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“Serrature”: al Rifredi di Firenze il nuovo spettacolo di Alessandro Riccio

Tutte le persone, nella vita, hanno bisogno di avere dei punti di riferimento. Come il marinaio, anche l’uomo ha bisogno della luce del faro per non commettere errori di rotta ed essere certo di imboccare la via giusta. Ma cosa succede se all’improvviso quella luce si spenge e non riusciamo più a capire in che direzione dobbiamo andare? Dobbiamo sentirci falliti, sbagliati, delusi se questo avviene? No, ed è proprio la natura umana a insegnarci che non c’è niente di male a sbagliare, a cadere, a perdersi quando l’obiettivo che vogliamo raggiungere è la costruzione di noi stessi. Alessandro Riccio Serrature Giulio Spadon2
È un po’ questo il tema intorno al quale ruota “Serrature”, lo spettacolo scritto e diretto da Alessandro Riccio e presentato al Teatro Rifredi di Firenze. Con Amerigo Fontani, Daniela D'Argenio Donati, Piera Dabizzi, Francesco Gabbrielli e Vieri Raddi, Ricco porta in scena Giulio Spadon, un architetto modello, quarantenne deciso e volitivo, fulcro della vita di molte persone. La moglie, il figlio, il capo dello studio, l’amico, i colleghi: in tanti dipendono dalla sicurezza che mostra e dimostra agli altri quest'uomo con la barba e sempre ben vestito che non pecca mai in quello che dice o che fa perchè perchè ha sempre pieno controllo della sua vita.
Il palco del Rifredi è come suddiviso in spazi, o meglio, in luoghi che permettono di identificare non solo la persona che lo abita, ma i diversi contesti con cui si relaziona il protagonista. Sono le luci, infatti, a permetterci di “chiudere” le porta di una stanza per aprirne un’altra: viene messo a fuoco un quadro alla volta e ciascuna scena non è isolata, ma si lega a quella precedente –quindi a quella successiva- grazie anche alle parole che chiudono un discorso e ci fanno approdare ad un nuovo dialogo tra Giulio e un altro protagonista della sua vita.
Ad essere “messi a fuoco”, infatti, sono lo studio con un capo che si fida ciecamente del suo architetto modello, la camera da letto con una moglie perennemente a dieta, il giardino con un amico che si prende cura più delle  piante che della sua vita sentimentale e la camera/appartamento di un adolescente ribelle e squattrinato che riesce a esprimere se stesso solo attraverso la pittura. Giulio è il punto di riferimento di queste persone e ognuno di loro ha in sé una debolezza che lo spinge ad affidarsi a chi, invece, sa come gestire le piccole o grandi sfide quotidiane della vita. Il nostro architetto affermato diventa il modello di un capo meno creativo di lui, di una moglie che teme la bilancia e ha bisogno di supporto nel continuare la dieta, di un amico tradito dalla compagna e che ha bisogno di qualcuno che lo compiaccia, di un ragazzo che vuole fare scelte diverse rispetto a quelle che da sempre gli sono state imposte. E allora perché, davanti all’immagine di tanta sicurezza e stima delle persone, vediamo di tanto in tanto il nostro architetto parlare con una psicoterapeuta? Non a caso la postazione della dottoressa Calligaris si trova proprio al centro del palco, come nel punto in cui convergono i quattro vertici della vita di Giulio, ovvero il lavoro, l’amore, l’amicizia, la famiglia. Giulio, almeno all’inizio, non vuole affidarsi alle cure della dottoressa, ma progressivamente percepisce la necessità di affidarsi a lei e di chiederle aiuto.
Il nostro architetto modello, infatti, si trova ad affrontare una crisi, quella di se stesso, causata da una perdita di lucidità che mette a repentaglio anche la sua  collocazione nel mondo e lo sguardo del mondo su di lui. Riccio lascia emergere le fragilità del suo personaggio, si spoglia di quella corazza che lo rende perfetto, inattaccabile, leader in ogni situazione e perde, di fatto, quell’ “aura” di stra-ordinarietà. Giulio, con questo comportamento, infatti, permette allo spettatore di riflettere su alcune questioni: possiamo, da un certo momento in poi, non essere più all’altezza di certe situazioni? O ancora, possiamo avere bisogno di aiuto anche se all’apparenza siamo sempre stati  d’aiuto per gli altri? L’uomo contemporaneo può facilmente perdere i suoi punti di riferimento perché è ambizioso, affamato di successo, iperconnesso rispetto a tutto quello che vive intorno a lui e oltre; ciò che accade al nostro protagonista ci stupisce ma ci fa riflettere sulla condizione in cui viviamo e da cui forse dobbiamo proteggerci o, almeno, salvaguardarci.
A Giulio conferiscono il Premio Pritzker, il riconoscimento assegnato al miglior architetto vivente le cui opere diventano una combinazione di molti aspetti tra cui creatività e talento, caratteristiche attraverso le quali prendono forma opere che diventano significative per l’umanità intera. Il nostro architetto, nonostante i grandi risultati raggiunti, non sembra trovare le parole adatte per esprimere la sua gratitudine davanti a questo premio e sembra che voglia addirittura rifiutarlo a un certo punto. La riflessione che parte dalla volontà di voler rinunciare a un premio così prestigioso nonostante la contrarietà di tutti, ci fa tornare seri dopo che ci siamo divertiti di fronte ai vari sketch comici e sembra volerci dire: avete mai pensato che ci ingegniamo per costruire ponti, strade, porti, palazzi, beni architettonici perfetti dal punto di vista strutturale e dell’armonia degli elementi, quando basta un calcolo sbagliato per mettere a repentaglio tutto? L’unica vera opera d’arte perfetta sembra essere proprio l'uomo nella sua imperfetta natura, perché «informe, coraggiosa, perché in grado di commettere errori, perché in grado di continuare a stare in piedi nonostante il dolore», il cambiamento, la perdita di punti di riferimento. Giulio, con il suo premio in mano, ci ricorda che abbiamo una «forza irrazionale che non molla e non dice basta, perché costruire e ancor più riparare noi stessi è il vero obiettivo» e forse è questo l’unico punto di riferimento che non dovremmo mai perdere di vista.

 

Laura Sciortino 28/1/2019

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