali, che hanno coinvolto i nomi di Caterina Caselli, Malika Ayane e Samuel dei Subsonica): un patchwork di opposizioni binarie, contraddizioni e ossimori si riversa nelle sonorità elettriche, costruite su un leitmotiv di synth e caratterizzate da una ricercata sperimentazione (molto più vicina all’attitude del gruppo nei live), e per cui gli è valso l’appellativo di ‘Baustelle del Sud’. Specialmente per certe ballad più retrò e sensuali, come ‘Le vele’ – che ricorda anche nel testo Le rane cantate da Francesco Bianconi – o i cori di ‘Noi due sulla luna’, brano strumentale ricercatissimo tratto dalle interferenze di una conversazione di due astronauti coinvolti nella missione Apollo 10 nel ’69, e ‘Vecchie dogane’, dove il maschile e il femminile delle voci s’intreccia in unico fiato.

Si può fare pace una volta per tutte con la propria immagine? È da questo interrogativo inesauribile che prendono forma le atmosfere malinconiche evocate: silenzi e abissi infernali, paturnie del pomeriggio e solitudini della sera (da annegare “in qualche goccia nel bicchiere”, in una vasca o tra le lacrime), ansie e crisi di panico costellate da vibe rock in brani come ‘Major Tom’, con le dovute suggestioni del caso sul ritornello della Space Oddity di Bowie; o le angosce addolcite dall’ukulele in ‘I tuoi bellissimi difetti’, che ammicca di nuovo ai Baustelle sulla frase “la guerra è finita già da un po’”, ma dove risiede il cuore pulsante del disco e la più grande dichiarazione d’amore contenuta al suo interno (“le tue smagliature le userò come le trincee per fuggire dai nazisti, e un po’ da me”).

Insomma, un disco a metà tra l’itpop e il retaggio cantautoriale (evidente nella citazione a Una giornata uggiosa di Lucio Battisti della più incalzante ‘Punk Ipa’, o nell’interpretazione de ‘La canzone di Marinella’ nel disco-tributo dello scenario indie a De André, Faber Nostrum) che si fa specchio di fragilità, di pensieri per amori perduti, di vortici e turbamenti d’animo, di vicende quotidiane dense di rimandi politico-sociali – precarietà, assenza di ideali, disoccupazione e crisi migratorie – in alcuni brani più impegnati. Tra questi, ‘Finirà tutto quanto’ e ‘Il funerale di Ivan’ appaiono letture critiche di “un’Italia già sepolta da infame”, condannata all’ateismo “di una sinistra che si è persa” verso un Dio che “comunque non ci vede”, impegnato com’è “a organizzarci le guerre”, dalla nostalgia per la lotta proletaria sino agli echi crepuscolari che si riconoscono verso la fine, incamminandosi nei vicoli bui de ‘Le scogliere’.  

”E io sento che sto bene solo quando sto più male…”: potrebbe essere un nuovo slogan generazionale, di chi vuole nella musica trovare riscontro del proprio bisogno inconscio di soffrire. E, invece, le melodie orecchiabili e catchy dei La Municipàl, spaziando nei testi dalla narrazione spensierata all’introspezione profonda, invitano l’ascoltatore a mettersi a nudo, a disinfettare le ferite dentro, demolire gabbie mentali, colmare i vuoti di un altro che manca e riconciliarsi con se stessi, se è vero che – scrisse un loro grande idolo, Leonard Cohen“c’è una crepa in ogni cosa. È da lì che entra la luce”. Da tenere d’occhio le prime date appena annunciate per il loro tour estivo.

Sabrina Sabatino 23-05-2019

Oggi avrebbe 80 anni. Nel maggio del ’68, ne aveva 30. In quasi quarant’anni di attività, ha avuto il tempo di comporre numerosi tasselli centrali, nel ricco puzzle del cantautorato italiano, di raccontare storie con la delicatezza e l’eloquio della poesia, forte di un’incrollabile raffinatezza musicale. È Fabrizio De André, artista amato e apprezzato quanto, talvolta, contestato, frainteso. È naturale, quando un genio compositivo si scontra con una qualsiasi cultura, persino se è quella in cui nasce, che questa reagisca in maniera complessa e composita, come lo stesso compositore è cresciuto reagendo irregolarmente al proprio contesto sociopolitico.
Ma, oggi, cosa è cambiato nella nostra percezione di De André? Più difficile ancora, qual è la percezione che ne hanno le generazioni nate senza di lui? Alla Sala Umberto di Roma, il 21 maggio, per l’appunto, ottantesimo anniversario della sua nascita, lo spettacolo musicale del gruppo Mercantinfiera2.0 spazia tra questa domanda e un’altra, opposta, istanza. Da una parte, la ricerca della sua eredità, della sua resiliente attualità, dall’altra la (legittima) celebrazione malinconica di una personalità musicale e poetica la cui eco risuona ancora nei cantautori odierni.

Foto ninè ingiulla e mercantinfiera 2.0.jpgIl tributo che ne risulta, intitolato “Anche se il nostro maggio…”, è una composta riscoperta della sua opera, con particolare attenzione letteraria al disco post-’68, il suo “Storia di un impiegato” arrivato nel 1973 dopo una riflessione lunga un lustro sull’annosa, e mai sanata, questione dell’impegno politico. Districa i nodi del disagio del cantautore, nell’accettare tale impegno, o del parziale sollievo nell’universalizzarlo, il doppio intervento dello scrittore e critico Stefano Gallerani.
Il gruppo musicale, invece, guidato dalla voce faberiana di Ninè Ingiulla, si produce in un’inevitabilmente crudele ma puntuale selezione di brani, dai classici ai più controversi, eseguiti tutti con fedeltà e ricchezza di arrangiamenti (d’altronde, la prima richiede la seconda). La formazione, fortunatamente, lo permette: Giovanni Baldin a tastiere e chitarra, Eleonora Elio al violino, Maurizio Leone ai fiati, tanti e tali che gli valgono una nota di merito, Paolo Pasqualetti alle chitarre e mandolino, Giovanni Romio alla batteria e Giampaolo Roncoletta al basso.
Allo show, preciso e distinto, forse non guasterebbe un pizzico di energia in più, scatenata dal semplice alzarsi in piedi degli interpreti, stavolta soltanto saltuario. Impossibile, però, non restare convinti da una performance preparata e solida, protesa nel giorno della mancata ricorrenza più alle generazioni nostalgiche che all’esplorazione delle nuove. Dimostra, a ogni modo, il grande coraggio di confrontarsi con un mito titanico e complesso come quello di Fabrizio De André. Lui, ne siamo certi, è ancora lungi dal cessare, ogni giorno, d’essere riscoperto.

Andrea Giovalè 22/05/2018

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