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Un sogno nella notte di mezzestate, in scena dal 15 al 22 di novembre al Teatro Studio “Eleonora Duse” di Roma, è un’opera grande, in due sensi. Innanzitutto, letteralmente: non taglia, non accorcia, non comprime, mantiene i tempi e la struttura del capostipite, il testo shakespeariano non a caso tra i più rappresentati dell’autore. E poi nel senso figurato: nei suoi oltre 120 minuti di spettacolo supera ripetutamente le aspettative di uno spettacolo ambizioso, fedele e al contempo declinato nell’attualità, producendo una pozione, un farmaco dagli effetti allucinogeni, sì, ma anche benefici.
Quando si avvicina a una messa in scena di William Shakespeare, i sentimenti del pubblico sono dei più disparati: dalla speranza di assistere a qualcosa di nuovo, allo scetticismo e al timore che, nel disperato tentativo di ricerca, lo spirito originario si sia disperso del tutto. Per questo il percorso di Tommaso Capodanno, regista diplomando, con questo saggio, dell’Accademia Nazionale d’Arte drammatica “Silvio d’Amico”, è pregevole. Il testo, curato nella traduzione (coraggiosa) curata dallo stesso Capodanno insieme a Matilde D’Accardi, è abbondante ma, grazie a una dieta registica minimale attentissima ai dettagli, risalta leggero. Nei versi corre una musicalità sotterranea, nascosta in bella vista: frequenti le parole in rima, quasi mai accentate dal parlato, molto più vicino alla spontaneità che a qualsiasi metrica. Si ha quindi una percezione vaga, ma consistente, della poesia, che ben si addice tanto a un autore sacro quanto alla sua opera dissacrante.
La regia, che non invade gesti e parole, si manifesta visionaria nella capacità di riempire una scena spoglia di personaggi solidi, sfaccettati nella loro schiettezza, con pochi ma significativi costumi (a cura di Graziella Pepe e Alessia Gentile) e tanto simbolismo. Togliersi le scarpe col tacco equivale all’abbandono della civiltà ateniese, verso la follia senza legge né morale del bosco. Le maschere sono tali dentro il palco, ancor prima che fuori. L’imbroglio, lo scambio di ruoli e generi sessuali è reale, non reso necessario dall’avvicendarsi dei tanti attori (14) ma da scelte che approfondiscono l’interpretazione della trama. Il principio metateatrale, sprezzante e autoironico nel finale di Piramo e Tisbe, è applicato a tutto lo spettacolo, per giunta su più strati. Assistiamo perciò a scene stranianti dal fortissimo potenziale immaginifico: rave orgiastici nel bosco, danze d’accoppiamento, riti scambisti e, infine, l’alba del risveglio, dello svelamento e del rivestirsi, senza che niente risulti di troppo.
Domata quindi la bestia della rilettura di un classico, il regista capitalizza il tutto con la performance maiuscola dei suoi interpreti, tutti puntuali alla sillaba, nonostante il peso del “sogno” ricada anche sulle loro spalle. Lacrime, risate, paure e desideri sono evocati con stratagemmi estremamente esigenti, come le metamorfosi del “Chiappo” di Domenico Luca o il Puck “gemellare” di Aaron Tewelde e Nicoletta Cefaly, dall’inquietante e incredibile recitazione all’unisono. Da menzionare anche le luci di Camilla Piccioni, capaci di scolpire dal buio atmosfere deliranti o da brivido, secondo necessità.
Un sogno nella notte di mezzestate” si rivela quindi una ricetta complessa, stratificata, audace e di grande responsabilità, che riesce a saziare anche il palato più esigente con la ricchezza del suo gusto, cui convergono i suoi tanti e tali ingredienti. Non era facile immaginare uno Shakespeare così, e ora non è facile dimenticarlo.

