Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

Print this page

"Supermarket", emblema del consumismo, amaro affresco dei tempi

FIRENZE – “Tu da che parte stai? Stai dalla parte di chi ruba nei supermercati o di chi li ha costruiti rubando?” (Francesco De Gregori, “Chi ruba nei supermercati?”)

Auchan, Coop, Esselunga, Carrefour, Conad, Crai, Despar, Eurospin, Lidl, Metro, Sigma, Pam, Penny, Unes, GDO, Famila, Panorama, Md, Emmezeta, Billa. E sicuramente ne stiamo dimenticando qualcuno. Sono solamente alcuni dei marchi e dei brand di supermercati che invadono le nostre città, con i colori, le luci, le offerte, le promozioni. Store, Iper, discount. I dati del 2018 ci dicono che sul territorio nazionale i punti food al dettaglio erano quasi ventiseimila. Oggi, a due anni da questa indagine, saranno anche aumentati. Quindi l'esperimento di musical moderno di “Supermarket”, caramellato con patina scherzosa e leggera, poggia le basi su un oggetto pressante e presente nella nostra economia, nella gestione-organizzazione del tempo di ogni individuo e famiglia, persistente nel nostro quotidiano tra spot in tv, volantinaggio nella cassetta della posta e la famigerata spesa con tanto di carrello sferragliante da colmare fino all'orlo.Q7B5921.jpg

“Spendere è molto più americano di pensare”. (Andy Warhol)

Il supermercato come emblema del consumismo, simbolo del capitalismo, bandiera dello spreco. Il carrello riempito poi (di cibi che non cucineremo, che scadranno, che forse nemmeno ci piacciono) ci fa sentire bene psicologicamente, ci fa sentire appagati. Il supermercato visto come grande microcosmo di indagine sociale e antropologica dove le nostre pulsioni entrano in contatto, dove il cibo, e il suo accaparramento, ci fa regredire allo stadio primordiale.

“Relatività: nei supermercati tre per due non fa sei”. (Fulvio Fiori, Umorismo Zen”)

Come detto, l'idea di questo “Supermarket” (lavoro cult della scorsa stagione, prod. Elsinor) comincia molto bene sfibrandosi con l'andare, con lo sciorinamento delle canzoni (sempre molto simili se non proprio ridondanti), con l'avanzamento delle storie che dentro questo fabbricato prendono corpo. Molte vite, molte anime si agitano davanti alla cassiera ma ogni piccolo Vaso di Pandora viene aperto senza poi una giusta e degna conclusione, lasciandoci in un coitus interruptus che non ci fa gridare “Wow” ma ci fa, al massimo, aggiungere un “Carino” che poco sposta e muove. rfegrgr.JPGMa, ripetiamo, c'erano tutte le carte in tavola perché il prodotto bucasse veramente e facesse davvero centro.

“Un tempo creavano civiltà. Adesso costruiamo ipermercati”. (Bill Bryson, “Una città o l'altra”)

Una decina di canzoni, divertenti, ironiche, pungenti, con coreografie stoppate e bloccate (ci ha ricordato il gioco infantile dell'“1, 2, 3 stella”), su questo mondo che ben ci raffigura, un affresco perfetto della nostra società. C'è la riflessione sul fatto che ci sia poca gente e che siamo stati fortunati, per poi accorgerci che la folla sta arrivando e che tutti, come noi, abbiano pensato a fare la “spesa intelligente”, c'è la domanda amletica davanti allo scaffale o con il prodotto in mano “Lo prendo oppure no?" che ci tormenta e attanaglia, c'è l'immancabile coda alla cassa e il numerino da prendere per il banco dei prodotti freschi, c'è la promessa, l'impegno e il buon proposito per il futuro che “stavolta non farò scadere niente”. Un arcobaleno di figure affollano il capannone con i prodotti lucenti: la coppia con lui premuroso, l'attrice disoccupata, il single che ci prova con tutte in fila alla cassa, la signora impellicciata, quello contro il PD che ci ha ricordato John Goodman ne “Il Grande Lebowski”, lo sportivo attento alla linea, l'ingenuo titubante.

“Entriamo in un supermercato convinti di scegliere. È da anni che non scegliamo più, ci fanno scegliere tra cose tutte identiche”. (Beppe Grillo, “Tutto il Grillo che conta”)

Ed assieme a queste situazioni ed a questi personaggi, immancabili sono anche i prodotti bio, i nazi-vegani, le gallette, la soia, il tofu, e soprattutto la voce, Supermarket-1.jpgcome deus ex machina, che dall'alto ci informa, ci dirige, ci instrada, qui grottescamente e assurdamente (ci ha ricordato la voce fuori campo ne “Ci scusiamo per il disagio” de Gli Omini), verso cibarie ed opportunità, sconti miracolosi e proposte imperdibili. Ne viene fuori un caos brillante e spumeggiante che ci mette davanti l'immagine di come siamo, e di come ci trasformiamo, con un carrello in mano in mezzo a tanti altri come noi affannati, indaffarati, affamati, famelici, assatanati alla ricerca del miglior rapporto prezzo/qualità, toccando la frutta per carpirne i segreti e la freschezza, scansando come in Formula Uno i clienti più lenti, andando in fuga per trovare la cassa libera, controllando gli zuccheri contenuti negli alimenti, senza farsi fregare dal prezzo al chilo della merce. Anzi, sono i carrelli (che ci ricordano la libertà dello skateboard come il monopattino) ad essere mancati iconograficamente, sarebbero stati utili se non proprio necessari ed avrebbero dato brio e slancio come oggetto-simulacro-feticcio (l'immaginario dei cestelli metallici con le ruote era forte e prepotente nei Ricci/Forte: in “Imitationofdeath” come in “Troia's Discount”).

“Una vita spesa a fare la spesa”. (Leo Longanesi)

Supermarket-teatro-bella-storia.jpgInguaribilmente grotteschi ci aggiriamo, come giaguari nella foresta, alla ricerca dell'opportunità, del prezzo in saldo, del 3 per 2. Il ritratto che meglio funziona, nella sua drammaticità, sempre sotto il velo dell'ironia, è quello della cassiera, frustrata, insoddisfatta della sua routine fatta di turni 24h 7/7 sempre pronta a scattare quando la voce cattiva dagli autoparlanti la riporta alla sua gogna, la sedia alla cassa, ferma, fissa, intrappolata, come carcerata senza una vita fuori da quelle quattro mura, lontano dai codici a barre dei prodotti: “Tutta la vita è scontata, non è giusto il prezzo”. “Supermarket” è una Grande Abbuffata con la sua forma allegra che nasconde molte denunce al nostro mondo così sviluppato e civilizzato: il precariato con i suoi ricatti, la fretta, la spesa compulsiva per riempire altri vuoti, la bulimia dei rapporti, la mancanza di affettività, l'aggressività crescente, il grande malumore che serpeggia. Per questo “Supermarket” propone una bella idea di fondo ma non la sviluppa a pieno, quanto avrebbe potuto: il finale arriva un po' a sorpresa tranciando molte storie aperte e si ha la netta sensazione che qualcosa non sia stato detto, che manchi quel quid che ci avrebbe fatto sobbalzare dalla poltroncina, quel lampo, soprattutto sul fronte musicale abbastanza piatto e monocorde, che avrebbe potuto esaltare questo esperimento, purtroppo riuscito soltanto a metà, che ci ha lasciato con il gusto di ciò che poteva essere, non osando fino in fondo, fermandosi sulla superficie.

Tommaso Chimenti 19/01/2020