SESTO FIORENTINO – “Li incontri dove la gente viaggia e va a telefonare col dopobarba che sa di pioggia e la ventiquattro ore perduti nel Corriere della Sera nel va e vieni di una cameriera” (Pooh, “Uomini soli”)
Non c'è niente di più impersonale di una camera d'albergo. Dall'esterno. Ma per chi vi passa, vi sta, vi dorme, vi soggiorna, anche solo per una notte, diviene casa, luogo privato, scrigno, quattro mura che fanno confessione e vicinanza. Due sono i filoni di questo interessante testo rumeno, “Camera 701” di Elise Wilk, all’interno del cartellone di “Intercity Bucarest”, messo in scena per la regia solida e compatta di Ciro Masella, dai dialoghi che giocano sul sorriso come sulla profondità: la grande solitudine che attanaglia tutti gli otto personaggi (sette gli attori in scena nei quattro quadri) e il doppio binario vero/falso, reale/inventato che sottile e mellifluo entra e scorre, striscia e s'insinua nelle dinamiche di queste quattro coppie che abitano la stessa stanza d'hotel, per motivi diversi e in tempi e dimensioni temporali differenti che si sovrappongono e mischiano in passaggi senza soluzione di continuità con piani sequenza in dissolvenza semplici ed efficaci, leggeri tocchi in chiaroscuro che esaltano la cifra registica e le sue pennellate patinate d'ombre soffuse alla Hopper.
Merito di Masella anche l'essersi circondato di presenze importanti, di peso e cuore; ne citiamo tre facendo sicuramente torto agli altri: Michele Sinisi dona ai suoi personaggi quell'affabilità, quella naturalezza che solo i grandi interpreti riescono a far passare nelle pieghe del proprio ruolo, umanizzandolo, rendendolo tangibile e misero con piccoli colpi, con lievi imbarazzi, con qualche virgola; Monica Bauco è stata sottovalutata dal teatro italiano e sappiamo di quanto bisogno abbiamo di vedere sulla scena forza raffinata e gentilezza aggressiva e grandi doti brillanti; infine Giulia Eugeni (vista anche nel “Miseria e Nobiltà” proprio per la regia di Sinisi con un Masella delizioso) sempre sull'abisso tra una crisi di nervi e l'essere coccolata, e non puoi far altro che cadere attratto nella sua ragnatela di empatia e follia, con una fisicità e un impatto dirompenti, non rischiando mai di passare inosservata.
In una camera d'albergo non si dorme soltanto: è una parentesi staccata dalle nostre vite quotidiane, è un salto rispetto alle abitudini, anche se cerchiamo di riprodurre il più possibile un qualcosa che assomigli ai nostri loculi con oggetti feticcio o movimenti consolidati tra le nostre consuete quattro mura. In una stanza d'albergo si sta per dimenticare, per prendere la rincorsa davanti alla finestra, per fotografare qualcuno dall'altra parte della strada, per bere e scordarsi il proprio nome e la propria fisionomia, per esibirsi a pagamento, per sfogare i propri desideri inconsci e repressi, per piangere la prima notte di nozze. Lo spettacolo corre veloce, senza pause, una boccata d'ossigeno fresco, sempre sull'altalena dei sentimenti, tra un pathos viscerale e un brio scattante, tra battute e voglia d'abbracci, immerso in situazioni mai al limite, mai così assurde e grottesche o letterarie, il ché le rende cariche di una forte rappresentazione e immedesimazione. Masella sceglie, cuce per ornare gli stacchi tra i quattro intermezzi, come un origami di pizzo, i Tiromancino che cantano Dalla, il velluto di Rihanna e l’urlo roco Vasco, pezzi che squarciano le ferite emozionali e sentimentali, aprono varchi di commozione dentro l'autostrada prodotta dalle parole.
Eccoci al vero e falso, archetipi e stratagemma finemente usati dalla Wilk che prima porta a credere alla tesi appena sostenuta con forza per poi smontare il castello di certezze tirato su a(ma)bilmente e ad arte con un momento, un'attesa, un'alzata di sopracciglio, un istante di pausa sospesa a mezz'aria, una parola strascicata buttata là piano ma che fa rumore dentro le coscienze dei personaggi ribaltando i piani di forza, mescolando le carte, rimettendo tutto in discussione. In questo luogo-non luogo ci sono le nostre paure, l'abbandono, il suicidio, l'emarginazione, l'incomprensione, ma qua, in questa boccia da pesci rossi, tutto è possibile perché un motel non è una casa e le ore qui dentro non scorrono come quelle là fuori.
Noi, qui tra queste mura, non siamo propriamente noi, tra questa carta da parati o quella moquette che non avremmo mai applicato alle nostre abitazioni; tutto è o più piccolo o più grande rispetto al nostro consueto, tutto è a portata di mano, chiusi claustrofobici dentro i nostri pensieri che adesso rimbalzano senza trovare sfogo né soddisfazione. La manager dura e sicura di sé perde i sensi e si mostra nelle sue debolezze con la stagista, la ragazzina che la vuol far finita per una storia d'amore andata al macero, un paparazzo che preferisce fotografare sconosciuti invece che passare l'ultimo giorno dell'anno con la moglie, uomini soli in disperata ricerca di un abbraccio, di un affetto anche momentaneo, due novelli sposi con scheletri nell'armadio ingombranti.
“Ma nascondiamo del dolore che scivola lo sentiremo poi abbiamo troppa fantasia e se diciamo una bugia è una mancata verità che prima o poi succederà” (Fiorella Mannoia, “Quello che le donne non dicono”)
Visto al Teatro della Limonaia, il 5 ottobre 2016
Tommaso Chimenti 06/10/2016
Foto: Enrico Gallina