Andrea Giovalè
16/11/2018

«Un sogno nella notte di Mezzestate è fatto di tranelli, doppi ruoli e giochi di potere. Ma soprattutto parla di un sogno: la vera anima dello spettacolo»: con queste parole Tommaso Capodanno presenta la sua versione di una delle più amate commedie di William Shakespeare, in scena al Teatro Studio Eleonora Duse di Roma dal 15 al 22 novembre. Recensito ha intervistato il giovane allievo-regista dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico: opinioni e riflessioni, un “dietro le quinte” del suo saggio di diploma.

Perché misurarsi con William Shakespeare per il saggio di diploma?
Più che William Shakespeare, ho proprio scelto in base al testo: Sogno di una notte di mezza estate. Perché è stato il percorso di questi tre anni: cercare di capire cosa posso fare e cosa no, alzare l’asticella e rendere la sfida sempre un po’ più complicata. Mi sono detto: quando mi ricapiterà di fare uno spettacolo con quattordici attori? Volevo mettermi in gioco e vedere cosa sarebbe successo, comprendendo meglio i miei limiti e i miei punti di forza. Nello spettacolo ci sono i costumi di Graziella Pepe e le luci fantastiche di Camilla Piccioni, ma il grosso della rappresentazione è basato sul testo, tradotto insieme a Matilde D’Accardi, e al lavoro svolto con gli attori, non c’è altro. Quando, durante le prove, qualcosa non funziona, si riprende il testo di Shakespeare e lì si intuisce che o sei tu regista o tu attore che ha sbagliato un attacco o un’intenzione rispetto a quella che è l’indicazione originale del Bardo. Se qualcosa non va, è colpa nostra, non sua. Ed è bello tuttora mettersi con e contro un colosso di questo tipo. Non so, però, quale sarà la risposta del pubblico, sono molto curioso. Sarà una prova e un’esperienza anche questa.

Per quale motivo proprio questa commedia shakespeariana, dunque?
Sogno di una notte di mezza estate è un testo che mi perseguita dal liceo. Il primo personaggio che ho interpretato a teatro è stato un Puck e, quindi, mi piaceva chiudere questo lungo percorso che parte da prima dell’Accademia con questo spettacolo, prima di iniziare altro. Mi interessava concluderlo con un’opera che è un saluto a qualcosa di vecchio e un benvenuto a qualcosa di nuovo, che è un rito di fertilità, un augurio per le nuove generazioni, per le nuove nascite. È un testo che parla di morte e di rinascita e mi allettava l’idea di compiere questo rito con la maggior parte dei miei compagni di classe.IMG 7305

L’opera è stata più volte trasposta o adattata. Che versione hai voluto dare tu?
È una domanda difficilissima. Ho provato a fare Shakespeare senza adattarlo o ambientarlo in nessun luogo specifico. Ho lavorato molto sulle immagini del testo e sull’idea di bosco come rave party, ma senza caratterizzare i personaggi come suoi frequentatori o cubisti. È un’opera che parla di poesia, amore, magia, immaginazione, follia e la mia regia parla di cambiamento, potere, rinascita. Sono un appassionato di psicanalisi, di interpretazione dei sogni e ho cercato di capire cosa significa mettere in scena un sogno, che a volte è un incubo probabilmente. Con Graziella Pepe abbiamo lavorato molto sulle immagini oniriche: le maschere sono state create dalla sua fantasia, stimolata dal diario dei miei sogni. Ho cercato insomma, di costruire delle situazioni che venissero dal mio mondo onirico e di mettere queste cose dentro Shakespeare.

