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CASTROVILLARI – Anche quest'anno è la locandina il miglior biglietto da visita per “Primavera dei Teatri” (dal 27 maggio al 4 giugno), che da ventitré anni porta il teatro contemporaneo nel nord della Calabria: un manichino, una bambola gonfiabile dentro un cellophane su un divano, in attesa di essere usato o buttato lì proprio perché non interessa più a nessuno. Una sorta di azzeramento dei desideri, come quando si lasciano le case delle vacanze e si coprono i mobili per non farli aggredire dalla polvere. Quindi cura ma anche dimenticanza, preoccupazione e abbandono. Tre gli spettacoli che più ci hanno colpito all'interno del cartellone messo a punto dai tre direttori artistici, Dario De Luca, Saverio La Ruina, Settimio Pisano. Il Sud (italiano e del mondo) ha da sempre una marcia in più, teatralmente e non solo. Sicuramente ha ancora qualcosa da dire. Ha le viscere, la pancia, il sentimento, il sangue che ribolle, la lotta, il fermento, la rivoluzione, la grinta, la ribellione sotto pelle.

Questo nostro viaggio parte da Napoli, nasce da “Giorni Felici” di Samuel Beckett e diventa questo “Felicissima jurnata” (prod. Cranpi, Teatro di Napoli) dei Puteca Celidonia: poteva essere una nuova trasposizione in un dialetto regionale di uno dei tanti lavori del maestro irlandese come furono “U' jocu sta finiscennu” dei Krypton in calabrese o “Aspettando Godot” in abruzzese del 2023-06-03 FELICISSIMA JURNATA Puteca caledonia foto PdT  Angelo Maggio DSC01814.jpgTeatro Immediato, ancora Godot che in dialetto bresciano divenne “Che fom? ...Spetom!” di Faustino Ghirardini, o ancora Daniele Benati in reggiano. Invece i Puteca prendono spunto dalla veste beckettiana e ne immettono il proprio contesto, il quartiere napoletano dal quale provengono, il rione Sanità, e ancora più dentro, fino al cuore del loro vicolo (diventando immediatamente un testo eduardiano), applicando a Winnie e ai suoi giorni felici le interviste, le vere parole degli abitanti dei bassi che lì attorno brulicano, le persone che lì nascono e muoiono con quell'unico immaginario visivo negli occhi per decenni, memorie storiche e popolari di un universo bloccato, asfittico, attorcigliato come è la protagonista (dai mille risvolti e atmosfere Antonella Morea con la forza espressiva di Milvia Marigliano e l'efficacia ruvida di Barbara Valmorin) logorroica sepolta dalla vita in giù dentro questo triangolo, impilata e impalata in un cumulo di sabbia che in questa versione partenopea s'ingigantisce divenendo un vulcano (l'iconica scena che riempie le retine è di Rosita Vallefuoco), ovviamente il Vesuvio, ma anche un igloo per il gelo dei sentimenti o una grande gonna-appartamento-ripostiglio sotto la quale traffica e s'ingegna il marito che non proferisce parole, soverchiato dall'abbondanza di quelle a raffica della coniuge, ma soltanto grugniti gutturali e poco più. La drammaturgia (di Emanuele D'Errico) si bilancia con le voci in audio delle interviste che ci raccontano di queste povere, semplici esistenze, di queste sempre uguali giornate tipo composte da riposo, rosario, televisione in case abusive, vite al limite in equilibrio sul poter mettere un piatto in tavola o meno. “Che giornata felicissima” ripete lei per autoconvincersi, per dirsi anche questo giorno siamo sopravvissuti e “Questa giornata deve finire prima o poi” non è altro che la trasposizione del celebre “Adda passà 'a nuttata” di “Napoli milionaria”. Queste persone che si accontentano di poco hanno un'anima, non chiedono, 2023-06-04 STORIE DI NOI Giuseppe Provinzano  PdT foto Angelo Maggio DSC02713.jpgnon sperano più, sussurrano “Non ci possiamo lamentare” in una costante ansia/asma di vivere, respiro corto e affannato nelle preoccupazioni, nella fatica di tirare a campare, nel domani incerto che si spera sia monotono e incolore come il giorno prima che almeno significa salvezza, che un altro giorno lo abbiamo messo in cascina, nell'ammasso dei giorni felici. Onirico e concreto, “Felicissima jurnata” è uno schiaffo al capitalismo, alle lamentazioni dell'uomo contemporaneo, al surplus consumistico che ha schiacciato e azzerato i sentimenti.

Da Napoli ci spostiamo un po' più giù, a Palermo dove troviamo un Giuseppe Provinzano che è, attorialmente e teatralmente, visibilmente cresciuto e maturato padroneggiando meglio la scena, la materia e avendo ideato e architettato davvero un'opera che recupera sì la memoria dei giudici Falcone e Borsellino ma lo fa attraverso storie piccole, laterali, appunto “Storie di noi” di Beatrice Monroy (prod. Babel, Fondazione Giovanni Falcone, Spazio Franco). Storie minime, storie di palermitani che hanno visto, vissuto o anche solamente sentito il fragore, il frastuono, il boato dei due ordigni che cambiarono la geografia, il sentire degli abitanti. Provinzano, anche attraverso la maniera del cunto di Mimmo Cuticchio, dà voce a vicende cittadine, a eventi quotidiani che si sono trasformati in epica, in leggenda. Tra il 23 maggio 1992, la bomba di Capaci, e il 19 luglio 1992, l'autobomba di via D'Amelio, distano 57 giorni, come 57 sono i minuti dello spettacolo che si appoggia su un bel tappeto sonoro, su tante voci off, su una scenografia che ipnotizza: lui al centro ci aspetta palleggiando, attorno distese diverse sagome 2023-06-04 STORIE DI NOI Giuseppe Provinzano  PdT foto Angelo Maggio DSC02830 (1).jpgcome corpi uccisi, stracci che diventeranno lenzuoli immacolati da stendere sul fondale ad ogni capitolo, tanti lumini cimiteriali tutt'attorno, e due macchinine telecomandate che s'inseguono, una Fiat Croma bianca uguale a quella sulla quale viaggiava Falcone, una come la Centoventisei rossa che era stata imbottita di tritolo per l'attentato a Borsellino sotto casa della madre. E ci sono i bambini che giocano in strada, e c'è Giusy che si è appena sposata, e c'è una partita sentitissima di calcio tra due condomini rivali (e qui sembra Davide Enia in “Italia-Brasile 3-2”), e ci sono le figlie piccole di un giudice, e c'è una giornata al mare a Mondello, e c'è lo scagnozzo che prepara le case per i latitanti. Un testo che gronda poesia e sangue, sudore e afa, il tutto accompagnato dall'inquietante filastrocca: “Trema la terra, trema il mondo e tutti giù per terra”.

Da Napoli a Palermo e infine un salto in Argentina, un altro pezzo di Italia nel continente americano. Frutto di una residenza e di uno scambio tra il Sud America e la Calabria, Micaela Farina, con autoironia e passione, ci racconta la sua storia, i suoi fallimenti, le sue cadute, la sua voglia di non mollare. Vuole, da sempre, fare la cantante lirica ma da una parte soffre d'asma e dall'altra viene rifiutata in tutti i provini ai quali partecipa. Un po' Paperino, 2023-06-03 LA CONSAGRACION DE NADIE gonzalo quintana micaela fabira  foto PdT  Angelo Maggio DSC00162.jpgun po' Calimero, un po' Mafalda (non a caso personaggio disegnato dall'argentino Quino). Ne “La consagration de nadie” (scritto insieme a Gonzalo Quintana), ovvero “l'affermazione di nessuno”, perché l'hanno fatta sentire una nullità, ci racconta la sua parabola, l'Argentina, la famiglia, i corsi di canto, il passaporto italiano, lo studio lirico nella terra di Verdi e Puccini: tutto inutile. Una storia di orgoglio ma anche una richiesta d'amore e di affetto, di vicinanza, di partecipazione, di essere vista, guardata, ascoltata, di avere la sua dose di applausi (ne ha avuti moltissimi dal pubblico commosso di Castrovillari), di sentirsi viva. Lei inciampa, cade e si rialza sempre, fino alla prossima delusione, senza fare progressi nel canto e neanche nell'amore (forse le due cose sono connesse), ma non rinuncia testardamente ai suoi sogni. “Mi dicono di no, e io insisto” come una minaccia, un monito a se stessa e al mondo, è il suo lei motiv, il suo refrain, il suo loop, il suo mantra, rivincita e maledizione. Ma è un continuo abisso nel quale annegare e sentirsi sola e abbandonata, dove piangere senza consolazione. Quando parte il video di lei che da adolescente suona e canta la canzone colonna sonora di “Titanic” di Celine Dion è impossibile non avere gli occhi lucidi e bagnati perché siamo stati tutti almeno una volta (mille volte) come Micaela nel sentirsi imbranati, sbagliati mentre avremmo voluto soltanto attenzioni e abbracci, complimenti ed elogi, una pacca sulla spalla, almeno un bravo. Avrebbe soltanto voluto un po' d'amore. “Ho provato, ho fallito. Non importa, riproverò. Fallirò meglio”, diceva Samuel Beckett. E Napoli si ricongiunge all'Argentina.

Tommaso Chimenti 07/06/2023

Foto: Angelo Maggio

FIRENZE – “Dicono che c'è un tempo per seminare e uno più lungo per aspettare, Io dico che c'era un tempo sognato che bisognava sognare” (Ivano Fossati, “C'è tempo”).

Nel doppio binario di un tempo interiore e di un altro oggettivo si svolge la vicenda portata alla luce da Saverio la Ruina che, con la grazia e l'eleganza di sempre, ci fa entrare dentro la propria vita, il proprio vissuto, la propria città e famiglia. E lo fa aprendoci la porta su uno dei dolori più grandi per ogni essere umano: la perdita di un genitore, la scomparsa del padre, pilastro saggio, uomo di poche parole ma di grande tempra, senza fronzoli, senza grilli per la testa. “Via del Popolo” è una camminata che facciamo insieme a lui nella quale ci accompagna e ci mostra quel che era e quel che è della sua cittadina, quella Castrovillari famosa teatralmente per il festival “Primavera dei Teatri” organizzato dalla compagnia Scena Verticale che ha fatto conoscere a tutta Italia questo comune sotto al Monte Pollino e a trenta chilometri dal Mar Tirreno come dallo Ionio. Una strada come pretesto per raccontare una città, e una società e una socialità, cambiata, mutata nel tempo, forse peggiorata, sicuramente modificata e diversa. Attraverso questa passeggiata conosciamo la perdita e questo tempo (il vero protagonista della pièce, simboleggiato dalla scena con la riproduzione DSC_2566.jpegdell'orologio fuso e sciolto di Dalì) che passa e trasforma e travolge le persone come le cose e cancella mondi costruendone di nuovi. C'è nostalgia e ricordo ma è un racconto non chiuso nella sua Calabria ma aperto e universale perché ognuno di noi potrebbe apporvi le proprie origini, strade e piazze e provare quel senso di inadeguatezza rispetto ai tempi moderni e un biascicare tra i denti un “ai miei tempi” oppure “quando ero piccolo”.

