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Sciaranuova: il festival dei Planeta, l'arte gode tra vino e teatro

CATANIA – Camminiamo tra le vigne. A destra il Nerello Mascalese, a sinistra il Carricante, vitigni autoctoni. E' un microclima ideale quello che scaturisce in questa vallata. L'Etna, sopra, non è minacciosa, anzi, sembra un'ala che si estende a fare ombra. L'Etna che zampilla, l'Etna che rilascia i suoi sedimenti e sali minerali attraverso la lava che calda scende e gorgoglia, scorre e zampilla. Proprio su queste colate laviche, su queste “lingue” di roccia nera friabile (le sciare), che i Planeta, passati nei secoli da latifondisti a produttori vinicoli, hanno impiantato le loro vigne, proprio qui nascono vini carichi di profumi, dati proprio dal terreno nero, dalle rocce scure, dalla polvere pece che si alza. Colori forti, il verde delle foglie, il cupo della montagna, il giallo del Grillo, il vino sul quale è posata37596216_10209276963559504_1523927411064832_n.jpg l'etichetta con un'opera di Mario Merz, che s'illumina al buio: “Se la forma scompare, la sua radice è eterna”. Magia. Siamo a quasi mille metri d'altezza. I Planeta hanno cinque tenute in tutta la Sicilia: appunto l'Etna, siamo vicini alle gole dell'Alcantara, a Linguaglossa, poco dopo Passopisciaro, Menfi, Vittoria, Noto e Capo Milazzo, 400 ettari a vigneti, 150 a ulivi, ventinove etichette nate in questi trent'anni, 25 mln di fatturato annuo, due milioni e mezzo di bottiglie vendute ogni anno delle quali il 60% all'estero.37613706_10209276908478127_7953275767054401536_n.jpg

Siamo sulla “Sciaranuova”, formatasi dopo la grande eruzione del 1614, nome che dà il titolo al festival, che si svolge in campagna nella loro tenuta a metà tra il rustico e lo chic, che da quattro anni dirige con piglio, cura e sorriso l'attrice Paola Pace. Si parla sempre tanto dell'intervento dei privati all'interno del settore della cultura, ecco, i Planeta operano nella direzione del mecenatismo (anche nell'arte contemporanea e nella musica) rilanciando il teatro, la parola, la convivialità dell'arte a trecentosessanta gradi. Rimettere sul mercato una piccola fetta degli utili e degli introiti commerciali fa bene a tutti, in primis al pubblico che sa che di questi prodotti ci si può fidare venendo sul posto a vedere, controllare, conoscere direttamente materie, spirito e le persone che stanno dietro a questo “miracolo”. Non è una semplice sponsorizzazione ma un'idea che nasce da dentro come sviluppo naturale delle politiche che l'azienda siciliana mette in atto e in moto fin dalla sua nascita: in vino veritas. Nel piccolo anfiteatro, tra le pietre e la paglia, nel buio della notte, quest'anno si sono alternati: Valter Malosti, Viola Graziosi, Fabrizio Falco, Nunzia Antonino. Nomi di spessore, interpreti di rilievo.

Abbiamo scoperto la grande carica passionale, viscerale, muscolare e allo stesso tempo sentimentale di Valter Malosti, neo direttore del TPE torinese, che qui ha portato “Venere e Adone” dai sonetti shakespeariani sui quali lavora e studia e gira attorno e che analizza da anni, sempre portatori di nuova luce, di nuove visioni e aperture. Shakespeare, nei sonetti ancora più libero di spaziare rispetto alle tragedie e alle commedie, non finisce mai di stupire per la sua lingua così coinvolgente e contemporanea ed è un vero piacere fisico sentirle pronunciate e dette da un interprete che ci mette anima e carne, nel vero senso della parola. Già perché Malosti ne fa un corpo a corpo, quasi marines con i gomiti nel fango, con il testo e con il pubblico, un doppio filo che tira a piacimento, forzando, rallentando, accelerando, spingendo tra inflessioni dialettali, cadenze, sfumature, tiene le redini e, pieno di eros, cavalca i versi e le strofe, dà sostanza senza tregua, inneggia all'arrembaggio, ora sbalza, mai sazio, ora salta, adesso scalcia. Come una sgroppata furiosa per un pendio scivoloso, Malosti è travolgente, prende, parte con una lettura che è attesa e spasimo, parentesi folgorante e illuminazione.IL-MISANTROPO-Valter-Malosti.jpg

Aggiungi pioggia ad un fiume in piena e finirà per straripare”, un verso del Bardo che si attanaglia perfettamente all'attore e regista torinese. Il suo è un respiro, a tratti rantolo, una voce matura che si fa primavera con piglio e grinta, batte come macchina da scrivere, pota, danza, sferra, ora aggredisce adesso carezza, sicuramente stordisce. E' una carica sopra un destriero, è un vento, è scompiglio alternato a piccole dosi di pace, è rabbiosa e guerreggiante, è caccia, fuga ma anche rincorsa, è un odore, un profumo, ma anche un aroma, una fragranza. Siamo sotto un albero che nella penombra ricorda quello dove fu impiccato Pinocchio. Malosti non cede, non recede, non molla la presa della preda (il suo pubblico, la sua platea ormai addomesticata come avrebbe fatto il Pifferaio magico di Hamelin), ora tocca come Cyrano, ora scocca come Cupido, fugge, poi pungola di scintille. Il suo canto (quando riprende fiato fa una pausa, sposta la testa di lato sulla destra, c'è una sospensione che indica quasi una rincorsa e la platea rimane in apnea) è ansia esaltante e salvezza tremante ma decisa, è generoso e appassionato, è sentito e caldo, fresco e diretto, felice ululare alla luna leopardiana, scuote di pathos, strazia vigorosa e rigorosa, è tempesta senza tentennamenti, un distillato di passione, è respiro doloroso e fragoroso, è miccia incendiaria da Molotov, è lampo abbagliante, è bastone e carota, vascello e scoglio, onda e schiuma, frammento e sussurro, è gioia, decisamente. Shakespeare è grande e Malosti è il suo profeta.

Tommaso Chimenti 27/07/2018