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“T’amo ed è continuo schianto”: la catastrofe addosso come una coperta calda

Un’altalena immersa tra i girasoli e due ragazzi che vi volteggiano in uno stato di serenità talmente perfetta da sembrare apparente. Poi le parole che iniziano a scorrere a fiumi, il racconto di una vita che ancora non è “insieme”, quell’ansia di raccontarsi e raccontare se stessi, una melodia slegata e che si sovrappone a tratti, come un contrappunto.
È così che si presenta “T’amo ed è continuo schianto”, lo spettacolo andato in scena al Teatro dell’Orologio per la regia di Matteo Ziglio, tratto dal testo di Rosalinda Conti. Sul palco due giovani attori, Giordana Morandini e Stefano Patti, che sembrano essere nati in mezzo a quei fiori e a quella natura posticcia come i loro pensieri, in mezzo alle turbolenze di una vita che si affretta a rivelarsi e che si anima sul palcoscenico attraverso la chitarra e la voce di Marco Russo.
Esistono le anime gemelle? Forse. O forse esistono anime che camminano parallelamente per tutta la loro vita, accanto ma distinte, guardandosi continuamente, necessarie ma non sufficienti né a se stesse né ad una vita insieme. Due binari all’orizzonte si uniscono ma sono solo un’illusione ottica, un gioco prospettico crudele che cela la verità a coloro che si amano per la prima volta.tamo1
Come due binari paralleli procede anche la drammaturgia di questo spettacolo che alla fine, forse, con l’amore ha poco a che fare. Ha a che fare con la vita, con le relazioni, con le catastrofi, con l’infanzia, i pesci rossi. E ha a che fare con la crisi, quella economica che affolla le pagine dei giornali, che satura i giorni dell’impossibilità di una serenità assoluta in assenza dei presupposti necessari a vivere per sé e per qualcun altro.
“T’amo t’amo ed è continuo schianto” sono parole che nascono dalla penna e dal dolore di Giuseppe Ungaretti nella poesia “Giorno per giorno” in cui il poeta affronta (come solo chi districa la propria anima con le parole può fare) la sofferenza della perdita di un figlio, il male che nasce dall’impossibilità di riflettere l’imponderabile. E sono solo le parole a salvare dall’annichilimento.
Nello spettacolo si assapora il senso di una salvezza sempre vicina, alla portata di due mani che potrebbero intrecciarsi ma in qualche modo non lo fanno mai, di un bacio che non arriva mai, anche quando la vita insieme diventa reale. Ma la quotidianità non sempre salva, anzi, a volte porta in superficie le piccole grandi amarezze della vita che, come mine inesplose, ci ricordano perché invece di vivere, fuori dal nido, si sopravvive.
E se un filo conduttore va trovato, lo troveremmo forse in quelle parole “tu lo sai come fa il pensiero quando fa come gli pare?”, in quella totale impossibilità di costruire sopra muri già eretti, nello sforzo continuo di ritrovarsi per non doversi mai reinventare.

Federica Nastasia 28/05/2016

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