Il padre e la città, il padre è la città, il padre è la solidità delle pietre, dei muri, delle case, la protezione, il lavoro, quell'intorno costruito e difeso con i denti e le unghie con il sudore e la fatica, la dignità dello sgobbare, la pulizia e l'onestà di farcela con le proprie forze nel rispetto degli altri. Il padre Vincenzo è venuto a mancare qualche anno fa ad 84 anni e c'è commozione nelle parole di Saverio che lo ricorda con il giusto distacco del teatro ma tra le righe l'emozione è, giustamente, forte e con questa lieve fragilità ci rende e dona tutta la sua incredibile umanità, quel suo tocco leggero sulle cose che racconta, quella carezza affabile della sera, quella vicinanza, quell'abbraccio. La città è il padre, è la sua protezione, è il sentirsi al riparo sotto la sua ala di regole salde e principi solidi. La Ruina, con la giacca bianca da cameriere visto che i suoi avevano un bar, ci fa immaginare volti e piazze, incontri e sorrisi, caratteri e vicende con una autobiografia tenace e robusta ma al tempo stesso commovente e toccante nei trascorsi della sua famiglia che è cresciuta, si è consolidata fino alla vecchiaia, fino a quel passaggio naturale delle generazioni, il testimone che scivola di mano in mano con rettitudine, gratitudine, giustizia. Ci si immerge in questo romanzo di formazione e ci si immagina il grande attore DSC_2578 (1).jpege drammaturgo piccolo, poi a giocare a calcio nei campetti polverosi di periferia, a scuola o intento a dare il primo bacio che è ancora stampato nella sua memoria.

Ma il tempo non lo puoi fermare né governare, certo si può dilatare o restringere come l'universo e i buchi neri: “Il tempo non si può misurare: non vorrai dirmi che un'ora di piacere, un'ora di dolore, una di gioia, una di paura, hanno tutte sessanta minuti?”, diceva il filosofo Raimon Panikkar. Il tempo è strettamente personale e qui La Ruina ci fa partecipi e condivide il suo intimo con tutta la platea, donandosi generoso, aprendo i cassetti della sua esistenza, mettendosi a nudo, senza paure, regalandoci i sorrisi elargiti come il dolore sofferto e patito. Ma è la tenerezza che lo abbandona mai, verso la sua infanzia e adolescenza, verso il suo comune di residenza, verso i genitori, verso il padre tratteggiato mai come padrone ma come caposaldo, colonna, fondamenta alle quali appoggiarsi. E' un viaggio dagli anni '60 ad oggi e che in questi decenni vede parallelamente cambiare la sua famiglia, prima crescere poi invecchiare, e cambiare la sua città, prima modernizzarsi e poi perdere per strada un po' di magia e folclore globalizzandosi come ogni angolo del mondo. Impossibile non riconoscersi non tanto nei luoghi quanto nelle sensazioni e nelle atmosfere degli aneddoti, dei mestieri spariti, i soprannomi, gli amori dimenticati fino a toccare la politica e la malavita della zona. E' un quadro, un affresco dipinto con i colori tenui dell'anima, questa pasta inconsistente che non riesci a stringere ma della quale cogli benissimo l'essenza, come dice da testo “la collina di Spoon River”. Brividi sparsi.

Mi basta il tempo di morire fra le tue braccia così” (Lucio Battisti, “Il tempo di morire”).

Tommaso Chimenti 23/12/2022

LECCE – I testi dei Mana Chuma Teatro hanno forti radici nel loro territorio di riferimento, in questo Sud allargato ed espanso ed esploso, quell'ultimo spicchio di terra ferma appuntita che guarda la grande isola. Due angoli acuti che si scrutano, che traballano, che tremano di onde e sommovimenti tellurici. Le parole di Massimo Barilla (la regia è condivisa con l'altra anima del gruppo Salvatore Arena) sono pasta da sporcarsi le mani, modellarle anche se fa male, imbevute di suoni e atmosfere lontane e così visceralmente interiori e digerite. Come se, dentro ognuno di noi, vi fosse presente quel germe, quell'inizio, quella forma che è perennemente sostanza, quelle sillabe agguerrite di un passato brutale ma concreto, diretto, fermo, lancinante quanto sincero e violento. I loro spazi scenici, metaforici e fisici, sono chiusi e circoscritti, al limite del claustrofobico, al limite Calmaria - Marco Costantino 5.jpgdel beckettiano se non fosse per quella verità e crudezza dei temi sociali palpabili che al metafisico lasciano poco spazio e scampo. Non c'è salvezza, queste parole ti mettono con le spalle al muro, ti chiedono da che parte stai senza essere accusatorie, ma sono scelte di campo, faziose senza essere pretestuose né strumentali né ideologiche. E' la natura umana quello che più interessa Barilla e Arena, sono le relazioni, le tensioni, la pericolosità dell'abisso di ogni incontro, l'altro come fioritura ma anche come inciampo, incastro complicato in terre dove amicizie e fazioni determinano alleanze e conflitti. La linea è sottile tra abbraccio e faida (altro loro titolo del recente passato) e districarsi in questa fitta nebbia di divieti e veti, di rovi e roghi è difficile quanto impraticabile tendente all'insoddisfacente, all'immobilismo. Quello stallo gattopardesco che è l'ultima piece targata Mana Chuma, quella “Calmaria” che ha nelle sue radici etimologiche sì la calma ma più con l'accezione di “cullare” o ancora di “bonaccia”, quella sospensione quasi irreale che preannuncia qualcosa in arrivo. Quel tempo solido e compatto che sembra non passare mai perché vorremo cambiare, mutare ma ancora le condizioni non lo permettono, quello strato di noia, quell'impianto di attese perché non tutto dipende dalle nostre forze, quel passare lento sperando in una rivoluzione, in una trasformazione.

“Calmaria” è più che altro una speranza, un'idea di futuro, il seme che è possibile avere giustizia (e che la giustizia funzioni in egual modo su tutto il territorio italiano e che ancora la giustizia sia uguale per tutti), che non bisogna necessariamente farsi martiri per far emergere un problema, un fenomeno Calmaria Marco Costantino 6.jpgmafioso, per estirpare il tumore non ci vuole il capro espiatorio. La prima nazionale è andata in scena all'interno del bellissimo spazio di archeologia industriale che sono le ex Distillerie Nicola De Giorgi alla periferia di Lecce (San Cesario) dove fino alla fine degli anni '80 si produceva Anisetta, Vermouth, Alchermes. In una scena iconica della fumosa pellicola “Casablanca”, Humphrey Bogart beve ad un bancone di un bar dove campeggia l'anice De Giorgi, simbolo di un'affermazione conclamata a livello internazionale. Le Distillerie da qualche anno sono state affidate alla compagnia salentina Astragali che le stanno facendo rivivere attraverso le arti performative con molti spazi, interni ed esterni, davvero evocativi in mezzo alle macchine che servivano per estrarre e far fermentare alcool e nettare.

E “Calmaria”, che in origine si chiamava “U' saluni” (il salone, sottinteso del barbiere), potrebbe essere il secondo step di “Spine”, penultimo lavoro della compagnia reggina-messinese. Anche lì un locale commerciale, in quel caso un bar-ristorante e una sospensione data da una sorta di spazio-tempo purgatoriale irreale e intangibile alla ricerca a ritroso delle radici del dolore. Tre personaggi si muovono tra queste quattro mura circoscritte in attesa dei clienti che non arrivano, in attesa di notizie che non giungono, in attesa di qualcosa che non sta accadendo. Recitano tra le immense botti che un giorno contenevano i liquori. Il triangolo è composto da Melo (Mariano Nieddu, potente e perno), il proprietario, Felice il suo aiutante (Lorenzo Praticò vivace, ago della bilancia), e Giusy (Stefania De Cola sempre intensa), sorella di quest'ultimo, da sempre innamorata ricambiata di Calmaria Marco Costantino 7.jpgMelo ma sposata con Michele, capoclan della mala della zona. La storia è semplice: la malavita locale, in complicità con l'amministrazione locale, ha messo gli occhi sul loro negozio per costruire un parcheggio e un centro commerciale e, con le buone o con le cattive, riuscirà a portarglielo via facendogli firmare con la forza delle minacce gli incartamenti per cedere l'attività.

E' un “tempo di spiriti” si dice nel testo: migliore perifrasi non ci potrebbe essere per delineare la struttura, il plot, i confini e il magma che ribolle all'interno di questo luogo-non luogo prettamente maschile e maschilista, ricettacolo di cameratismo e violenze sotterranee e represse, tenute taciute nel sottobosco dell'anima. Aleggiano, appesantiscono con la forza di gravità di un macigno che tutto blocca e soffoca e non permette di muoversi e volare. Calmaria Marco Costantino 8.jpgDue gli elementi distintivi, efficaci visivamente e drammaturgicamente, precisi e che ritornano come refrain: questo continuo pulire e lavare, questo voler sciacquare, annaffiare d'acqua per cercare quella pulizia immaginaria che il mondo esterno non può regalare ai tre personaggi, una pulizia furiosa, matta e disperatissima, e il cane Billy, randagio citato, che un giorno c'era e poi magicamente è scomparso. Un animale socievole che è l'ingenuità e la natura, che è l'istinto e la bontà e che, come è fuggito quando ha sentito l'olezzo della criminalità (“manca il coraggio di maledirla questa terra”) così tornerà quando nell'aria si spande finalmente il profumo della legalità. Questi due elementi cardine fanno da raccordo a questo tempo immobile e marcio e rancido dentro la barberia, un tempo lunghissimo e indeciso di rabbia e questo scirocco appiccicoso e sudato (è un altro personaggio che pare vivo la cappa) che limita i movimenti come avere una corda al collo, una catena, un guinzaglio a legarli allo steccato invalicabile, insuperabile. Ma, a volte, succedono cose imprevedibili, accadono le rinascite, le rotture con mondi consolidati dagli andamenti dati per scontato e “quando pensi che sia finita proprio allora comincia la salita”. Un testo contro l'ignavia, per smuovere la consapevolezza, contro l'omertà, contro chi pensa che le storie e i patimenti degli altri non gli appartengano.

Foto: Marco Costantino

Tommaso Chimenti 06/12/2022

CASTROVILLARI – Altri spettacoli ci hanno coinvolto, accerchiato, spostato. E noi li abbiamo annusati, digeriti, abbracciati. Perché a Primavera dei Teatri tutto è subbuglio, un felice calderone organizzato, uno sturm und drang razionale, un pensiero che si fa azione, un gesto che ritorna ad essere parola e scambio, genuino e generoso, soprattutto generatore e generante. Scena Verticale in questi anni ha fatto conoscere la cittadina calabrese sotto al Monte Pollino in tutta Italia, divenendo faro e punto di riferimento teatrale, circoletto rosso in una immaginaria cartina italica. Qui si vedono Maestri assodati come nuove compagnie che tra qualche anno potranno dire la loro. Ed è in questa logica tra affermati e novità che sta la forza di scouting da una parte e di sottolineatura dei fenomeni dall'altra, due solchi che sembrano non toccarsi mai ma che qui hanno motivo non solo d'essere ma anche di coesistenza, di vicinanza, di fratellanza, di passaggio di testimone. Nei quattro spettacoli che analizzeremo qui sotto è lampante il confronto figli-genitori che già abbiamo sottolineato come forte fil rouge di tutto il festival, cifra e scelta da parte della direzione artistica.

