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"Stelle nere": la prigionia delle due star del cinema fascista

REGGIO EMILIA – La riflessione che consegue la visione di “Stelle Nere” (prod. Centro Teatrale Mamimò) è che risulta qualcosa mancante, un'insoddisfazione di fondo, un'apertura per poi ritrarsi, un vorrei ma non posso. Il tema era di quelli potenti, centrali, da sviscerare, ovvero se l'arte, da qualsiasi pulpito arrivi e venga prodotta, abbia il diritto e la cittadinanza di poter essere promulgata senza che questo diventi propaganda. Ci spieghiamo meglio: il “Mein Kampf” doveva essere pubblicato e ristampato fino ai giorni nostri dopo la caduta di Hitler e del Terzo Reich oppure si sarebbe dovuto farne un falò come in Fahrenheit 451? L'arte ha anche il compito di raccontare uno spaccato storico e quindi ben venga il manuale hitleriano per mostrarci e farci capire, leggendolo, le aberrazioni di un certo credo indottrinato. Senza il passato a farci da monito il futuro è certamente più nebuloso. Quindi da una parte l'arte, che anche al netto di strumentalizzazioni politiche dovrebbe stare al di sopra, e dall'altra la politica. Stelle Nere MaMiMo 1

L'autore e regista Fabio Banfo, fresco vincitore per “Alfredino” del Premio Fersen per la regia, ci porta dentro una vicenda ancora misteriosa e avvolta dal fumo del tempo e dalla mitologia partigiana: Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, attori dagli anni '30 fino al '44, coppia sul set e nella vita, che abbracciarono l'idea del fascismo prima e della Repubblica di Salò successivamente e per questo pagarono (l'ordine fu dato in persona da Sandro Pertini) con la vita. A pesare sulla loro estrema fine furono le feste, con tanto di musica, balli e cocaina, all'interno di Villa Triste dove ai piani inferiori venivano torturati i partigiani arrestati e a quelli superiori si faceva baldoria tra champagne e sesso. Storia vera.

stelle nere teatro mamimoMa c'è stato un fraintendimento tra le intenzioni e la messinscena che ha mostrato principalmente un quadro pirandelliano di teatro nel teatro dove i due protagonisti (sul palco il sicuro Umberto Petranca e l'efficace Cecilia Di Donato) rimanevano imbrigliati in questo limbo-cantina-set disfatto tra i ruoli interpretati e la loro vita lì costretta. Un sottoscala che poteva essere un palco distrutto, anche metaforico, con oggetti e cianfrusaglie sfatte e lasciate e abbandonate e buttate come i loro corpi in attesa. Il misunderstanding scaturisce anche dal fatto che furono i partigiani a rinchiudere i due attori e poi a fucilarli mentre in “Stelle Nere” i due sembrano ingabbiati da Pietro Koch (proprio Fabio Banfo, veramente convincente; entra e cambia il clima), capo di una banda violenta fascista attiva nel torturare e catturare i partigiani. E' qui lo scarto che non convince (forse per non mostrare i partigiani come torturatori ed esecutori sommari a loro volta): Osvaldo, Luisa vessati da Pietro come se quest'ultimo fosse il loro carnefice. Ed è in questo frangente che ci perdiamo proprio perché non arriverà mai il momento della distruzione o sparizione delle bobine delle ultime pellicole delle due star del cinema nostrano che non sappiamo se siano andate perdute nella guerra civile e nei saccheggiamenti o se distrutte volontariamente e scientificamente per non lasciare traccia del loro passaggio, della loro arte proprio perché affiliati al regime. Sarebbe stato questo il nodo focale sul quale porre la lente d'ingrandimento anche per una riflessione che poteva andare oltre queste due figure dimenticate che qui vengono leggermente tratteggiate senza un approfondimento incisivo.Stelle Nere MaMiMo 3

Stelle Nere MaMiMo 5Si cade nel vortice più che altro di un ragionamento su che cos'è il teatro, un pensiero lievemente “chiuso” e autoreferenziale del mestiere che parla alla sua pancia. Rimaniamo nel guado tra la realtà e la finzione, tra la recitazione e i personaggi che recitano la loro parte di attori in un continuo scambio debordante (non privo di inciampi) che sconfina facendoci perdere di vista l'obbiettivo del ragionamento e del pensiero iniziale se l'arte, in toto, debba essere comunque salvata e mostrata ai posteri anche se arriva dai nostri avversari politici o se è stata prodotta da oppressori feroci. Qui Banfo ci mostra, giustamente e con garbo ed eleganza, un accadimento sconosciuto ai più ma rimaniamo sospesi in una narrazione che evidenzia due persone in cattività in questo carcere perenne attendendo la propria condanna (traslando gli esecutori materiali del fatto) mentre la drammaturgia non riesce pienamente a scandagliare e raschiare (e rischiare) il fondo del barile nel far emergere considerazioni che possano esulare dal contingente e assumere vesti più universali. Forse il mirino non è stato messo così a fuoco.

Tommaso Chimenti 29/12/2021

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