Cos’è il sogno per te?
Tutto quello che non si può esprimere con il linguaggio verbale se non tramite immagini. Shakespeare in questo è maestro: riesce a raccontare le immagini attraverso le parole, a conciliare l’inconciliabile. Abbiamo lavorato molto sugli opposti, sui contrari: ci sono due Puck, un ragazzo e una ragazza, ci sono Teseo ed Ippolita che giocano a scambiarsi il ruolo di potere e di notte Ippolita diventa Oberon e Teseo diventa Titania. È un testo che è comico e tragico al tempo stesso, lungo e breve. Tutto ciò che è razionale fa parte del mondo maschile: la città, la legge di Atene, il pensiero. Il mondo femminile è l’irrazionale, il sogno, la notte, l’emozione. Abbiamo giocato su questi opposti continuamente. Il sogno per me è tutto ciò che fa parte del mondo irrazionale: è un linguaggio comprensibilissimo, solo che il codice è diverso, non è linguistico, verbale, ma è composto da immagini che possono diventare simboli, a volte.

Tra questi due mondi esiste un equilibrio?
Secondo me sì. Esiste anche alla fine del testo, perché nel quinto atto, dopo che sono usciti tutti dal bosco, ogni battuta è il contrario di un’altra e, forse, Shakespeare trova l’unione nell’immaginazione che accumuna i poeti, gli attori, i teatranti, gli artigiani del sogno, gli innamorati e i pazzi. È nell’immaginazione che il Bardo concilia i due opposti: in quella di chi guarda e di chi recita.

E il Teatro è più razionalità o più immaginazione?
È un equilibrio sottilissimo fra le due. Una cosa che ho ripetuto continuamente agli attori è appunto che lo spettacolo, soprattutto per come l’ho impostato, è sempre in bilico, si regge su una lama e può diventare, da un momento all’altro, o una sorta di Zelig oppure un dramma noiosissimo. Non ho adottato un solo stile di regia, ma ne ho mischiati vari: ogni atto è montato in maniera diversa e ho cercato di trovare una coerenza nell’incoerenza. In questo testo, in particolare, l’intreccio è molto complesso, difficile, folle. Unisce artigiani, gente del popolo, con innamorati dell’alta società, duca, duchessa e fate: nello stesso bosco si incontrano mondi completamente diversi ed è in questa disarmonia che nasce l’armonia. Mischiarsi, perdersi, ritrovarsi e poi uscire completamente trasformati da questo bosco.

Tu sei uscito dal bosco?
Forse sì, ma forse anche no. Mi piace starci, magari comincio ad arredarlo (ride, ndr). A volte è solo un’illusione uscirne fuori.

COPERTINACom’è stato dirigere quattordici attori?
Un inferno, un incubo! (ride, ndr) No, scherzo. È stato divertentissimo. Le prime domande che ho fatto sono state: ma come si fa a far fare l’artigiano all’attore nel 2018? E come si rappresentano le fate? Il rischio è cadere nella pantomima, nel ridicolo. Noi abbiamo trovato delle soluzioni, forse. O meglio: abbiamo cercato di portare in scena il problema, forse facendo delle scelte estremamente semplici e immediate, sia a livello di recitazione che di regia. Potrebbero premiarci oppure no, ma questa è la strada che abbiamo percorso insieme. Sono tutti attori che conosco molto bene, a cui sono molto affezionato. Con ognuno ho fatto un lavoro completamente diverso, quindi è stato difficile star dietro alle esigenze di tutti. Però è stato molto divertente, emozionante e ripagante vedere i risultati. Bisognerebbe avere più spettacoli con giovani attori, perché il teatro è un rito e più siamo a celebrarlo e più le energie che vengono tirate in campo sono forti.