Ecco allora che ci colpito piacevolmente “Dammi un attimo” (testo e regia di Francesco Aiello e Mariasilvia Greco; prod. Teatro Rossosimona) che parte come una sit-com ma che, attraverso buoni dialoghi e un'ottima attorialità, ci porta dentro i dubbi e le perplessità esistenziali che stiamo attraversando: fare figli o restare figli? Dammi un attimo perché ci dobbiamo pensare e riflettere, perché siamo impauriti della vita che intorno a noi cambia così velocemente, perché c'è stata la pandemia e c'è l'inflazione e la guerra è alle porte e il precariato macina vittime se non addirittura la disoccupazione, perché siamo infelici e insoddisfatti perennemente alla ricerca di novità e viaggi che ci portino via da noi stessi. Tre personaggi (brave e pronte la stessa Greco e Elvira Scorza) che seDammi un attimo.jpg ne stanno, come scarafaggi, come mummie nei sarcofagi, sul fondo in scatolette illuminate, gabbie sì ma lucenti e colorate, le nostre case-loculo nelle quale non abbiamo bisogno di niente e di nessuno, siamo auto(no)mi se il frigo è pieno, Netflix è acceso, possiamo chiuderci dentro mentre il mondo fuori che rumoreggi pure. Una ragazza e un ragazzo sulla trenta-quarantina sposati e la sorella di lui che si piazza sempre a casa loro perché non vuole stare con marito e figlio a casa propria. Da una parte si cercano fermezze e certezze e punti stabili, dall'altra si è in continua fuga dalle responsabilità, da se stessi, dalle regole. E mentre parlano di figli preparano un pane (vero) in un forno che alla fine tireranno fuori caldo e fumante addentandolo (cannibalizzando il possibile figlio?). Ci ha ricordato, per atmosfere e colori, i quadri di Carrozzeria Orfeo (è un grande complimento). Oggi, nel nostro primo mondo, giustamente la donna non vuole più sentirsi contenitore di vite ma ha i suoi spazi, il lavoro o la carriera, l'indipendenza da difendere. E' un mondo difficile, che corre troppo forte per le nostre retine che non sanno fotografarlo, per i nostri piedi stanchi che gli corrono dietro affannati. Non c'è posa né calma mentre un figlio ti costringe a fermarti e pensare, a riflettere su chi sei, su quello che sei diventato, su quali valori hai da consegnare al nuovo arrivato. E questo fa tremendamente paura. In una nuova ondata di disimpegno da una parte, programmi trash e telefonini e la ricerca del divertimento come esperienza ad ogni costo, e dall'altra di nuove paure, alle succitate aggiungiamoci anche ecologia e ambientalismo oltre al nucleare, ecco che la frittata è pronta per sfornare l'immobilismo, il vivere nel presente senza programmare troppo. E i figli sono un balzo nel futuro, quel qualcosa che che è trampolino tra noi e il domani. E forse non ce lo possiamo permettere né economicamente né emotivamente. Non siamo più pronti. Forse non lo erano neanche le nostre madri ma si sentivano “costrette” culturalmente da un ruolo cucitogli addosso dagli uomini che gli erano intorno. Una profonda analisi, una centrata riflessione, una bella considerazione, un solido ragionamento.

Cominciamo da un'osservazione: da qualche anno gli spettacoli di Mario Perrotta sono diametralmente cambiati, quasi irriconoscibili rispetto alle tematiche forti e sociali grazie alle quali lo abbiamo apprezzato, applaudito, premiato. Certo si cambia, si cresce, ci si evolve, tutto giusto, tutto legittimo, tutto plausibile. Ricordiamo però “Italiani Cincali” e “La Turnata” oppure “Un Bes” o ancora il meraviglioso “Bassa Continua” con i tre percorsi sul Po. Perrotta innamorato delle trilogie, che incuriosiscono e affascinano, fidelizzano il pubblico. E anche stavolta, dal 2018 ad oggi, si è lanciato nella trilogia della famiglia con “In nome del Padre”, “Della madre” e quest'ultimo “Dei figli” (prod. TSBolzano, la Piccionaia, FTS, Permar). Un altro impianto, un'altra forma, trasformato, sicuramente diverso. Per i nostalgici un'altra cosa, lontanissima dalle precedenti esperienze sul palco. Ma il mondo va avanti e non c'è spazio né tempo per chi vuole rimanere ancorato a vecchie idee e concetti sorpassati. Le persone, e gli artisti ancora di più, sono in continua trasformazione e mutamento, guardano avanti. Però possiamo dire, e forse proprio perché siamo nella schiera malinconica dei reazionari che non vorrebbero che niente cambiasse, che la forza e l'impatto di Mario Perrotta in scena, in queste ultime uscite, si è leggermente annacquata, ha perso di quella potenza che ci rovistava l'anima. Chiamala maturità, se vuoi, assennatezza o saggezza. Anche questo “Dei Figli” risulta assolutamente godibile, scorrevole, a tratti divertente, colorato, con buone prove attoriali da parte degli altri tre protagonisti ma il vigore, la vitalità, l'energia che invadeva la platea nelle prove di qualche anno fa era di tutt'altra intensità. Si usciva dal teatro con gli occhi lucidi, il cuore pieno, rinfrancati e scorticati. Adesso siamo più nell'ambito, che nessuno si offenda, del teatro borghese con i suoi quadri, le canzoncine (Loretta Goggi, “I sogni son desideri” o “Musica leggerissima”, arie nazional popolari rassicuranti). In una scenografia che ci ha ricordato gli habitat di Rezza/Mastrella sono posizionate delle strane strutture futuristiche, sedie ondulate. Tre ragazzi abitano in affitto nella stessa casa di Gaetano, Perrotta stesso, che sta tutto il giorno in vestaglia per poi mettersi giacca e camicia e fare brevi conversazioni in video con donne che lo pagano per essere maltrattate eroticamente, dipingendosi come un etero duro e puro mentre nella realtà è omosessuale. I tre giovani sono un'avvocatessa, uno sceneggiatore fallito e un ragazzo che sogna di occupare il Polo Nord. Le loro (s)fortune sono i genitori: o del tutto assenti, o troppo accondiscendenti o ancora assidui controllori asfissianti. Invece che “Dei figli” l'analisi verte più su “Degli Uomini”, infatti sono i maschi che hanno un problema di hikikomorità rimanendo chiusi nelle loro stanze per anni per paura del mondo là fuori, che è diventato pericoloso, indecifrabile, rischioso, incomprensibile. Oltre ai personaggi sul palco, altri cinque si affollano su schermi recitando la parte di congiunti e genitori sopra le righe e grotteschi (emergono Marta Pizzigallo e Maria Grazia Solano) dei tre giovani (tra i quali spicca Luigi Bignone). Sarà che da Perrotta ci aspettiamo sempre tanto. Ripetiamo tutto piacevole e fruibile da una platea sempre più allargata, ma vorremmo rivedere e ritrovare il vecchio spirito di quel ragazzo di Lecce che tanti anni fa si trasferì a Bologna.

Appassionato e REAL HEROES.jpgintenso il progetto di questa giovane compagnia calabrese che si è fatta le ossa e che adesso si sta facendo conoscere anche fuori i confini nazionali: stiamo parlando del gruppo Oscenica, ragazzi saggi, con la testa sulle spalle, con tanti bei progetti. Questo “Real Heroes” è una performance di teatro itinerante come ce ne sono state post pandemia, cuffie e qui, alla fine, anche i visori, ma qui c'è di più. Il progetto (che è già sbarcato in Cile, Argentina, Spagna, Grecia e Uruguay) nasce dall'incastro tra il regista Mauro Lamanna e l'autore cileno Justiniano Aguilera e infatti in audio, mentre camminiamo per Castrovillari, ascoltiamo una storia sudamericana e una prettamente del nostro Sud. Già Caparezza lo rappava nella sua "Eroe": "Sono un eroe, perché lotto tutte le ore, sono un eroe, perché combatto per la pensione, sono un eroe, perché proteggo i miei cari dalle mani dei sicari, dei cravattari, sono un eroe, perché sopravvivo al mestiere". E sono storie tremende di solitudine e abbandono che ci stringono e non ci lasciano andare, prima un padre cileno i cui due figli sono stati rapiti dalla polizia fascista, e un padre calabrese che l'usura ha messo sul lastrico e che poi ha perso il lavoro, la dignità, la famiglia, il figlio. La voce che ci accompagna è calda, gocciola una pioggerellina che non è fastidiosa, quasi rinfrescante, ci fa sentire vivi tra questi muri crepati e questo crepuscolo che s'affaccia tra i cretti della terra spaccata nella vallata e il vento che ci sbatte in faccia la fortuna del godere di libertà e democrazia: “Passeggiare è un atto rivoluzionario”. E c'è poesia urbana in queste parole che scivolano leggere tra il nostro serpentone di cuffie illuminate di blu: “I tetti sono l'ultima cosa dell'uomo e la prima di Dio”. Affascinante e soffice quest'affabulazione che ci prende per mano (ci ha ricordato “Farsi silenzio” di Marco Cacciola): se la prima storia era poderosa ma lontana, la seconda invece è tangibile e sembra di riconoscerne i confini e i contorni tra i marciapiedi divelti e le saracinesche chiuse, tra i luoghi derelitti e i negozi fatiscenti sfitti di Castrovillari. Si parla di usura, di pizzo, di strozzini, di camorra e malavita, dello Stato che non ti protegge prima per poi abbandonarti, lasciarti solo contro i mulini a vento, a lottare contro cose più grandi di te, senza soluzione, senza aiuti fin quando non scivoli nel fango, nella miseria, molti cadono rovinosamente nel suicidio. E' un racconto che ti entra sotto pelle fatto di piccole perle che riscaldano, confessioni di 6 personaggi.jpgLa casa non è un accrocchio di mattoni ma è un respiro”. E ancora: “Errare è camminare e fare errori. Errori ed eroi sono simili: siate errori, siate eroi”. Altro che Steve Jobs che voleva solamente vendermi un telefonino. Lacrime, brividi, applausi.

Ed eccoci a quello che a nostro avviso è stata la più bella ed esplosiva sorpresa tra le proposte osservate, le “Confessioni dei sei personaggi” di Baglioni/Bellani, giovane compagnia umbra (abbiamo seguito negli anni loro lavori come “Gianni” e “Mio padre non è ancora nato”) sempre affiatata, centrata, precisa. Un velatino sul fondale, oggetti sparsi di grande gusto e pathos vintage e una telecamera ad indagare come si può fare, tra thriller e noir, alla ricerca del dettaglio, della minuzia per arrivare, come detective, a sperare di risolvere l'annoso caso pirandelliano. Come sono andate le cose, approfondendo ambiti e scene, scenari e dialoghi sospesi, entrando nella psicologia dei gesti, scavando dentro i giorni che hanno scavato come goccia fino alla tragedia finale. Ogni personaggio prende la parola e si fa corpo, ora in Caroline Baglioni adesso in Stella Piccioni, simili intercambiabili, entrambe puntuali, caparbie, tenaci. Mentre l'una recita l'altra la riprende come camera(wo)man in presa diretta (cinema e teatro si fondono) e il tutto viene riproposto sul velatino-grande schermo. La regia è curata, razionale senza essere cervellotica, passionale senza quell'istintualità che porta a debordare. E' un microcosmo accurato, centellinato al millimetro, che descrive e spazia, un dispositivo che amplia e racconta, un meccanismo intellettuale che ci interroga. Entriamo dentro il perimetro della storia con loro, siamo dentro il dramma, lo viviamo e finalmente sentiamo le varie voci dei Sei in una sorta di diario di quegli anni, di quei giorni. Capiamo il prima, gli antefatti in questa macchina perfetta di momenti e ricordi che riaffiorano come un colpo di tosse o uno sputo, un rigurgito per buttarci in faccia la loro verità, ognuno secondo il loro punto di vista, ognuno annegando nei propri sensi di colpa, senza perdono, senza salvezza, in quel substrato infame e infamante, in quel limbo tra paradosso e sconfitta, schiacciati dall'esistenza senza riscosse né rivincite. E' una sorta di confessionale aperto, al quale abbiamo libero accesso da guardoni onanisti. Queste “Confessioni” sono ben costruite, ben architettate, pensate, ideate, strutturate, calibrate: un vero piacere. Davvero robusto. Questo è il teatro contemporaneo che ci piace, quello che dice: “Sul palco si gioca a fare sul serio”. Usciamo felici e turbati.

