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Al Fabbrichino, in prima assoluta, “Stanno tutti male” di Cenci-Goretti-Colapesce

Quante volte abbiamo pensato che fosse tutta colpa delle emozioni che proviamo a renderci vulnerabili? quante volte il confronto con gli altri è risultato essere lo specchio di una sofferenza che silenziosa ci appartiene? E quante, senza una ragione precisa, sentiamo dentro di noi una piccola “macchia oscura” che può arrivare ad essere un grande lago nero e sotteraneo che un po’ assomiglia a quelli che si formano nelle grotte o sotto le montagne. C’è una ragione perché questo tutto accade o si manifesta? Forse – e se esiste – la risposta risiede nella nostra stessa natura, fatta di contrasti ma anche di sfumature cromatiche che ci rendono materia e spirito, non solo corpo o mente, ma la somma di essi, un unicum di tanti strati che dalla pelle arriva fino ai sensi, alla percezione delle cose, alle sensazioni che possono essere come petrolio vischioso, denso, plumbeo.
Al Fabbrichino di Prato arriva in prima assoluta “Stanno tutti male”, uno spettacolo prodotto dal Teatro Metastasio e laCoz di e con Riccardo Goretti, Stefano Cenci e Colapesce. Tutto ruota intorno alla frase che dà il titolo alla rappresentazione: che cosa significa la frase “stanno tutti male”. Perché “stiamo male” e se sia più o meno necessario “curarci” da questa condizione. Entriamo nella piccola sala del Fabbrichino, i tre protagonisti sono già in scena, sono immobili anche se in realtà stanno compiendo un’azione come quella di fumare o di volgerci le spalle. Sullo sfondo un grande schermo sul quale passano le parole di vecchie canzoni come in un grande e «tragicomico» karaoke. La circostanza del karaoke non è casuale: si pensi alla sua funzione, quella di cantare ma non nel senso “professionale” del termine, quanto di qualcosa che è più un intrattenimento in cui basta seguire le parole proiettate sullo schermo per non sbagliare. stanno tutti male 5
In questo spettacolo tutto condotto da Goretti, Cenci un Colapesce-attore, non manca la comicità (che suscita il riso) ma soprattutto l’umorismo (che permette l’innescarsi della riflessione) per affrontare un tema che, nel profondo –e non solo- tocca un po’ tutti. Sì perché quante volte abbiamo usato l’espressione «sto male»? La usiamo per esprimere un dolore fisico, ma anche una sofferenza interiore e, addirittura, quando ridiamo troppo. Oltretutto può essere detta da un bambino, come da un adulto, dunque oltre ad essere frase universale risulta adattabile a qualsiasi circostanza. I tre protagonisti, partendo dall’universalità del concetto e dalla sua duttilità ad infinite contingenze, mostrano alcuni degli infinitì strati e delle molteplici forme che può assumere un concetto di questo tipo. Perché possiamo star male quando siamo nostalgici e pensiamo che il tempo migliore sia solo quello dei ricordi, possiamo stare male quando abbiamo paura, quando non riusciamo a controllare lo spavento, quando gli altri non capiscono quello di cui abbiamo bisogno o non riusciamo a definire chi siamo e cosa vogliamo, quando ci sentiamo invisibili o, semplicemente, quando i capelli non stanno come vorremmo. Lo stare male si declina non solo in stratificazioni ma in più livelli che riguardano la superficie o possono “attecchirsi” nel profondo di noi. Da questa prospettiva qualsiasi strato o livello di malessere, risulta essere comunque un punto di rottura rispetto al senso di felicità, pace e ordine (anche se qui si potrebbe aprire un’ulteriore riflessione sulle ragioni che determinano il piacere e la contentezza).
Lo spettatore, benché i personaggi interpretati siano caratterizzati e caratterizzanti, non si sente lontano da quelle penetranti e celate angosce che diventano anche sue e che, seppur diverse, trovano un fine legame con le proprie esperienze. Lo stare male, probabilmente dipende più in generale dal fatto che spesso crediamo di creare, con le nostre vite, il regno di una felicità perpetua quando poi anche la più piccola sensazione legata allo “stare male” contribuisce a edificare tanti piccoli inferni con fossati, «cani» e fili spinati che risiedono nella parte più angusta di noi. L’uomo tende, con un fare particolarmente zelante, ad essere filtro di un mondo che, purtroppo, o per fortuna, non è perfetto. Infatti, spesso, egli crede di trovare in esso una tana sicura, ma poi si rende conto che è più una matassa da sbrogliare. Pensandoci bene, ciò che forse fa stare male più di ogni altra cosa è la paura della morte. Forse questo potrebbe essere l’insieme più imparziale e meno soggettivo in cui includere il termine perché, come emerge attraverso il gioco del passaggio dei microfoni, tutti “stiamo male” pensando che si dovrà morire.
Abili tutti e tre i protagonisti nel portare in scena personaggi che permettono di affrontare in maniera “giocosa” il tema: Cenci, pur non cambiandosi mai d’abito, assume tante personalità, si plasma e si trasforma; Goretti passa in rassegna tanti stati d’animo, dalla nostalgia al bisogno di leggerezza, Colapesce, con riservatezza e gentile discrezione, piace molto anche nei panni dell’attore.
Dopotutto, molto dipende da come pensiamo alla frase: “Stanno tutti male”, se come una domanda o un’affermazione. Affermare significa provare il senso di una fragilità che ci appartiene, interrogarsi se questa sia l’unica -o una- delle condizioni possibili, permette di recuperare uno sguardo originario in cui è ancora ammissibile scorgere diverse forse di esistenza.

 

Laura Sciortino 7/2/2019