Nel comunicato stampa si legge che questo spettacolo è, per te, un inno alla femminilità
Sono partito da un ragionamento: ci sono tante immagini in questo testo e anche un forte gioco di opposti. Il giorno e la notte, la città e il bosco, Teseo, che è la legge dell’uomo, e Ippolita, che è la regina delle Amazzoni conquistata da Teseo ma che segue le leggi della natura. C’è una battuta che mi ha fatto riflettere: Teseo condanna a morte Ermia e, prima di uscire, chiama Demetrio ed Egeo con sé e anche Ippolita, alla quale chiede che cosa abbia. Nella versione inglese questa domanda suona come: cosa ti turba? Sicuramente in quel momento succede qualcosa ad Ippolita, la quale sta zitta per tutto il tempo e che, secondo me, esce molto arrabbiata dall’affronto che Teseo fa alle donne tramite la pena inflitta ad Ermia, ragazza che deve obbedire alla volontà, alla legge del padre Egeo, il quale non cambierà mai, neanche dopo essere uscito dal bosco e con Teseo che acconsente al matrimonio della ragazza con il suo innamorato: Egeo continua ad appellarsi alla legge, per ottenere un’unione che garantisca la successione in linea di sangue e Teseo lo blocca affermando che solo la sua volontà è legge. Da quel momento Egeo sparisce. L’idea era, quindi, di estremizzare molto questi opposti: se Teseo è la legge che governa di giorno, allora che sia Ippolita a diventare Oberon e a regnare di notte. E poi capire come il maschile si ricompatta al mattino successivo dopo le vicende notturne. A me sembra che in tutto il testo ci sia un’invocazione continua al bisogno di riconciliare i due opposti – si citano spesso la luna, la dea Diana… – e io sento, come essere umano, il bisogno in questa società di una riconciliazione del patriarcato, che si sta autodistruggendo, con la sua parte opposta, che il patriarcato impari da essa. E viceversa. In questo senso è un inno alla femminilità: vuol dire accettare tutta una parte emotiva e irrazionale che la società maschile reprime e non considera, che tiene da parte. C’è bisogno di unire le due cose, di stare in ascolto dei propri pensieri ma anche delle proprie emozioni. Non si può essere più solo Teseo o solo Ippolita.

È questo che vorresti far emergere dallo spettacolo?
Ci provo e spero venga colto. A parte lo scambio di ruolo, non c’è molto altro che lo sottolinei, non l’ho voluto io. Però ne ho ragionato a lungo con gli attori, interrogandoci sulla questione e mi auguro che la traduzione faccia emergere questa riflessione. Ma non volevo fare una regia basata solo su questo tema, perché chiude ad altre possibilità su un testo che invece ne apre molte. La forza di Shakespeare è questa. È un’opera che investiga l’essere umano in quanto animale sociale, l’istinto e il pensiero, la razionalità e l’irrazionalità.

Come avete affrontato la traduzione con Matilde D’Accardi?
Siamo rimasti fedeli a Shakespeare. Nel senso che ci siamo presi delle libertà cercando di restituire esattamente il senso che secondo noi lui voleva dare con una certa battuta. La difficoltà è stato tradurre da una lingua, come l’inglese, polisemantica a una, come l’italiano, che è molto meno aperta all’ambiguità. E abbiamo cercato il più possibile di mantenere i giochi di parole e, in maniera folle e sconsiderata, anche la struttura: dove ci sono versi abbiamo scritto in versi, ad esempio, abbiamo tenuto tutta la costruzione delle rime e la prosa è stata tradotta in prosa. Con Matilde avevo già collaborato per altre cose fatte in Accademia: mi trovo molto bene con lei e il nostro lavoro è durato da aprile fino a settembre.

La tua laurea in Psicologia quanto ha influito sul lavoro con gli attori?
Il giusto. Dicono che li manipolo, ma non è vero (ride, ndr). Sto imparando con il tempo. Dirigere l’attore è, secondo me, la cosa più bella del lavoro di regista ed anche quella che trovo più complessa, perché ogni volta ti confronti con testi ed essere umani diversi, devi riuscire a metterli a loro agio e tirare fuori il meglio possibile senza che diventino indisciplinati. IMG 7300

A chi ti sei ispirato o a chi hai fatto riferimento per la messa in scena?
Questa è una domanda infame! A nessuno, sinceramente. Di sicuro ci saranno scene che faranno affermare che è già stato visto o detto. Ecco, questa è una frase che mi fa innervosire: quando si esclama che una cosa è già stata fatta negli Anni Settanta, ad esempio. A me viene da rispondere che i giovani non vanno più a teatro anche per ciò: quello che gli altri hanno già visto non si può più fare e quindi noi ragazzi che non l’abbiamo vissuto non lo potremo vedere mai?