Tommaso Chimenti 08/10/2022

CASTROVILLARI – Primavera dei Teatri rimane primavera anche se siamo ad inizio autunno. Per varie vicissitudini, lo scorso anno lo storico festival della Calabria del Nord, PdT è saltato e quest'anno è slittato da fine settembre fino alla prima settimana di ottobre ma questo non ha influito sulla ricerca dei nuovi linguaggi nella nuova drammaturgia non soltanto di casa nostra. La rassegna, diretta da Saverio La Ruina, Dario De Luca e Settimio Pisano, quest'anno ha raddoppiato gli sforzi con un prologo a Catanzaro con diverse proposte internazionali. A Castrovillari, dove tutto è nato e dove tutto ritorna, abbiamo potuto seguire otto tra spettacoli e performance. Castrovillari sembra sempre la stessa, sembra sonnecchi con il Pollino sopra con la sua croce e le nuvole grigie a fare da cappello, le strade sempre con gli stessi disegni e graffiti che nessuno copre e nessuno migliora e nemmeno nessuno che ne propone di nuovi. Tutto è fermo anche se il fermento c'è, si sente, si percepisce, basti guardare i tanti giovani che affollano i luoghi del festival, il Teatro Vittoria e il Sybaris nel Protoconvento dove i ragazzi pullulano. Non cambia nemmeno l'immancabile Osteria della Torre Infame, che piace proprio perché rimane fedele a se stessa nei decenni: con il proprietario Nicola neo presidente del Castrovillari Calcio in Serie D e gli spaghetti al fuoco di Bacco, cotti nel vino e piccanti, che sono un must irrinunciabile e da soli valgono il viaggio (come non ricordare il caposala Pasquale). Oltre agli spettacoli ci sono stati i commossi ricordi di Maria Grazia Gregori e di Renato Palazzi, due grandi critici teatrali milanesi che ci hanno lasciato nell'ultimo anno. E c'è stata anche la presentazione del volume scritto da Gigi Giacobbe, altra firma prestigiosa stavolta messinese, su Bob Wilson. Come ogni anno ci attira molto la locandina che stavolta propone un uomo gonfiabile, una sorte di omino della Michelin, tutto avvolto dentro il cellophane, quello da scoppiare, quello per salvare gli oggetti fragili. Siamo teneri, siamo delicati e allo stesso tempo vogliamo stare sotto una campana di vetro per non romperci anche se, vicino a noi, come nostro compagno di viaggio esistenziale, c'è un cactus che, anche se piccolo, potrebbe farci esplodere, potrebbe far scoppiare la nostra scorza, il nostro scudo e armatura.Giancarlo Cauteruccio.jpg

Quello che abbiamo notato, nella maggior parte delle proposte, è stata una solida riflessione sul tema figli-genitori e spesso figli-padre. Chissà, forse parlare troppo delle madri e troppo di Genitore 1 e Genitore 2 ha scaturito un'ondata dissonante. Forse i padri mancano oppure non sono più le figure dei No decisi oppure c'è troppa confusione tra i ruoli. Ma la sostanza sono gli spettacoli, dai quali abbiamo attinto, ai quali ci siamo abbeverati di nuove riflessioni e spunti. Come “La Divina Calabria” di Giancarlo Cauteruccio che non smette di stupirci: idea geniale quella di prendere un locale sfitto sulla via principale, accanto ad un bar dai tavolini affollati e un kebab dagli odori e suoni e lingua araba. Tra caffè e carne bruciacchiata messa dentro pane e stagnola ecco che si apre l'antro della Sibilla Cauteruccio che, sull'immancabile carrozzella beckettiana, feticcio e firma, ha aperto il suo temporary shop dove all'interno un cantore, lo stesso Maestro cosentino-fiorentino in dark, due coriste-vocalist-cantanti in nero e sullo sfondo un performer in un'azione che ricordava il riscaldamento pre-nuoto, lo stretching, la ginnastica per cercare di non affogare nello Stige dei nostri peccati. L'eco rimbombava tra le pareti bianche, immersi nelle luci rosse rotanti di sirene, con questa acre Divina Commedia (canti scelti dall'Inferno, 1, 3, Purgatorio, 1, 2, 5, e Paradiso, 1, 10, 33) tradotta in lingua calabrese che pizzica e morde. Il Maestro si contorce sulla sedia a rotelle, con gli occhiali scuri da sole (non vedente tra Tiresia e Finale di Partita), mentre luci d'allarme come piccoli fari girano su se stesse creando un fremito uditivo e visivo e sonoro. Bianco delle mura, neri gli abiti, rosse le luci per un'immersione totale, da ascoltare anche senza capire. Si percepiscono la musicalità e le assonanze, i suoni e le armonie fragorose. A volte sono solo sospiri e respiri, gemiti, altri sono grida e urla. Siamo dentro una grotta moderna mentre fuori le chiacchiere sono attutite dalla musica, le auto continuano a strombazzare, il mondo è lontano. Un Dante in carrozzina in questo rito per poche persone alla volta. Se Cauteruccio è bloccato, il performer, lo snodabile Massimo Bevilacqua, sullo sfondo è in continuo movimento, i canti, delle brave Anna Giusi Lufrano e Laura Marchianò, addolciscono e sottolineano questa potente esibizione.

L'incastro tra il drammaturgo Mariano Dammacco (e la sua attrice di riferimento e sodale Serena Balivo) e il performer a tutto tondo Roberto Latini non è riuscito alla perfezione in questo “Danzando con il mostro” (prod. ERT - Lombardi-Tiezzi) rarefatto affresco giocato più sulle epifanie e sulle apparenze che su una precisa corposa sostanza. Due personaggi in scena, che non capiamo, tra dialoghi surreali (il pubblico ride, e molto purtroppo, sulla reiterata parola “Cog-lioni”, detta proprio così, staccata e con questa scansione) che più che dipingere un habitat metaforico creano una confusione di immagini, sovrapposizioni, spaesamenti, nebbie, fraintendimenti. Dopo poco non si riescono più a cogliere i confini dei personaggi, scivoliamo, cadiamo, chi sono questi due? cosa fanno? perdendoci dentro dialoghi sospesi tra una Balivo-Franca Valeri e un Latini-Petrolini in un incedere che non NITROPOLAROID.jpegtrova un felice sbocco fluido. Diciamo criptico.

Un tempo c'è stato Antropolaroid che tanta fortuna ha portato a Tindaro Granata. Adesso arriva questo “Nitropolaroid” dei Crack24, scatto impressivo di una famiglia esplosiva. Parte benissimo questo scritto, in parte autobiografico, dell'autore Riccardo Lai. Un racconto fortemente tratteggiato dalla calata sarda, un autodramma per dirla con le parole che Strehler usò per definire il Teatro Povero di Monticchiello. A grandi intuizioni seguono acerbità e ingenuità. Lai, protagonista in scena (somiglia a Nicholas Cage), dà subito una bella carica alla platea, tra il sardo e un italiano sardizzato raccontando, da dentro, la sarditudine, la distanza, geografica e culturale, dell'isola, il mirabolante Continente da temere e da affrontare. Seguono scene e quadri, surreali e grotteschi, parodistici, e fin quando si rimane su questa falsa riga il tutto risulta fruibile e godibile. Poi sembra che gli sia sfuggito di mano qualcosa perché cambia bruscamente il clima che si fa cupo e tenebroso tra streghe e omicidi: un altro spettacolo proprio. Nella prima parte (dove la platea era tutta con loro), che ha il sapore di un Far West simpatico, con risvolti sociali e antropologici ma sempre sul difficile terreno ed equilibrio sottile di un'autoironia pungente, si ha la sensazione di una leggerezza intelligente ma allo stesso tempo siamo rapiti dalle sorti di questa famiglia rurale e da questo figlio che vuole seguire orme e sogni differenti. Qualcuno potrà dire generazionale, sì, è vero, però fatto bene. Alcune scene troppo allungate e annacquate, le streghe nel bosco ad esempio, anche se l'impianto a metà tra “Nozze di sangue” di Garcia Lorca e “Macbettu” di Alessandro Serra, sembra funzionare, tra il I Macbeth.jpgmistico e il mitologico, il sogno e la leggenda. Il ritratto del padre o dello zio (parla come un mix tra Maria Amelia Monti e Gianni Brera) sono folcloristici e curiosi, così come la scena delle tre suore (molto Marta Cuscunà). Poi, inspiegabilmente e senza alcuna ragione e spiegazione, si entra su un terreno drammatico pesantissimo che sconfessa tutto il precedentemente espresso: un Cristo in croce fino, appunto, ad una morte violenta che ci coglie impreparati ed è fuori luogo. A tratti la voglia di gag gli ha preso la mano: less is more. Dopo il crack, il punto di rottura segna anche un punto di non ritorno e “Nitro” diventa tutt'altro spettacolo che, improvvisamente, non funziona più. Purtroppo.

Dopo “Riccardo 3” arriva la seconda parte della trilogia shakesperiana frutto dell'incastro tra Vetrano/Randisi e Francesco Niccolini: “I Macbeth”, prod. Arca Azzurra (seguirà Amleto). L'impianto è quello di R3, una struttura di contenimento coercitivo, un carcere manicomiale di loculi e catene dove sono rinchiusi i personaggi delle tragedie del Bardo o persone che si sono così tanto immedesimate da credersi loro e sentirsi tali. Hanno tic e sentono fantasmi dentro le loro teste, dentro le loro orecchie che ritornano e non li lasciano in pace e i loro dialoghi arrivano direttamente dalla letteratura inglese seicentesca con innesti di quella cultura contemporanea voyeuristica televisiva che ben si presta alle vicende di cronaca nera del Belpaese. Così al Macbeth vengono aggiunti Olindo e Rosa e il caso Varani e tutto prende senso e “questa notte atroce e insanguinata” la sentiamo più vicina, più nostra, più tangibile, meno lontana, meno impossibile. I tratti sono cupi, barbari. Ancora manca qualcosa oppure questo secondo step troppo ricalca il primo passaggio da assimilarli.

Tommaso Chimenti 06/10/2022

TUNISI – A guardare la cartina, la Tunisia sembra una bocca sdentata. I tre grandi golfi che la ritagliano appaiono come i vuoti di una dentatura. O un cavalluccio marino nel suo incedere, dondolandosi nella sua danza, protraendo in avanti la testa e il suo beccuccio nel suo caratteristico cavalcare così flessuosi, così fragili, delicati e trasparenti. Il caldo è un lungo abbraccio stretto mentre la brezza che arriva dal mare ha il potere di risvegliare i sensi, scuotere le spalle, far spalancare gli occhi dopo tanto sole che li ha fatti stringere nelle rughe d'espressione. La torre con l'orologio, in una rotonda attorniata dalle bandiere che sventolano e sbattono rosse, segna l'entrata in città con il lungo viale che arriva, imperiale, fino alla Medina. La bandiera tunisina somiglia a quella turca, con la luna e la stella classiche del mondo arabo, ma se nella prima sono rosse in campo bianco nella seconda sono bianche in campo rosso. Sotto il ponte sopraelevato dell'highway tanti graffiti danno un tocco Teatro Municipale di Tunisi.jpegdi colore giovane e ci ricordano che qualcosa, lentamente, sta cambiando, che forse le nuove generazioni stanno leggermente smuovendo il Paese, vivacizzandolo, anche attraverso i colori e le forme della streetart.

Dietro la Porta di Francia le fontane a terra zampillano alte, quello è lo slargo dal quale partono varie arterie che si incuneano come serpentine dentro la pancia e il cuore della Medina, s'inerpicano tortuose nel Souk, s'aggrovigliano vorticose nella Kasbah. Piccole tortuose vie dove i profumi di oli essenziali si rincorrono, i teli svolazzano, i tappeti colorano e ancora ceramiche e maioliche, i dolcetti carichi di miele, kaftani di ogni foggia e per ogni occasione, oggetti di pelletteria con quel tocco acido, quasi piccante e affumicato che sale alle narici. E' un flusso continuo, un piacevole perdersi tra porte arabeggianti e palazzi orientali che nascondono terrazze da mille e una notte dove poter lanciare lo sguardo fino al mare imbevuto nei tetti bianchi, tra le migliaia di parabole. I gatti sono molto amati, ce ne sono a decine liberi e randagi a correre o giocare o soltanto a poltrire aspettando un pezzo di qualcosa di commestibile che dai banchi prima o poi cadrà. Il Teatro Municipale è un confetto barocco tutto bianco mentre dall'altra parte del viale si innalza la Cattedrale di San Vincenzo de' Paoli proprio davanti all'Ambasciata di Francia dove stazionano giganteschi suv mimetici. I trenta gradi mordono, i raggi abbagliano, “sole che batte su un campo di pallone, e terra e polvere che tira vento”. Gli infiniti caffè di Tunisi che la rendono assimilabile alle atmosfere di Parigi.

