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Una scena vuota, la platea ancora illuminata. Al centro c’è un’attrice, uno scialle rosso sulle spalle, che racconta di quando è stata coinvolta un paradossale equivoco d’identità: inizia così la rivisitazione al femminile del capolavoro di Dario Fo che, dopo aver riscosso un certo successo di pubblico e critica circuitando nei teatri italiani off, ha visto approdare la giovane attrice Elisa Pistis in scena il 30 e 31 marzo alla sala gremita del Teatro Abarico di Roma. È sola su un palco privo di sovrastrutture scenografiche, perché non le serve nient’altro per rapire il pubblico e condurlo per mano nelle pieghe di una vicenda universale. Nessun orpello decorativo, nessun arredo strabordante, nessuna musica: la voce dell’attrice, piena di colore e ricca di sfumature, riempie lo spazio di significato, costruisce le basi di una narrazione – intelligente e comica insieme – che parlando della Sacra famiglia alle prese con il viaggio da Betlemme, dopo la visita dei Magi, invita con il riso e l’ironia a una riflessione sull’urgente dramma dei migranti. Sulle situazioni al limite dell’umano di cui giorno per giorno si apprende la notizia dai media. Perché già nei Vangeli, nelle prime testimonianze delle comunità cristiane e nella Galilea di oltre 2000 anni fa, affiorano in nuce le questioni atemporali che impregnano la società attuale e si rinnovano di senso nella ciclicità dei tempi: xenofobia, razzismo, globalizzazione, integrazione, accoglienza, multiculturalismo, ingiustizia e diversità. Elisa P 31È in questo solco della continuità storica che si situa l’insegnamento del Nobel Fo: portare alla luce un patrimonio rimosso, condensato nell’allegoria del dramma, della parabola e della moralità religiosa, e reinterpretarlo in un gioco satiresco, perché al di là del trascendente possa ancora dire qualcosa sul genere umano. Cosa sarebbe accaduto se Maria di Nazareth, Giuseppe e Gesù bambino avessero dovuto affrontare, adesso nel 2019, la fuga in Egitto? Del resto, non avevano il permesso di soggiorno, non erano di certo biondi con gli occhi azzurri e parlavano sicuramente una lingua incomprensibile. Ebbene, “solo un miracolo avrebbe potuto salvarli”.

E se, invece, Elisa Pistis non fosse la talentuosa attrice-autrice che è, avrebbe senza alcun dubbio il dono di dipingere come un’impressionista un’altra realtà, l’altrove teatrale, una tela di fantasia che incanta l’occhio chi la guarda muoversi da un punto all’altro del palco e, così esile e minuta, assorbire nella mimica del volto e nella gestualità la caratterizzazione di tutti i personaggi e maschere, cucirli a sé in una nuova veste che guarda alla giullarata popolare del Maestro Fo, capofila dei cantastorie moderni, restituendole però una vitalità inconsueta, originale e contemporanea. Che usi il grammelot dei Comici dell’arte, i dialetti del nord o il suo sardo, l’artista di Elmas diverte, emoziona, commuove, trascina l’orecchio in una lingua teatralissima – babele di suoni, assonanze e onomatopee – che moltiplica le suggestioni, si arricchisce di sipari cabarettistici, crea un nuovo rapporto con chi l’ascolta, culla in una melodia, fa sentire meno solo lo spettatore seduto in platea perché il racconto non può andare avanti e concludersi senza la sua immaginazione.

5a419a97 9efb 4884 ad07 833e13ac990fCos’è un Mistero? Termine in uso già nell’Antica Grecia per definire i culti esoterici, acquista nel Medioevo il significato di rappresentazione sacra. Il Mistero buffo di Dario Fo è, dunque, la rielaborazione in chiave burlesca e irriverente degli eventi divini rimescolati alle radici della cultura popolare e profana: lungi dalla sua mistificazione, quella della Sacra famiglia narrata nella Bibbia è anzitutto una storia umana. È il messaggio che irrompe a più riprese in un’ora e venti di spettacolo, governato da un ritmo serrato e coinvolgente, in cui si frantuma la quarta parete e si procede insieme. Dal primo miracolo di Gesù che, prima di essere il misericordioso figlio di Dio sceso sulla terra per insegnare l’amore ai cristiani, è stato un bambino emarginato dai suoi coetanei nella città di Giaffa perché straniero. Fino alle presunte e divertenti dinamiche familiari che racchiudono nella figura della Vergine Maria l’attualità di un’emancipazione femminile ante litteram: semplice donna del popolo che, sotto il peso opprimente del patriarcato, decide con coraggio di portare in grembo il Messia, pur conoscendo le severe leggi fatte dagli uomini che limitavano notevolmente la libertà delle donne. E poi la vedono nel finale, dopo uno struggente canto funebre in lingua popolare, sotto la croce dinanzi al corpo morente e sanguinante del figlio rifiutare le parole consolatrici dell’Arcangelo Gabriele, nel monologo che nei suoni arcaici e viscerali del campidanese conferisce dolente drammaticità al tormento di ogni madre afflitta dal dolore per la perdita del figlio.

Un’opera questa che ha vissuto mille vite, si è moltiplicata in mille parlate e grazie a una licenza concessa personalmente dal Nobel all’attrice 32enne soddisfa le attese e conferma una possibilità utopica: che in qualche rara occasione il teatro possa davvero essere – come ha dimostrato la lezione di Fo – un linguaggio per tutti, uno spazio che si coabita per riflettere sul proprio tempo e far sì che, se opportunamente sostenuto, divenga lo strumento privilegiato per guardare con occhio critico la realtà, agitare le idee e rigenerare gli orizzonti della cultura.

Sabrina Sabatino 04/04/2019

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