E vorreste anche farlo, giusto?
Certo! Fateci fare cose che avete già visto. Capisco che il teatro è per tutti e che tutto è già stato visto, ma dipende da chi. Ora ci sono i media e puoi andarti a vedere le registrazioni di chi vuoi, ma il teatro va fatto dal vivo e io dal vivo certe cose non le ho mai osservate e, quindi, voglio prendermi la libertà di vederle, ma anche di farle e farle a modo mio.

Chi vorresti vedere seduto in platea?
Un po’ di persone che non ci sono più, purtroppo. Non vorrei sembrare autoreferenziale, ma di persone a me care vorrei vedere la mia famiglia e sicuramente ci sarà in parte. Ho fatto questo spettacolo pensando molto ai miei genitori. Mi sono detto: se lo capiscono e piace a loro, allora va bene. Non ho considerato un pubblico di addetti ai lavori. E vorrei seduti in teatro tanti giovani al di sotto dei 30 anni, soprattutto quelli che non hanno ancora mai visto Sogno di una notte di mezza estate.

Che cosa vorresti trasmettere a questi giovani?
Altra domanda infame! (ride, ndr) La passione che abbiamo noi per questo lavoro, l’entusiasmo che c’è dietro, il divertimento con cui lo facciamo e sicuramente ciò che cerca di trasmettere Shakespeare con questo testo, ossia conciliare la nostra parte umana con quella animale.

Com’è stato il tuo percorso in Accademia?
Sono entrato con l’idea di chiudermi in un posto per cercare di capire alcune cose di me e come regista cosa mi interessa davvero fare. È stato un cammino di scoperta continua, molto più destrutturante che di costruzione. Sicuramente ho compreso cosa non bisogna fare. In questi tre anni abbiamo incontrato e ci siamo confrontati con diversi autori e maestri, tra cui Giorgio Barberio Corsetti, Arturo Cirillo, Massimiliano Civica, Valerio Binasco: mi hanno insegnato tanto, è stato bello vedere come ognuno di loro porta e ti porta dentro il proprio mondo. Abbiamo affrontato anche vari autori, come Heiner Müller, che non conoscevo e della cui scrittura mi sono innamorato, o come Tennessee Williams. È stato un bel percorso da condividere con i miei colleghi registi e attori.

IMG 7342L’incontro più emozionante, quello che ti ha fatto pensare di aver fatto la scelta giusta?
Non c’è stato. Anzi, c’è stato quello che mi ha fatto esclamare il contrario (ride, ndr). Scherzo. Forse l’incontro con Heiner Müller. Difficile dire, invece, qual è stato quello più emozionante, perché non ce n’è stato uno in particolare.

Chi sono i tuoi registi preferiti?
I miei compagni di classe Paolo Costantini e Marco Fasciana.

Più cinema o più teatro?
A me piacerebbe fare più teatro. Il cinema, per ora, non si può affrontare per incompetenza mia (ride, ndr).

Progetti futuri?
Fondare un’associazione culturale con Marco Fasciana e Paolo Costantini. Poi ci sono dei progetti da portare avanti con l’Accademia ancora per un po’. E vorrei presentare qualcosa alla Biennale Teatro di Antonio Latella (a Venezia, ndr).