L'importantearlia foto web.jpg Museo archeologico del Bardo, purtroppo ancora interdetto al pubblico, è la più antica galleria sia del mondo arabo che dell'Africa, conosciuto soprattutto per i mosaici romani. Troppi gli attentati in questi ultimi anni in Tunisia: abbiamo ancora negli occhi le immagini crunete di quello del Bardo (22 morti) e quello sulla spiaggia di Sousse (39 vittime) con i terroristi che arrivarono dal mare in gommoni carichi di kalashnikov, entrambi nel 2015, ma altri piccoli, sporadici, occasionali, anche senza una grancassa internazionale, sono avvenuti in questi anni in vari luoghi del Paese, mantenendo così alta l'attenzione sul fronte dell'islamismo estremista. Per le avenue, ai lati delle strade, molte transenne, tanti blindati, troppi paletti, molta polizia per proteggere soprattutto la sfera turistica, una delle prime voci del Pil per le casse della Repubblica governata dal 2019 dal Presidente Kais Saied. Impossibile non restare affascinati dai dintorni di Tunisi, da Cartagine con le sue colonne e la sua Storia che prepotente torna a parlarci con la potenza delle sue pietre, o con Sidi Bou Said, le case bianche con le persiane blu che degradano verso la spiaggia e il Mediterraneo che qui sotto passa dal verde ad un limpido azzurro da cartolina. Molti i pensionati che decidono di trasferirsi qui ad un passo dall'Italia, con sole, mare e prezzi calmierati rispetto all'Europa.

Ed è in Tunisia che quest'anno si svolgerà il “Fortissimo Festival”, rassegna calabrese di concerti di musica classica, per una collaborazione e un partneriato tra l'Ambasciata Italiana, diretta da Lorenzo Fanara, l'Istituto Italiano di Cultura, e il Conservatorio Tchaikovsky di Catanzaro del direttore d'orchestra il Maestro Filippo Arlia che ha programmato questo prologo di maggio nella capitale, dislocato tra gli stucchi dorati del Municipale nell'arteria principale Avenue Habib Bourguiba e la rossa e deliziosa Salle 4eme Art in Avenue de Paris, prima della vera e propria kermesse che si aprirà a fine settembre a El Jem, cittadina tra Monastir e Sfax, sede di un meraviglioso anfiteatro romano, un piccolo Colosseo perfettamente conservato.

Due le serate che abbiamo potuto seguire, la performance proprio del Maestro Arlia in duo con il bandoneonista Cesare Chiacchiaretta con il concerto “Duettango” e il Galà classico dell’orchestra de “Les Solistes de Megrine” nel quale sono emersi i Maestri Alfredo Cornacchia e Roberta Ficara, in un mix tra musicisti calabresi e tunisini. A proposito l'ambasciatore Fanara ha voluto sottolineare “come sia la cultura il modo principale per sviluppare unione e un ponte di conoscenza reciproca e migliorare il dialogo tra culture diverse ma comunque vicine geograficamente e storicamente. Un dialogo che si esprime sia nella collaborazione Filippo_Arlia e Cesare Chiacchiaretta - Duettango.JPGche nella formazione, nella condivisione di conoscenze, di talenti, di esperienze. L'Opera qui è vista come Italia e questo promuove la nostra lingua e l'immagine nel mondo. La cultura è un antidoto al terrore, contro chi vuole brutalizzare le nostre vite e la nostra quotidianità, basti pensare che ho personalmente organizzato un concerto all'interno del Colosseo di El Jem una settimana dopo l'attentato del 2019 riuscendo a portare 1500 spettatori. Inoltre questa manifestazione è anche una bella opportunità lavorativa per i giovani tunisini”.

L'esecuzione di Arlia-Chiacchiaretta ha scelto il tango come perfetta sintesi ed emblema tra il Sud Italia e la Tunisia: il tango racconta in ogni nota una storia di emigrazione, in ogni armonia straziante ci ricorda volti, occhi, mani di chi è partito verso lo sconosciuto e l'ignoto per andare a cercare fortuna altrove, lontano da casa propria, dai propri affetti. Succedeva agli emigranti calabresi verso le Americhe nell'Ottocento e Novecento, succede ai tunisini oggi verso l'Europa. Il tango, che fa rima con piango, ci parla di sudore e lacrime, di lontananza e passione viscerale verso la propria terra che negli anni sbiadisce la memoria ma tiene viva la fiammella. I Maestri in nero, intagliati sul rosso vermiglio del sipario e nella porpora delle poltroncine, immersi nel bianco latte del Municipale hanno sfoderato tutta l'energia caliente e il sentimento tattile e concreto nel loro “Duettango”, rovistando nel tormento, nello struggimento con forza, passione, nostalgia. Piazzolla è stato felicemente celebrato con esecuzioni decise, senza incertezze, esprimendo una grande chimica tra i due artisti in scena e gli applausi convinti e sentiti del pubblico partecipe hanno sottolineato l'alchimia artistica che si è generata sul palco. Vibrazione e commozione, brividi sparsi, miscelati con grinta e garra latina, tenacia e vigoria, per una cavalcata trionfale tra le fiamme dell'Umanità. Sarà interessante tornare qui a settembre per cogliere nuove sonorità e nuovi incastri nello scenario di El Jem, un diverso fondale per musiche senza tempo impastate tra Italia e Tunisia, così vicine e sempre un po' meno lontane.

Tommaso Chimenti 23/05/2022

TUNISI - Si svolgerà a Tunisi il prologo dell'edizione 2022 del Fortissimo Festival con la direzione artistica del Maestro Filippo Arlia e del Maestro Achref Bettibi. Un' assaggio musicale dedicato ai giovani talenti, in attesa della famosa manifestazione musicale, il Fortissimo Festival che quest'anno non si terrà come di consueto in Calabria ma avrà luogo nel mese di settembre presso l'anfiteatro romano di El Jem in Tunisia.
L’anticipazione “Notti prima del Fortissimo Festival”, incentrata proprio sui giovani artisti come “vero motore di una società moderna e all’avanguardia”, sarà in scena a Tunisi, in varie prestigiose sedi della città, dal 18 al 21 maggio, grazie all’organizzazione del calabrese Conservatorio di Musica Tchaikovsky, diretto da Filippo Arlia (classe 1989, è il più giovane direttore di conservatorio italiano), e alla preziosa collaborazione di IIC di Tunisi - Istituto Italiano di Cultura, il Conservatorio di Musica di Ben Arous e Association Les Solistes diretti da Achref Bettibi.Filippo_Arlia e Cesare Chiacchiaretta - Duettango.JPG
Una collaborazione attiva quella tra i due conservatori che già nel 2021 ha portato alla realizzazione di corsi di formazione indirizzati a giovani maestri d’orchestra, clarinettisti e sassofonisti; un’operazione culturale che ha aperto le porte di un nuovo progetto d’integrazione sociale e musicale sul Mediterraneo. Sarà quindi il confronto tra le due culture musicali e la contaminazione culturale come valore aggiunto e fondante delle nuove società a fare da perno e fil rouge alle quattro serate di questo prezioso prologo.
Il cartellone spazierà dalla musica classica a quella popolare, dal jazz e il tango di Astor Piazzolla, alla lirica con l’omaggio dei giovani cantanti tunisini ai cento anni di Renata Tebaldi.
La rassegna inizierà il 18 maggio presso la sala concerti ISM di Tunisi con "Momenti musicali" dove si esibiranno insieme gli studenti del Consevatorio Tchaikovsky di Catanzaro e quelli del Conservatorio di Musica di Ben Arous di Tunisi, con originali perfomance al pianoforte. I musicisti coinvolti saranno Daniele Di Maria, Maria Scalzo, Jovanny Pandolfo, Francesco Guida, Islem Ben Hamida, Ilef Hiba Matar, Mohamed Mimouni, Haroun Karoui. A seguire, sarà la volta del gruppo da camera Asir Piano Trio con Roberta Ficara, Nico Fuscaldo, Filippo Garruba, al pianoforte, e Giuseppe Laino al trombone.
Si prosegue il 19 maggio presso 4EME Teatro d'Arte con "Mediterraneo in Armonia", un progetto di musica popolare con L'Orchestra Les Solistes arlia foto web.jpgde Megrine diretti da Achref Bettibi, con Alessandro Gaudio alla fisarmonica diatonica. A seguire il Trio arabo con Malek Hamzaoui al kanoun, Youssef Badri al piano, Iskander Ben Amou alle percussioni.
Il 20 maggio il programma si sposta al Teatro Municipale di Tunisi con "Atmosfere di Opere di tango": il "Duettango" con Filippo Arlia al piano e Cesare Chiachiaretta al bandoneon, in apertura, e, a seguire, i giovani cantanti del conservatorio tunisino si esibiranno in un omaggio ai cento anni di Renata Tebaldi, la cantante lirica più amata di tutti i tempi. Si esibiranno Adriana Grekova, Ichraf Salem, Amra Loubiri, Wajih Bejaoui, Mohamed Ammine Bouhel, Ryma Turki, Ilef Hamdi, Ghenwa Krifa, Mahmoud Turki, Narimene Bouchalghuma; al pianoforte Roberto Ficarra Nico Fuscaldo, Filippo Garruba.
Per l’ultima serata, il 21 maggio presso 4EME Teatro d'Arte, andrà in scena il “Gran Galà Classico”, con l’Orchestra Les Solistes De Megrine diretta da Achref Bettibi e Chada Abidi con Adriana Grkova mezzo soprano e al pianoforte Todor Petrov, Roberta Ficara, Nico Fuscaldo, Filippo Garruba, Farh Ben Youssef, Hiba Kraiem, Chaima Ajailia.

Un prologo aperto, quindi, ai vari linguaggi musicali e alle diverse generazioni di interpreti e musicisti che ben rispecchia e rafforza sia l’anima del festival che quella del suo direttore, Filippo Arlia, che seppur giovanissimo vanta un curriculum di altissimo livello, la direzione di numerosi festival e programmi di spettacolo organizzati in collaborazione con il Conservatorio – come la Stagione Sinfonia al Teatro Politeama di Catanzaro, Festival del Mediterraneo, Mediterraneo Radio Festival – e una visione futura della cultura della propria regione e non solo alta e condivisibile: “il mio sogno personale – ha commentato lo stesso Arlia – è senza dubbio un’orchestra stabile per la mia regione, la Calabria, perché è l’unica regione italiana non avere una Istituzione Concertistica Orchestrale, oltre che a non avere un Teatro Stabile; questo purtroppo è un problema che affligge la nostra terra e che costringe spesso i giovani artisti ad emigrare. La nascita di un’orchestra filarmonica stabile e di un teatro per la Calabria rappresenterebbe la diffusione di una cultura innovativa e imprenditoriale che crea lavoro e investe sulle proprie maestranze, altamente specializzate nella cinematografia, nel design artistico, nella realizzazione di spettacoli sinfonici e di teatro musicale. Un’occasione per incentivare nuove piattaforme occupazionali attraverso la costituzione di un’orchestra stabile, composta da musicisti calabresi che tramandino l’opera lirica conosciuta e apprezzata in tutto il mondo”.

