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Bouchard-Tedacà: Siamo mosche o maiali, o mangiamo o siamo mangiati

FIRENZE – Di solito la mosca non è il problema ma rappresenta il sintomo, quel campanello d'allarme. La mosca rotea, svolazza, s'accapiglia sulle carogne, sulla decomposizione, sul marcio. La mosca è l'ultimo baluardo di vita dove vita già non c'è più, è l'ultimo fremito, l'ultimo colpo d'ali alla ricerca della carcassa in putrefazione. E l'occhio, e la penna, clinico come fosse un'anatomia dei sentimenti, di Michel Marc Bouchard (più volte rappresentato all'interno di “Intercity” al Teatro della Limonaia, come “Il sentiero dei passi pericolosi”) mette a nudo e scoperchia tutta l'infezione e la corruzione morale all'interno di una famiglia (potremmo essere sospesi tra i Kamamazov e “Il Giardino dei ciliegi”), se così si può chiamare. “Sotto lo sguardo delle mosche”, per la regia di Simone Schinocca e della compagnia torinese Tedacà, sono storie claustrofobiche che s'aggrovigliano, storie psicologiche torve e losche, storie di dipendenze patologiche cupe, storie di vendette fredde, storie dove manca l'ossigeno, dove non ci sono finestre per vedere un panorama che sia un po' più lontano, per constatare una siepe da voler superare.bouchard-web.jpg

E' nell'incipit 1987.jpgche la narrazione si dipana come fossimo in un teatrino e si delineassero e si mettessero in campo e sul tavolo gli oggetti e gli argomenti, come le puntate sul tappeto verde del poker; tre sono gli elementi che guerreggeranno, che si alimenteranno, che entreranno in frizione o si supporteranno: la morte, la sopravvivenza, la noia. Questi sono i motori dell'uomo moderno, ai quali cercare di nascondersi, dai quali tentare di mimetizzarsi per non farsi colpire dal virus: si sopravvive alla morte e si cade nella noia e nella noia si cerca la morte per poi riuscire a ritrovare faticosamente l'equilibrio barcollante della vita che presto tornerà noiosa contribuendo a questo vortice di up & down, di stelle e Fossa delle Marianne che non fa altro che produrre mostri e fantasmi. Bouchard, che si autodefinisce “autore canadese e non soltanto quebecchese”, ci presenta questi spaccati analitici di rapporti raggelanti, dove non scorre sangue ma calcolo, dialoghi come lame glaciali, famiglie spezzate da un odio sotterraneo che prude, frizza come sale sulla ferita, senza sconti, senza salvezza, senza vincitori né vinti. Se ne esce affranti e svuotati, contagiati, senza commiserazione, senza pietà, senza linfa né energie.

C'è un sipario rosso sul fondale come se fossimo in un teatrino di provincia e la vita che da lì a poco sarà messa in campo, nell'agorà salottiera casalinga, nella tavola imbandita di menzogne e recriminazioni, sia soltanto finzione, di ruoli, di vicinanza, di parentela. Un figlio (Elio D'Alessandro) che ha lasciato la casa, dove è tenuto da sempre sotto una campana di vetro, e dove fa ritorno dopo tre giorni di assenza. La sua nuova fidanzata (Valentina Aicardi decisa, sua anche la traduzione) appena incontrata giù in città. La madre del ragazzo che ha nell'armadio lo scheletro dell'eutanasia concessa alla sorella morente e sofferente. Il cugino, vero Joker del play (Andrea Fazzari, il vero protagonista, ha il cinismo calcolatore e il piglio lucido da Iago, è il Diavolo de “Il Maestro e Margherita”) attorno al quale tutto ruota, cambia, prende forma, si anima, si sciupa, deperisce. La matassa sono fili labirintici di sovrastrutture annodate dal tempo che mai perdona ma che tutto ingigantisce, incancrenisce, satura. I torti si sommano, si amplificano cercando punizioni, colpe divenute capitali e mai più amnistiabili.

C'è un lascito biblico del Figliol Prodigo che l'epilogo dell'Ultima Cena, c'è una sorta di richiamo della foresta di Jack London attorno e dentro questa casa feticcio, questa costruzione nobiliare sorta e cresciuta accanto ad una popolazione di 14.000 maiali, allevatori arricchitisi con suini e prosciutti, con spalle e speck, con cotechini e zamponi. Le mosche intanto gravitano sopra attendendo il loro momento sotto-lo-sguardo-mosche-elio-d-alessandro-andrea-fazzari-ph-emanuele-basile.jpgda sciacalli in miniatura, da avvoltoio microscopici per calare come Unni sulle carni macilente e purulente. Si sono arricchiti con i maiali ma di fondo, nel dna, sono rimasti feroci, brutali, animaleschi. Del maiale si mangia tutto ma anche il maiale mangia qualsiasi cosa.74638436_10220603274857609_5134422412099584000_n.jpg

Sono tutti legati da un dolore straziante in una catena di vuoti e mancanze e assenze: il ragazzo (Amleto imprigionato nel castello di Elsinor?) non può stare lontano da quell'abitazione, il cugino non può vivere senza il ragazzo, la madre senza il ragazzo si sente persa, il ragazzo ha grandissimi mal di stomaco come crisi d'astinenza. E' il ricatto la base per le trattative in questa famiglia dove i ruoli sono saltati, dove tutto è labile, dove i contorni si sono sporcati fino a fare poltiglia delle regole sociali, fino a polverizzare convenzioni accertate. La violenza è il filo che li lega tra letame e larve, tra sangue ed escrementi, tra segreti e minacce. Loro sono i maiali, loro sono le mosche: un groppo che grattugia gravido, grave e gracidante.

Tommaso Chimenti 28/10/2019