Chiara Ragosta, 14/11/2018

Si è conclusa il 03 luglio pomeriggio la sesta edizione del concorso European Young Theatre, manifestazione di cinque giorni organizzata ogni anno dall’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico (ANAD) in occasione del Festival di Spoleto. Giovani attori e registi delle più importanti scuole di teatro europee e internazionali si sono dati appuntamento al Teatrino delle Sei Luca Ronconi per proporre i loro studi e le loro performance, incontrandosi e confrontandosi in una Groups Competition.
I vincitori sono stati premiati dal Direttore dell’Accademia, Daniela Bortignoni, e dalla giuria di qualità composta da Monica Vannucchi, vicedirettore e docente di Danza e Analisi del testo coreografico presso la ANAD, e Andrea Giuliano, attore, ex allievo ANAD, insegnante di recitazione e vocal coach.553689204072018153015

Menzione Speciale per la creatività e l’espressività a “Controller and Driver” di Kang Choongman e Yi Seoa del Seoul Institute of Art (Corea del Sud), premiati per l’uso del corpo e del movimento come mezzi di comunicazione per superare le barriere linguistiche.
Al secondo posto, “Silenzio” di Francesco Vittorio Pellegrino (ANAD, Italia), la cui direzione degli attori e il lavoro sul testo adattato di Harold Pinter ha convinto positivamente la giuria.
Primi classificati, a pari merito, sono risultati: lo spettacolo della Janáček Academy of Music and Performing Arts in Brno (Repubblica Ceca) “Igloo”, scritto e diretto da Jirí Liška, e quello della Lithuanian Music and Theatre Academy (Lituania) “I dreamt that somebody call me darling” di Eglė Švedkausaite. I ragazzi di Brno hanno colpito per la creatività del testo, l’eleganza della messa in scena e la bravura nella recitazione, mentre gli studenti lituani, tra i più applauditi, sono stati premiati per il sapiente lavoro di regia, l’originalità della scrittura drammaturgica, l’attenzione al lavoro sugli attori e l’intensità della resa finale del proprio spettacolo.
Ad aggiudicarsi il Premio Speciale SIAE è stato, invece, “Segugi” di Danilo Capezzani (ANAD, Italia), per l’abile costruzione drammaturgica e l’intelligente risultato registico.

553689204072018152929Alla competizione hanno partecipato anche studenti provenienti dagli Stati Uniti e dalla Russia. Il pensiero che il Direttore e la Giuria hanno rivolto a tutti, al termine della premiazione, oltre all’augurio per un luminoso e soddisfacente avvenire in campo artistico, è che possano nascere in futuro anche collaborazioni ed amicizie da questo tipo di esperienza. Gli abbracci e i sorrisi che i ragazzi si sono scambiati vicendevolmente, una volta usciti dal teatro, fanno ben sperare in tal senso.