Tommaso Chimenti 09/05/2022

BOVA - “La dignità è al sommo di tutti i pensieri ed è il lato positivo dei calabresi” (Corrado Alvaro). La Calabria è una madre arcaica e scontrosa e rugosa e curva che fa allontanare i propri figli per mancanza di domani e da lontano li ama ancora più forte ed è ricambiata ancora più visceralmente. Piange il cuore vedere la ferrovia che deturpa la costa, che taglia le spiagge. La terra è bruciata, la terra continua a bruciare. In alto volteggiano i Canadair che viaggiano a coppia facendo la spola tra il mare e queste montagne di stradine che si arricciolano, si inerpicano, si aggrovigliano simili alle salsicce che girano su se stesse come liquirizie, con il finocchietto selvatico e il piccante (che qui è una religione, una morale e un way of life). Questi aerei gialli e rossi vorticano nel loro brulicare tra le nuvole superando gli spuntoni di roccia che affiorano nello skyline che sembrano dover bucare e sgonfiare il cielo. Bova (da non confondere con Bova marina, qui gli abitanti ci tengono alla separazione netta) è a 900 metri sopra il livello del mare e, arrivandoci, la sensazione è quella del presepe 

236439950_10215627041667488_5028595219927995748_n.jpgda cartolina. Gli arbusti secchi ai lati della strada, l'erba ingiallita, i campanacci di pecore e capre che rincorrono l'ultima ombra nella vallata. Il silenzio è secolare, ti viene spontaneo di acquietare i pensieri banali di cittadino e stare in ascolto, di un fruscio, di un gemito, di un verso portato qui da chissà quale parte dell'orizzonte. La foschia opacizza il mare là in fondo. Quello che vedono le retine è metafora di quello che esprime l'intorno: rovi, sassi smangiucchiati, ferri arrugginiti che spuntano, abitazioni abbandonate alle sterpaglie, il ronzio costante di insetti alla ricerca di qualcosa. E' Aspro questo Monte. Ma nel selvaggio incolto ecco anche i fichi dolcissimi come le more che tingono di macchie malate e chiazze viola il cammino.
All'entrata del paese non può non colpire la gigantesca locomotiva, comprensiva di un vagone, che intasa la piccola piazzetta e relega gli anziani a giocare in tavolini minuscoli ed emargina i bambini a giocare attaccati a questa ferraglia lucente nera bordata di rosso. A Bova non c'è neanche la stazione, non ci può essere. Istituzione di Bova è il “Lestopitta”, il ristorante dei gemelli Mimmo e Nino con le loro pizze fritte farcite con melanzane e peperoni e capocollo e formaggio e il vino nero che qui tengono in fresco mentre altrove sarebbe una bestemmia. Un paese di salite e discese, da polpacci buoni, un borgo dove le case sono costruite proprio sulle rocce e il muschio le adorna, le colora di giallo, le pitta granuloso e ruvido. Salendo si arriva, passando per la Grotta degli Innamorati, fin su al Castello Normanno del quale rimangono alcune rovine e dal quale si vede un teatro all'aperto purtroppo inutilizzabile (chissà da quanti anni) perché in alcuni punti hanno ceduto le assi del palcoscenico; fare e vedere teatro quassù sarebbe una meraviglia per lo spirito, esperienza unica per attori e pubblico. A Bova tutto è slow e anche il telefono non prende e la parola “wifi” viene percepita con sospetto se non proprio come una vera minaccia all'integrità e all'identità del luogo. E' proprio un valore aggiunto quello di non poter essere connessi a null'altro che non sia quel luogo e quel tempo nel presente. Per le stradine sotto i piedi scrocchiano croccanti gli aghi di pino che sembra di calpestare un pane appena sfornato, tra i muretti a secco e le ringhiere di tronco. 

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Da venti anni vengono qui in inverno a provare i loro spettacoli la compagnia Mana Chuma Teatro (il drammaturgo e regista Massimo Barilla, l'attore e regista Salvatore Arena, il musicista Luigi Polimeni) gruppo metà siciliano e metà calabrese, e qui hanno deciso di portare la prima edizione del loro “Epic Festival” (16-24 agosto; per il futuro bisogna lavorare meglio sul pubblico) dislocato tra piccoli cortili, aie, piazzette, parchi. Siamo nella Calabria Grecanica ed anche i cartelli sono in doppia lingua: “La gente di questi paesi è di un tatto e di una cortesia che hanno una sola spiegazione: qui una volta la civiltà era greca”, sosteneva Cesare Pavese. Nelle parole di Barilla contenute nel suo volume di poesie “Ossa di crita” (creta, argilla ma per assonanza anche grida, suggestione del tutto personale) stanno i termini e le atmosfere che identificano questa terra appuntita e solidale, che ferisce e abbraccia, zolle che producono cicoria e cardi così come la dolcezza amara del bergamotto dal profumo intenso. Ci sono le mani, i sapori, i saperi, i graffi, i chiodi e il vento, il padre, i denti, il vino, il sangue, le orme, il dolore, la carne, la pietra, la polvere, il fango, le ombre, la madre. Un libro, che qui è diventato performance, in doppia lingua, calabrese (o meglio reggino) e italiano a fronte. A strizzarle ne esce l'odore secco del sole che ferisce come arpioni. Ad accompagnare Barilla il musicista e compositore Luigi Polimeni che maneggia il Thremin, strumento che emana frequenze, carezzandolo, lisciandolo, massaggiandolo come se toccasse una pelle nuda cercando l'armonia migliore, l'onda che fa rima, l'aria che si sfarina, muove i palmi nell'aria trovando l'invisibile, sposta consonanze di materia volatile che noi scettici non possiamo decodificare sfiorando quell'asta di barca a vela al tramonto, bianca come pinna di squalo in controluce. E' una magia quella che provoca, surfando sul niente, donando senso, tagliando il silenzio. Quella di Barilla è una poesia tattile e naturale, di smozzicamenti e morsi, parole artigiane, di brace, di occhi stretti, di amore e morte.

Di spine è pieno lo sguardo, tra i fossi, tra i campi. E “Spine” (testo e regia delle due anime dei Mana Chuma, e nuova produzione), drammaturgia onirica e trasognante che, in loop, lascia i toni Gli-attori-Mariano-Nieddu-Stefania-De-Cola-e-Lorenzo-Pratico-foto-di-Felice-DAgostino-15.jpgrealistici per affondare e approdare in una dimensione impalpabile dove tre personaggi, anche scambiandosi i ruoli, se ne stanno reclusi, senza via d'uscita che non sia quella di ripercorrere gli accadimenti, di perpetrare quel dolore subito per giungere ad una nuova consapevolezza. In una sorta di taverna senza tempo l'ostessa Maddalena, il Capitano Lucio e il Becchino danzano e avanzano senza posa tra queste quattro mura che asfissiano il pensiero, si arrovellano sugli stessi argomenti in un ripetersi che torna e ritorna senza lasciar loro nessuna possibilità di movimento che non sia quella di rivivere gli eventi, nuovamente raccontarseli, riassorbire quel tragico dolore addosso, come veleno, senza riuscire a digerirlo ma solamente a ripercorrerlo, senza perdono, senza salvezza, senza assoluzione. E non si sa se siano le spine della vita che li hanno colpiti a fondo, in profondità, oppure se siano proprio loro delle spine che ormai, soltanto muovendosi nel mondo, feriscano chi gli sta accanto ferendosi a loro volta. Ogni giorno che cala gli stessi gesti sincopati, le stesse battute in questo angolo di Purgatorio che non purifica, in questa parentesi che li punisce ad una sofferenza eterna senza redenzione né possibilità di liberarsi del peso. Stonano leggermente le parti parodistiche, che sfociano nel ridicolo, troppo prolungate e forzate. Maddalena (come l'amante di Cristo; Stefania De Cola puntella le scene con eleganza e forza, tempra salda) e Lucio (Lucifero, portatore di luce; Lorenzo Praticò ha cambi di registro importanti) sono/erano una coppia, che adesso vive soltanto di recriminazioni e accuse, mentre il Becchino/Caronte (Mariano Nieddu sempre una garanzia) seppellisce i morti in questa bolla spazio-temporale, ed ha dato l'estremo saluto anche al loro figlio piccolo. E' questo il nodo e il moto verso cui tende tutta la forza e la violenza del testo, tutta la tensione di parole rimaste imbrigliate, zeppe di non-detto che ciclicamente tornano in questo pericoloso gioco a tre (assimilabile più al “Woyzeck” di Buchner che al molto citato “Otello” shakespeariano) che rivivono all'infinito la sequenza ultima, questa processione faticosa e snervante che li taglia, li spezza, li sfinisce, li prosciuga, li annichilisce, li svuota in questa condanna perpetua, immateriale e permanente: la peggiore di tutte le pene, avere la possibilità di riviverla senza poter cambiare il corso delle cose nella loro condizione di clausura.

“I calabresi sono gente dal carattere temprato come l’acciaio” (Antonio Gramsci).

Tommaso Chimenti 22/08/2021

CASTROVILLARI – Lockdown maledetto lockdown. Tremenda sciagura la quarantena. Il teatro non può non riflettere sui mesi appena passati e, forse, purtroppo, su quelli che verranno. Chiusi, lontani dalla socialità, lo streaming dal divano da casa, adesso con i posti in teatro ridotti, le prenotazioni, le prove senza contatto. Un mondo stravolto, quello degli attori, delle compagnie, degli organizzatori, dal punto di vista esistenziale ed economico, di possibilità e di visione futura. Un muro improvviso ha chiuso il panorama, serrato le aperture. E così il titolo già di per sé incisivo “Vivere è un'altra cosa” (prod. Corte Ospitale e Olinda) del gruppo milanese Oyes (belli i loro “Vania” e “Io non sono un gabbiano”, meno convincente ma sempre interessante “Schianto”) ha ripercorso, tra leggerezza e profonde ferite, sorrisi e lacerazioni ancora irrisolte e non rimarginate, i tragici momenti di sconforto e abbandono ognuno nelle proprie case, isolati dal resto e collegati al quartiere da banali canzoni trash al balcone, paccottiglia come l'applauso all'atterraggio, tutti quei lenzuoli con su scritto “Andrà tutto bene” quando era ovvio che non andava affatto bene niente, i bollettini di guerra e necrologi delle sei del pomeriggio quando la sera avvampava, il buio là fuori si mangiava un altro giorno e la notte scendeva dentro il petto di ognuno di noi appesi alla speranza che veniva vanificata, le solite interviste ai soliti virologi, i dibattiti e i talk show con i numeri impietosi, le camionette militari con le bare di Bergamo. Praticamente da allora poco è cambiato nel nostro immaginario tranne che, e ovviamente non è poco, anzi è essenziale, il poter uscire, andare, fare, a distanza e con la mascherina, certo, ma pur sempre “liberi finalmente e non saper che fare” come avrebbe chiosato Baglioni.20201015arzanominilockdownrcs_640_ori_crop_master__0x0_640x360.jpg

Cinque attori, diretti dalla mano sicura di Stefano Cordella, in uno spazio aperto hanno raccontato il loro personale autobiografico piccolo calvario di mancanze, di lezioni on line, di figli ai quali non saper cosa dire, di compagni e compagne da sopportare, di questa apatia e depressione che tutti affliggeva, costretti a dover fare esercizi fisici e mentali per non pensare al momento ma spostare l'attenzione, cucinare follemente come a Masterchef, impastare anche se non avevamo mai fatto prima il pane, tutti ora esperti di lievito madre, ora ingrassare per poi diventare salutisti e dimagrire a suon di pilates e kettlebell, plank e yoga, squat e addominali. Al centro della grande scena sgombra un modellino di un palazzo in miniatura, quasi casa di Barbie, che nell'inframezzarsi tra una storia e l'altra, centellinata, sospesa, stoppata e poi fatta ripartire come i giorni o le settimane reclusi e relegati a fornelli e Netflix, si accendeva, si illuminavano le finestre, aperture lucenti che significavano che la famiglia era in casa forzatamente, sprangata nell'attesa di buone notizie che non arrivavano, che non arrivavano, che non arrivavano “ed una radio per sentire che la guerra è finita”, continuando con il Claudio nazionale.

