FIRENZE - “La costruzione di un amore spezza le vene delle mani mescola il sangue col sudore se te ne rimane, la costruzione di un amore non ripaga del dolore è come un altare di sabbia in riva al mare”, lo diceva bene Ivano Fossati. “Amore” che parola abusata talvolta, termine del quale abbiamo sempre un po' paura a mettere sul piatto, a elargirlo, a condividerlo, a comunicarlo. Amore che è visione personale e oggetto universale che ci muove, del quale abbiamo necessariamente bisogno. Un bisogno che può diventare anche dipendenza, vicinanza, paura della solitudine, ricerca dell'altro per scacciare i demoni della propria esistenza. L'amore che ci accompagna talvolta anche fino alla tomba e oltre. Come nel caso di questo lavoro del duo Scimone e Sframeli (visto al Teatro Niccolini di Firenze), opera sentimentale, sensibile, toccante, che si scioglie lentamente come sciroppo. Due coppie stanno su due tombe in una sorta di parentesi post-mortem, sembrano quasi risvegliarsi nella notte per rievocare tormenti e pesantezze, per riportare alla memoria, fallace, zoppicante, teneramente mendace, momenti di vita vissuta, fallimenti e cadute ma anche sorrisi e abbracci ma soprattutto quello che non è stato, colpevolmente, e per porvi rimedio, mettere un cerotto alle ferite, spargere un balsamo sui traumi. Le parole d'ordine sono combattere la paura di amarsi e la vergogna di amarsi. Paura e vergogna che ci limitano, ci intrappolano, ci ingabbiano, come è successo a questi quattro anziani che adesso dormono sui loro sarcofagi, sul duro e freddo marmo, cercando pacificazione e serenità, riassumendo incontri e attimi già fuggiti via.
L'atmosfera cimiteriale ci ha ricordato “Totò e Vicè” di Franco Scaldati portato in scena da Vetrano e Randisi. A fare da fondale quattro disegni di cipressi alti (la scena è di Lino Fiorito), solidi fusti, imponenti, ingombranti che però, a guardare bene, potrebbero essere anche quattro figure antropomorfe di beghine, bigotte con gambe magre e scialle nero luttuoso a coprirne il corpo e la testa in segno di penitenza e punizione; donne pie, di quelle stereotipate del nostro Sud con il rosario a snocciolarlo sempre tra le mani ossute e lo sguardo giudicante verso ogni forma di diversità, ottuse e acide, cattive nella loro spiccia provincialità. E qui ci viene in soccorso De Andrè: “Ma le comari d'un paesino non brillano certo in iniziativa, le contromisure fino a quel punto si limitavano all'invettiva. Si sa che la gente dà buoni consigli sentendosi come Gesù nel tempio, si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare cattivo esempio”. Già, il giudizio sociale che preme, che ci guarda, ci inquadra, ci inchioda.
Paura e vergogna, appunto, i due cardini che hanno recintato l'amore delle due coppie, una formata da marito e moglie (Giulia Weber e Spiro Scimone), l'altra da due uomini (Francesco Sframeli e Gianluca Cesale), colleghi pompieri. Pompieri che arrivano e arrivavano sempre a spegnere i momenti più passionali della coppia, come a raffreddare i bollenti spiriti, a riportare il tutto ad atteggiamenti più accettabili, meno criticabili, più sobri, immettendo, giustappunto, paura del farsi vedere e vergogna dell'essere scoperti, sorpresi a toccarsi, annusarsi, abbracciarsi. Hanno pannoloni e dentiere, il meglio della loro vita se n'è andato e adesso non rimane che il ricordo che diventa un'analisi di quello che è stato, come un sogno per meglio affrontare l'eternità che li attende dopo questo sonno: “Tra poco dobbiamo andare”, si dicono; li attende l'oblio.
Non mancano i momenti ironici (i pompieri fanno il loro ingresso su un carrello della spesa attrezzato con luci e allarmi, sembrano i Ghostbusters, ci hanno ricordato un vecchio spettacolo dei Ricci/Forte) come quelli commoventi tra piccole gelosie e leggere forme di controllo, sofferenze, allontanamenti, incomprensioni, tenerezze, carezze. Sono un sospiro, un alito, un rivolo di vento in una notte fredda al riparo degli alberi, qui, un po' nascosti, lontano da occhi indiscreti possono finalmente amarsi come avrebbero voluto, liberi. Non è mai tardi per amarsi. Anche quando appare la scritta game over possono arrivare i tempi supplementari per dirsi quello che è rimasto bloccato, le parole rapprese, i “groppi d'amore nella scuraglia” come li chiamava Tiziano Scarpa.
Tommaso Chimenti 06/11/2021