Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

                                                                                                             

Storie di ordinaria precarietà in una forma non ordinaria: "Citizen X" di Manuela Rossetti

Al Teatro Planet il DOIT festival non si ferma, continua la sua programmazione sulle nuove drammaturgie in stretta collaborazione con ChiPiùNeArt edizioni e il concorso di drammaturgia contemporanea L’Artigogolo, fino all’8 aprile.
Prima della pausa pasquale, “Recensito”, in prima linea tra le testate mediapartner dell’evento, ha seguito con passione “Citizen X” della giovane regista e drammaturga Manuela Rossetti, membro dell’Associazione culturale La Casa della Locusta, tra le proposte dell’area laziale di questa edizione.
Lo spettacolo dichiara sin dal titolo il forte legame con il cinema, il capolavoro senza tempo di Orson Welles, “Citizen Kane” (1941); ma proprio nel traslare il titolo in quella “X” generalizzante è forte il richiamo al cittadino qualunque, o meglio, un qualunque cittadino del nostro Belpaese. È di Italia, infatti, che si parla, e in particolare delle angosce legate all’inoccupazione e al precariato. Il tema non è certo una novità, ma d’altra parte resta fortemente attuale.
Manuela Rossetti ha curato una regia dal gusto espressionista, giocando con le possibilità narrative della drammaturgia della luce. A partire dai primi minuti dello spettacolo, dove l’unica luce sul palcoscenico è quella emanata dallo schermo di un televisore, compagna e nemica delle giornate dell’italiota medio. Antonella Civale, unica performer presente sul palcoscenico, rappresenta una e tanti, è sia il volto di una madre religiosa che confida nella Provvidenza affinché interceda per trovare un lavoro al figlio pigro e nullafacente, sia la donna ostinata, non più giovanissima, che prova sulla sua pelle il faticoso cammino verso la possibilità di veder riconosciuti i propri meriti. Manuela Rossetti è stata in grado di trasmettere, di un tema abusato, una delle sue più “teatrali” sfaccettature: la sensazione di sentirsi inadeguati, fuori posto. Il precariato è una rincorsa a una galassia che si allontana facendoci sentire piccoli e impotenti, come piccola e impotente diventa la figura di una delle donne interpretate, grazie all’efficace gioco di luce e ombra che taglia via la parte inferiore del corpo per elevare la sua ombra.
Poco qualificati, troppo qualificati, non abbastanza presentabili. L’inadeguatezza di chi spreca tempo ed energie con la speranza di ottenere uno scopo, come un criceto in gabbia che corre su una ruota ma a vuoto, rispecchia il volto di attrice truccato fino all’eccesso, la maschera clownesca, dopo aver seguito, in preda alla concitazione, l’ennesimo consiglio alla radio sull’outfit perfetto per un colloquio di lavoro. Perché, come sul palcoscenico, la prima impressione di chi sta dall’altra parte è sempre una questione di “presenza”.
La drammaturgia dello spettacolo è una partitura serrata nel dialogo tra attore e luce, tra il corpo e i suoi simulacri, retta benissimo dalla performer, che riesce a giostrare tempi e ritmo, soprattutto nella scena in cui le potenzialità del mezzo cinematografico sono più enfatizzate, durante i dialoghi tra il personaggio nella condizione di inoccupato, fisicamente presente sul palcoscenico, e le tante presenze virtuali alle sue spalle, cinematografiche, e quindi, parlanti ma sorde, specchi della società in cui viviamo, sempre pronta a dare opinioni e ad ammonire. All’interno della proiezione, in un dispositivo a vignette che ricalca il modello fumettistico, la madre, il prete, il politico, l’amica, l’impiegata dell’INPS; quest’ultima, anello innocente – e a volte neanche tanto innocente, quando dimostra di non possedere le competenze necessarie al ruolo – di quella vera e propria “macchina celibe” che è la burocrazia italiana.
Alla fine, amare e surreali, queste storie di ordinaria precarietà restano sospese, forse perché destinate a non avere mai fine. Impossibile non provare anche un po’ di disagio, ma soprattutto, impossibile non provare empatia.
Empatia, non pietà: perché non si tratta di personaggi che possono essere giudicati. Non avrebbe senso. Sarebbe un po’ come giudicare noi stessi, e giudicarsi a vicenda.

Renata Savo 02/04/2016

Libro della settimana

Facebook

Formazione

Sentieri dell'arte

Digital COM