Il quarantenne con compagna, figlia e cane al seguito, insoddisfatto interiormente della propria condizione d'attore che ha perduto quella verve che lo aveva portato a voler stare sul palco, quel fuoco che lo pungeva (Umberto Terruso essenziale, fondamentale), la giovane sposa da sempre fidanzata con il proprio uomo e che si è sempre raccontata felice (Francesca Gemma tenace), il ragazzo schiacciato dalle aspettative familiari e dal successo degli altri componenti del suo nucleo di riferimento (Francesco Meola appassionato, intenso), la ragazza single che ha fatto la quarantena da sola tra piccole euforie momentanee e grandi disagi costanti (Martina De Santis lucida, melò), il quinto convinto single, geloso dei suoi spazi e della propria libertà che poi ha ceduto alla convivenza (Dario Merlini ironico). “Storie di tutti i giorni vecchi discorsi sempre a metà”. Il desiderio di impegnarsi in qualcosa di produttivo per non perdere tempo ma per mettere questa parentesi a frutto facendo o intraprendendo quello che avevi trascurato e messo da parte: corsi, riparazioni, letture, introspezione. Cinque attori e nessun lavoro in vista con la prospettiva di un post lockdown ancora peggiore con recessione, disoccupazione, preoccupazioni di carattere economico ed emotivo.

Uno stop forzato che ha messo un punto a ciò che eravamo e ci ha costretto a pensare, o ripensare, a chi eravamo, a che cosa cercavamo, se eravamo sulla strada o rotta giusta per raggiungere la nostra intima felicità, se quello che stavamo facendo ci stava facendo bene, se mollare o perseverare. Cinque storie, vere, reali, degli attori in scena, che erano, sono, le storie di tutti noi, nelle quali sentirsi rappresentati, fotografati, identificati tra ricordi e commozione, ripensando alle nostre fragilità, alle crepe scricchiolanti dentro le nostre vite superorganizzate, sempre con i minuti contati, le agende, gli appuntamenti, con la sensazione perenne di poter far tutto, andare ovunque, raggiungere chiunque, con quell'idea di mobilità nello spazio come nella crescita personale e nel raggiungimento degli obbiettivi. Ad un certo punto a tutta la carne al fuoco che avevamo messo a cuocere nelle nostre esistenze qualcuno ha spento la fiamma e ci siamo accorti che la carne non era così di prima qualità, che alcune parti erano e sarebbero rimaste crude, e che altre, al contrario, erano già bruciate, andate, corrose, consunte, avariate. E' che quando sei nel vortice, dentro al Sistema, non ti accorgi VIVERE-E-UN-ALTRA-COSA-OYES.jpgdei piccoli rumori degli ingranaggi, ti concentri sul grande movimento senza considerare le minuzie, i moti impercettibili, i gesti dimenticabili. La quarantena ci ha reso più umani? No, semmai, ci ha fatto fare un passo indietro e da un metro più lontano i contorni sono più nitidi e l'affresco si comprende meglio nel suo insieme. Abbiamo capito che siamo una serie infinita di domande più che di soluzioni a buon mercato che qualcuno tenta di spacciarci e venderci, che siamo dubbi e paure e non certezze e solidità, che siamo uomini e non superman, che si può cadere sconfitti.

A pezzi siamo dentro ogni storia, o lo siamo stati, un giorno ci siamo sentiti come quel padre o come quella sposa, come quel ragazzo oppresso dal successo dei propri consanguinei o come l'attrice sola o ancora come l'eterno scapolo; c'era da perdere la bussola, da travisare, da non connettere più in un mondo che parla solo e costantemente di connessione. Non saremo mai 5G dentro. Saremo sempre più vicino alla tartaruga che alla lepre. Siamo (stati) tanti fondi di caffè (come quelli gettati sul palco) usati e polverosi, metafora giusta e perfetta, con l'illusione di rimanere e stare svegli mentre ci addormentavamo stanchi e sfatti, affranti e afflitti, fondi compatti come dischi da hockey che al contatto con il terreno si sfaldano e si sfanno, si parcellizzano, si spezzano, si sfarinano disorientati senza una regola, impotenti tra il desiderio che tutto finisca presto e l'assuefazione a questo nuovo status, racchiuso nel grido sommerso “Non ho voglia che tutto riparta”.

Altra clausura forzata è il recinto che Saverio La Ruina delinea e traccia nella sua piece: una tenda da terremotati dopo una catastrofe naturale, piccole e strette mura di tela e stoffa con tutto il disagio fisico e psicologico dell'aver perso tutto, di un futuro nebuloso se non proprio nero, di speranze azzerate, di convivenze forzate. E' qui, in questa pseudo casa fredda senza ricordi né calore familiare che si ritrovano “Mario e Saleh”, due mondi, due culture, due età, due modi di pensare agli antipodi. Uno cristiano l'altro musulmano, uno anziano l'altro giovane, lo scontro è inevitabile. L'impatto sul teatro italiano di La Ruina in questi anni è stato importante per due motivi, nella scoperta di una lingua, il calabrese, poco o per niente usata, a differenza del napoletano o del siciliano ad esempio, sui palcoscenici, dandogli dignità d'essere e d'esistere scenicamente, e il portare a galla fenomeni e storie altrimenti sepolte, dimenticate e sotterrate, pensiamo alla condizione della donna in “Dissonorata”, agli italiani nati in Albania e non voluti né da una parte né dall'altra dell'Adriatico in “Italianesi”, gli aborti clandestini con ferri arrugginiti ne “La Borto”, l'essere omosessuale in un paesino giudicante del Sud in “Masculu e fiammina”, fino alla violenza domestica in “Polvere”.

Se però il regista, drammaturgo e attore di Castrovillari perde, o accantona, la propria lingua madre che regala immaginario e vigore, allora il discorso si normalizza perdendo quel pepe, quel pungolo, quelMarioeSaleh_fotoTommasoLePera-1.jpg piede di porco per scartavetrare, per far saltare il banco, per aprire il vaso di Pandora delle emozioni ancestrali e così legate al suo territorio d'origine. In qualche modo quelle parole “italianizzate” si depotenziano, non pungono più come attraverso quel dialetto che ferisce e brucia anche nella sua incomprensibilità che infligge una patina di mondi lessicali impossibili da tradurre ma soltanto compresi dal suono, dall'armonia rude, dall'assonanza musicale. Questa la prima riflessione sul linguaggio di “Mario e Saleh”, mentre la seconda si attiene, pur all'interno di una messinscena solida che sempre tiene il punto sia a livello registico che attoriale (l'altro interprete è il convincente Chadli Aloui), al lato più sociale o se vogliamo politico dell'idea che sta alla base del testo. Negli ultimi anni di infiniti sbarchi irregolari e di tensione sociale sempre crescente in un Paese in default, l'Italia, con una crisi galoppante e le periferie che esplodono, il teatro però sembra avere il paraocchi e disegna e identifica sempre i buoni negli immigrati, migranti o extracomunitari, mentre i cattivi sono gli italiani, forse compresi quelli che sono lì in platea ad ascoltare e applaudire. Lo straniero è, come in questo caso, sempre cordiale, gentile, premuroso, generoso, modesto, colto e acculturato, misurato e saggio, mentre noi siamo dipinti come maschilisti, stupidi, machisti, omofobi, sessisti, razzisti, ignoranti, analfabeti. Siamo sempre disposti a concedere il beneficio del dubbio e un'altra possibilità allo straniero ma con l'italiano, con l'occidentale caucasico siamo implacabili, inflessibili, rigidissimi. Forse, per senso di colpa, vogliamo colpire noi stessi, per senso di inadeguatezza vogliamo infliggere all'altro nostro simile quello che non riusciamo a digerire del nostro stare al mondo, pur condividendolo e abitandolo.

Anche in questo MarioeSaleh_fotoTommasoLePera-3.jpgcaso il buono e il cattivo sappiamo subito da che parte stanno, però siamo sempre ben predisposti d'animo con chi arriva, senza i documenti in regola quindi contro le leggi del nostro Stato, non solo da un altro Paese ma addirittura da un altro continente, che ascoltare le istanze di un nostro concittadino che paga le tasse da generazioni. Prima gli italiani ci fa schifo ma prima gli stranieri è assolutamente legittimo. E' il razzismo al contrario con gli stessi preconcetti e prevaricazioni e pregiudizi che vogliamo combattere e condannare in quello ordinario. La tesi anche in questo caso, però, è subito lampante e predefinita e preordinata: il ragazzo nordafricano ce la mette tutta per essere accolto mentre Mario è aggressivo e maleducato, offensivo e predominante, minaccioso e autoritario. Povero Saleh, acriticamente, a priori, per partito preso, e giù diamo addosso a Mario, crocifiggiamolo, anzi sostituiamo tutti i Mario volgari con tanti Saleh così dolci e docili e carini. Il teatro spesso non vede la realtà ma la riporta come vorrebbe che fosse. Anche da questo si nota che lo scontro sociale interno al Paese, spaccato in due (non si parla di bipolarismo), diviso su ogni scelta, dove vince sempre l'ideologia e la strumentalizzazione. Il problema non è essere nazionalisti o sovranisti o addirittura patriottici, tutti termini identificati come negativi. Sarebbe bello che l'immigrato ci portasse saggezza e lavoro, purtroppo sono uomini e donne anche loro, per giunta spesso senza istruzione e con la fame (pochi invece scappano da zone di guerra) che attanaglia la bocca dello stomaco, e quando hai fame, in un Paese come l'Italia dove di lavoro ce n'è poco, è facile cadere nell'illegalità e nella microcriminalità. Se dell'immigrato fai un santino e dell'italiano un carceriere illetterato e scimmiesco, il quadro stona, la realtà viene deformata, l'analisi s'inceppa.

Tommaso Chimenti 

 

CASTROVILLARI – Sembra che in questi ultimi vent'anni poco o niente si sia mosso a Castrovillari. Le scritte stinte e stanche sono al loro posto, nessuno ha tinteggiato nuovamente il muro o la facciata del palazzo, nessun altro ragazzo ha vergato frasi inneggianti ai successi recenti, limpidi o meno, della Juventus. Tutto pare fermo, cristallizzato, immobile. Cambiano soltanto i necrologi e i manifesti elettorali. Le cose inevitabili. Le stesse buche, le stesse crepe, gli stessi marciapiedi rialzati dalle radici degli alberi. Che niente cambi. Neanche gattopardesco. Nessun scossone, nessun stravolgimento. Le solite fontane secche, i giardinetti aridi e incolori, spogli, sdruciti, sciupati, ricoperti delle carte che svolazzano e di quella sporcizia quotidiana della quale nessuno si preoccupa, c'è, c'è stata e ci sarà, ormai fa parte del panorama. Neanche i cani ci vanno più a marchiare il territorio. Grossi cani infreddoliti che si trascinano in cerca di un riparo, di un pezzo di pane. Nessuno si cura neanche di loro. Abbondano invece negozi d'abbigliamento che si alternano con i bar. E te li figuri gli abitanti del comune calabrese sotto il Pollino sfoggianti sempre nuovi vestiti e una tazzina in mano, neanche fossimo a Napoli. Sui camion della frutta e verdura spuntano adesivi di Madonne che hanno visto giorni migliori e che hanno perso i loro colori per la pioggia e il tempo, a terra peperoncini caduti nel giorno di mercato.

