Non capita tutti i giorni di andare a vedere uno spettacolo e di ritrovarsi con le labbra incollate a quelle di un attore, per giunta del tuo stesso sesso. Lo aveva fatto pure il Don Giovanni di Filippo Timi, che mandava in delirio la platea dell'Argentina scegliendo la sua preda tra la folla (tutt'altro che restia), e si produceva in soffocanti bocca a bocca da idrovora consumata. Ma qui è diverso. Qui siamo a “Still life (2013)” della premiata ditta Stefano Ricci/Gianni Forte e gli attori che si tuffano sul pubblico per regalare un bacio omosex è solo l'ultima delle scosse che ti farà uscire dal teatro (India, per il focus ricci/forte, appunto) come dopo una sbronza colossale.
Più d'impatto – se d'impatto voleva essere la scenografia – erano i lumini disposti in fila in fondo al palco, per ricordarci subito di cosa stavamo parlando, del concetto di omosessualità repressa, oppure schernita, osteggiata, repulsa, che conduce al suicidio di centinaia di ragazzi e ragazze di cui ora non si ricorda più nessuno.
Più disgustosa – se era disgusto ciò che volevano farci provare gli autori – è la parentesi “Masterchef” in cui i personaggi indossano il vestito da cuoco e dalle campane fanno saltar fuori cinque cuori ai quali infliggono coltellate, tagli, martellate, prendendoli persino a morsi.
Più impressionante – se è impressionarci che voleva la regia – era stato il pestaggio del ragazzo in total nude sulle note a contrasto dei Black Eyed Peas (la colonna sonora è una delle scelte più azzeccate di questo spettacolo): scarpate intrise di fango in pieno viso, sangue che cola dalla bocca della vittima e il ritmo dance, spietato, che ti invita a ballare.
Più toccante – se toccarci era la missione – è la scena delle donne incinte trasportate come assi di legno sul proscenio, che si alternano in un monologo meravigliosamente tenero e ribelle, una sorta di testimonianza al figlio nascituro: “Ti insegnerò...” , a “non chiamare puttana una donna” solo perché ti passa davanti nel traffico o “a non dover giocare a Ruzzle per mangiare il tempo”.
Più odissiaca - se questo voleva essere - era la zattera sulla quale incerti naviganti soffiano via da vite tempestose leggendo le parole di dolore di chi resta.
Più potente ancora – se il fine era la potenza del messaggio - è il momento in cui la matassa dei fili rosa (colore convenzionalmente femminile) ai quali sono legate le vite di alcuni uomini e alcune donne, si sbroglia in corpi che strisciano di schiena per tutto il palco/la vita. Li vedi avanzare a raggiera: stanchi, spossati, dimessi. Hanno un cuscino sul viso, per nascondersi. Quando lo squarciano, quel cuscino, ne vengono fuori nuvole di piume (archetipo) e, purtroppo, sotto di esse non troviamo i loro volti, ma delle maschere. E', probabilmente, il momento più alto del racconto.
Senza voler fare inutili teoremi sull'omosessualità, come quelli che per tutto il tempo, a turno, i personaggi disegneranno su una lavagna, ciò che “Still life (2013)” sembra chiedere a noi che stiamo dall'altra parte, con tutta evidenza e con la schiettezza e la provocatorietà che sono cifra tangibile delle proteste per i diritti dei gay, è di smetterla di osservare e di iniziare a partecipare. Per chi se ne va, purtroppo, è "game over".
Ma noi che restiamo, noi almeno, scegliamo di non essere "nature morte" .
Le parole sono forti, a tratti trafiggono come coltelli, ma non saranno mai potenti quanto le immagini: la drammaturgia dei gesti, che di questo spettacolo è ciò che davvero ti travolge, arriva ben oltre la mera provocazione.
Ricci/forte faccia una prova col pubblico: non gli spieghi tutto, potrebbe rivelarsi più maturo di quanto sembra.
(Rosamaria Aquino)