Chiara Ragosta, 04/07/2018

ROMA - “Per tutte le violenze consumate su di Lei, per tutte le umiliazioni che ha subito, per il suo corpo che avete sfruttato, per la sua intelligenza che avete calpestato, per l’ignoranza in cui l’avete lasciata, per la libertà che le avete negato, per la bocca che le avete tappato, per le ali che le avete tagliato, per tutto questo: in piedi, Signori, davanti ad una donna”. Lo scrive William Shakespeare. Lo stesso che vergò con l'inchiostro “Chi dice donna dice danno”, ma questo è un altro discorso. Nessuna quota rosa da invocare. Qui parliamo di donne già emerse nell'ambito teatrale, attrici under 35 da segnalare, supportare.2reitherAntoniaTruppo
Il “Premio Virginia Reiter”, alla dodicesima edizione, nel ventunesimo anno (la prima fu nel '95; in principio era biennale), tra Modena e Roma, è dedicato alla memoria dell’attrice emiliana che ad inizio Novecento fu la prima a “fare ditta” in un mondo prettamente maschile come quello del palcoscenico. Contemporanea della Duse, fece tournée mondiali, ed era apprezzata per la voce. Il premio vuole valorizzare una giovane attrice italiana, un'attrice in ambito europeo, e un premio alla carriera. Il tutto declinato al femminile: “Essere donna è un compito terribilmente difficile, visto che consiste principalmente nell’avere a che fare con uomini” (Joseph Conrad).
Il "Premio come miglior attrice europea" è andato ad Antonia Truppo che evidentemente fa diventare oro tutto quello che tocca; dopo l'Ubu come attrice non protagonista con “Serata a Colono” con Carlo Cecchi, Premio “Maschera d'oro” come attrice emergente per “La dodicesima notte” sempre di Cecchi, e, dulcis in fundo, “David di Donatello” per “Lo chiamavano Jeeg Robot”. Il “Premio alla carriera” invece è andato a Paola Mannoni, attrice e doppiatrice dalla voce inconfondibile: “Essere donna è così affascinante. È un’avventura che richiede tale coraggio, una sfida che non annoia mai” (Oriana Fallaci).
Le tre finaliste del Premio che sarà assegnato il 27 ottobre al Teatro Argentina di Roma (la giuria è composta dal presidente Sergio Zavoli, e da Gianfranco Capitta, “Il Manifesto”, Ennio Chiodi, Rai, Rodolfo Di Giammarco, “La Repubblica”, e Maria 3AnahiTraversiGrazia Gregori, “L'Unità”, mentre la direzione artistica è affidata a Laura Marinoni, la finale è al Teatro Argentina) sono Eugenia Costantini, Sara Putignano e Anahì Traversi. Un premio che negli anni ha visto trionfare da Manuela Mandracchia a Debora Zuin, da Maria Pilar Perez Aspa a Francesca Ciocchetti, da Anna Della Rosa a Caterina Simonelli, da Licia Lanera a Silvia Calderoni. Donne di sostanza e spessore, fuori e dentro la scena: “Sulla scena facevo tutto quello che faceva Fred Astaire, e per di più lo facevo all’indietro e sui tacchi alti”. (Ginger Rogers)
Tre attrici con tre percorsi, curriculum, background e scelte professionali molto differenti: Eugenia Costantini è figlia d'arte, di Laura Morante, e ha alle spalle corsi di teatro internazionali, in Francia sul metodo Lecoq e a New York, esperienze con Carlo Cecchi, su Shakespeare in versi, e nella serie “Boris”; Sara Putignano invece arriva dall'Accademia d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" di Roma, passando per Nekrosius e Luca Ronconi, Paravidino, Cesare Lievi e Carmelo Rifici; infine Anahì Traversi proviene dalla scuola del Piccolo di Milano, dai laboratori diretti da Federico Tiezzi con una carriera divisa tra Italia e Svizzera: “Qualsiasi cosa facciano le donne devono farla due volte meglio degli uomini per essere apprezzate la metà. Per fortuna non è difficile” (Charlotte Witton, politico canadese).
Alla prima classificata andrà un gioiello disegnato da Daniela Izzi mentre il manifesto della rassegna è stato ideato da Andrea Marchi: gemma e locandina hanno un qualcosa che ricorda l'art4reitherPutignanoSara decò, immersi in figure geometriche spigolose gialle e nere e un tocco orientaleggiante. “In Italia abbiamo formidabili attrici ma pochissimi ruoli disponibili; – chiosa Caterina d'Amico, preside del Centro Sperimentale di Cinematografia – gli aspiranti attori sono numericamente più donne e, dal punto di vista qualitativo, le donne sono certamente e oggettivamente più brave. Questo premio deve servire per dire ai drammaturghi di oggi di dare più spazio alle attrici che sono tante, ma soprattutto sono bravissime”. In fondo rimaniamo sempre d'accordo con Oscar Wilde che diceva: “Date alle donne occasioni adeguate ed esse saranno capaci di tutto”.

Tommaso Chimenti 26/10/2016

Nelle foto, dall'alto: Eugenia Costantini, Antonia Truppo, Anahì Traversi, Sara Putignano

Il Premio è stato vinto da Sara Putignano.

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