Resiste la scritta più iconica (e laconica) del centro cittadino, nel “salotto buono” sotto una panchina di marmo vicino al municipio, con lo spray blu, che ormai ha perso la sua forza: “Tu sei solo mia”. Messaggio d'amore giovanile, lievemente machista ma perdonabile perché sicuramente adolescenziale. Qualcuno, però, in fondo all'aggettivo possessivo ci ha aggiunto una O, cambiandone il significato, parodiandolo, modificandolo, certamente smitizzandolo e migliorandolo. Impossibile ogni anno non fotografarla: “Tu sei solo miao”, a metà strada dall'essere gatta e quel “Sei tutto chiacchiere e distintivo” de “Gli Intoccabili”, di stampo poliziottesco-mafioso: sei un miagolio e basta, nemmeno abbai, figuriamoci se puoi mordere, al massimo graffiare. 121095407_10213913211262799_1859308194492316627_o.jpgSi aggira anche il solito “disagiato del villaggio” con le sue gag sgangherate, con le sue piccole manie e molestie modeste alle quali nemmeno lui crede più quasi dovesse assolvere un copione: la richiesta di spiccioli, di sigarette, elemosinare un caffè insistentemente fino ad essere cacciato in malo modo fino al prossimo bar, in loop nel suo girone dantesco. L'unica cosa che in questi venti anni è cambiata è Scena Verticale, la compagnia teatrale diretta dalla Triade Dario De Luca, Saverio La Ruina e Settimio Pisano, che a fine anni '90 ha ideato, progettato e poi fatto crescere e arricchito di edizione in edizione, il festival “Primavera dei Teatri”, punto di riferimento non regionale ma nazionale, e non da oggi. In questi lustri si è tarata verso l'alto l'organizzazione, la scelta, l'occhio critico, il ventaglio di possibilità di una rassegna fiore all'occhiello che forse, ancora, le amministrazioni che si sono succedute a Castrovillari non hanno compreso a pieno il peso artistico e il valore “politico”, nella sua accezione più alta, abbia avuto e continui ad avere a livello italiano.

Primavera si è evoluta anche se Castrovillari (quest'anno protagonista di una delle prime tappe del Giro d'Italia, la sesta, fino a Matera) sembra almeno in apparenza non aver assorbito la lezione, lasciandosi scivolare addosso un festival che si svolge in un triangolo cittadino eccezionale composto dal Castello Aragonese, il Protoconvento bianco candido, dove si svolgono principalmente gli spettacoli, e l'Osteria della Torre Infame (con Nicola, burbero ma generoso, supportato da Pasquale, ruvido ma sempre disponibile) che sfama gli ospiti con la sua celebre Fuoco di Bacco, spaghetti piccanti risottati cotti nel vino, una delle chiavi del festival. Triangolo che però risulta un'isola felice ma sempre isola rimane, lontana dal centro; non certo periferico ma appare più una parentesi in fondo alla strada principale che in discesa arriva fino allo snodo prima di scegliere se addentrarsi verso la cultura o risalire e attraversare con lo sguardo altri negozi con i loro mirabili sconti e nuovi bar. Negli scorsi anni, con l'apertura del Teatro Vittoria nella centrale via Roma, quella dello struscio, si voleva, e ci erano riusciti, ovviare a questa esclusione di “Primavera” dalla vita sociale del paese, e che invece, quest'anno, causa Covid, non è stato possibile riaprire.

Basta constatare il gusto nel confezionare, anno dopo anno, le locandine che identificano, disegnano e incorniciano il festival: uno spot, un lancio, una fiamma, un flash di colori e significati sempre incisivi, sempre attuali e contemporanei, sempre sul pezzo. Quest'anno (il festival dal consueto fine maggio è stato spostato per la pandemia a ottobre, dall'8 al 14) raffigura una porta che si apre sul domani e una ragazza dai tratti afro che prende per mano, quasi per condurla in un'altra dimensione, in un nuovo mondo dai colori più tenui rispetto al viola della stanza in primo piano (come non pensare a Gino Paoli?), una ragazza biondissima, nordica. Due mondi che si toccano, due mondi non più così lontani innestati nell'universo femminile. In quelle due mani strette c'è fiducia, affidarsi, complicità. “Primavera” è sempre stata avanti, oltre le mode, senza il bisogno di cavalcare le onde facili del momento ma spostando l'asticella di volta in volta, stimolando il dibattito.

Anche in questa ventunesima edizione tante proposte (tre al giorno e poi incontri e presentazioni, conferenze e convegni, laboratori e mostre) dove il fil rouge era la luce. Partiamo proprio da quello che il direttore De Luca ha definito un “festival nel festival”: il videomapping del Maestro Giancarlo Cauteruccio. Se l'appellativo Maestro è stato abusato e scialacquato, appena ti soffermi davanti a queste idee concettuali del regista calabro-fiorentino, ne senti tutto il peso, la forma, l'importanza, la cadenza. Il fondatore della compagnia Krypton (ci mancano, come ci manca il loro spazio innovativo nell'hinterland fiorentino, il Teatro Studio di Scandicci) ha scelto cinque luoghi simbolo della cittadina in provincia di Cosenza equidistante trenta chilometri dal Tirreno come altrettanti dallo Ionio: il Municipio, la Cattedrale, il Castello, Palazzo Cappelli (al cui interno purtroppo hanno permesso l'apertura di una pizzeria a taglio) e l'Ospedale. Il titolo già scandaglia e scalfisce: “Alla luce dei fatti. Fatti di luce”. Un'idea che, per una settimana, ha ravvivato, vivacizzato, fatto esplodere di senso e colori, questi cinque punti cardinali della città, da starne davanti ed esserne travolti, trasportati, da vedere e rivedere ogni sera, sempre uguali eppure sempre con sfumature e particolari nascosti e celati oppure trascurati alla prima fugace visione. Apparizioni, epifanie. Esperienza assolutamente da ripetere ed esperimento che ha dato un tocco magistrale, d'autore, una firma, soprattutto le proiezioni sul Castello che diventava così agorà e foyer allargato di un ideale gigantesco teatro, piazza dove scambiarsi e incontrarsi accanto a queste luci che trasformavano un parcheggio scialbo in un'opera d'arte potente in continuo divenire e tramutarsi, un'araba Fenice che risorgeva con nuove luci dalle ceneri delle precedenti: poderoso, irradiante, da naso all'insù. Mai più senza.

La luce Corpo_arena.jpgche Cauteruccio ha spruzzato sulle mura antiche, i Mammut Teatro l'hanno direzionata per andare a fondo e analizzare l'oggetto materia umana nel loro “Corpo/Arena”, prima trance di un trittico scritto dall'autrice portoghese Joana Bertholo, progetto all'interno di Europe Connection. Cibo, Insonnia e Vecchiaia, i tre stadi umani studiati. Per la regia pulita e netta, senza essere didascalica, ma precisa e sottolineante, senza sovrabbondanza, di Gianluca Vetromilo, tre personaggi con tute acetate, quelle che servono per dimagrire, e lucide come quelle degli astronauti, sono ingabbiati e intrappolati dentro un garage in un'attesa beckettiana spasmodica attendendo il loro cibo ordinato con lo smartphone. Si ingozzano e non sanno neanche il perché: perché così è stato e non sanno, non riescono, non vogliono cambiare prospettiva alla loro esistenza che appare segnata sui binari della non-scelta. La digressione sul cibo da fisica e materiale si fa metaforica, disegnandoci dei pazienti più che degli accaniti consumatori buongustai, dei degenti più che selezionati gourmet. Sono dipendenti ma non se ne sono mai resi conto; è proprio in questa assenza, in questa mancanza prolungata (potremmo trovarci un parallelismo delle nostre vite durante il lockdown impostoci) prendono coscienza delle proprie possibilità e che quello che credono di volere, il cibo in ogni sua forma, altro non è che un tranquillante soporifero che li acquieta, li stordisce, non gli permette di protestare, di cercare la propria felicità perché istupiditi, intontiti, confusi, immobilizzati da jungle food e troppa tv. Sono (siamo?) Vite al Limite: “Non siamo grassi perché divoriamo il mondo ma è il mondo che divora noi”. Sapiente uso delle luci che tagliano, squadrano, zoomano.

Luce, ancora luce, sempre luce. Non c'è luce più abbagliante di quella in fondo al tunnel, la luce celestiale del post, l'Aldilà. Senza pesantezze né eccessiva enfasi o pathos patinato, anzi con naturalezza e quella leggerezza che riesce ancora meglio a trascinare e a far passare le emozioni, quelle più eteree e impalpabili, quelle che teniamo nascoste, Maurizio Aloisio Rippa è riuscito a costruire un perfetto equilibrio tra le arie, da lui cantate meravigliosamente accompagnato dalla chitarra di Amedeo Monda, e le parole, musica e narrazione. Sono piccoli momenti di vita (e necessariamente anche di morte), piccoli estratti che sembrano ininfluenti, minimali, spiccioli, vite quotidiane, “normali”, che non lasceranno il segno se non nei pochi con le quali sono entrati in contatto. E un'anima non muore mai se viene ricordata e “riportata in vita” dalla memoria di coloro che restano. Sono “Piccoli Funerali” (ha vinto i Teatri del Sacro) elegie cantate in questa Spoon River dove Rippa (visto, e sempre ad altissimi livelli, con Latella come con Punzo) si apre, si scioglie, tra ricordi autobiografici e una scrittura semplice, diretta che non cerca giri di parole, piccoli lampi (a proposito di piccolo, ci ha ricordato i due pamphlet “Momenti di trascurabile (in)felicità” di Francesco Piccolo) che vanno a ritroso a cercare queste esistenze che sono sparite nel dimenticatoio, che non hanno fatto la Storia ma che sono state ugualmente importanti. Siamo nel chiostro bianco di Morano dove il clima freddo fa conflitto con il calore dei racconti di Rippa che danno brividi, commozione, lacrime che bagnano mascherine. Una canzone fa da specchio ad un suo ricordo in un dialogo continuo e la platea si trova naufraga sempre Rippa 3.jpgpiù imbrigliata, piacevolmente e con strazio, nella nostalgia della memoria personale, nel ripensare ai propri cari, alla propria famiglia, al proprio passato, le manchevolezze, le parole non dette e quelle che non potrà mai più dire a qualcuno che se n'è già andato. Non è uno spettacolo, o per lo meno non è un semplice spettacolo, non è un recital, ma è un aprirsi a cuore aperto e il pubblico ha fiducia e si mette nelle mani di questo sciamano che rievoca le figure universali che ci accomunano tutti toccandoci, un Rippa (una voce dolorosa a tratti come il frontman di Antony and the Johnsons, fluttuante e flautata come una grappa morbida senza essere soft, tra Tony Hadley e George Michael) in stato di grazia, phisique du role da sacerdote ortodosso che rende questo teatro cantato o questo concerto teatrale una serie di epitaffi che ci sconquassano di lacrime e ci lasciano una patina strana addosso miscuglio tra malinconia e quel senso di impotenza nei confronti del Cosmo, della Natura, del misterioso Creato.

Canta in spagnolo (“Alfonsina y el mar” da Mercedes Sosa), in inglese (“Oh, Danny Boy” o “Over the rainbow”), in napoletano (“Casa sulitaria” di Murolo), ci fa sognare e tremare, commuovere e ci riporta bambini quando tutto era possibile, quando il mondo dei grandi era lì per proteggerci, quei grandi che adesso se ne stanno andando. Non si ride mai ma si sorride, di noi soprattutto, delle nostre minime esistenze, di quanto ci prendiamo sul serio, di quanto tutto potrebbe essere più semplice e spensierato se non avessimo sempre il coltello tra i denti Maurizio Aloisio Rippa.jpege la sensazione di essere invincibili e soprattutto immortali. Siamo fragili ed è inutile nasconderci, siamo di passaggio, non dobbiamo piangere, stiamo soltanto dirigendoci verso un altro viaggio. Nell'ultima scena, quasi una consegna dell'ostia, del perdono o di una assoluzione, in fila andiamo richiamati dal nostro Pifferaio Magico e in quell'attimo di pura, vera, sincera condivisione, nello sguardo tra il performer e ogni persona del pubblico, lì, proprio lì, non esiste più il teatro ma la vita, l'esperienza di stare nello stesso luogo con ogni centimetro del proprio corpo: un insieme di gratitudine. L'onda lunga di “Piccoli funerali” si propaga nel tempo, non finisce con la fine dello spettacolo. Anzi, sorridete perché la fine non è mai la fine, ci dice Rippa, la fine non è una tragedia.

L'auspicio è che Castrovillari diventi ad immagine e somiglianza di “Primavera dei Teatri”, la speranza è che, prima o poi, nel prossimo ventennio, il virus della “Primavera” (non araba ma calabrese) colpisca, attacchi e intacchi, contagi anche il territorio; sarebbe davvero una rivoluzione copernicana.

Tommaso Chimenti

15.10.2020

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