FIRENZE – Due sono i binari che Alessandro Riccio continua con tenacia e testardaggine a perseguire fortemente: da un lato il lavorare, il far ragionare e riflettere sulle diversità, dall'altro l'uso dell'ironia, anche della risata a tratti grassa altre lieve e fine, per far passare temi ingombranti, argomenti che se affrontati in maniera differente risulterebbero pesanti come macigni ma che declinati sul quotidiano, sul leggero, arrivano, magicamente e paradossalmente, ancora più in profondità, radicandosi, trovando appoggio e inserendosi in un discorso più ampio di integrazione, socialità, condivisione. Anche questo suo ultimo “Roba da duri” (continua l'alleanza artistica con il Teatro di Rifredi dove ha debuttato) non fa eccezione. Riccio è uno di quelli che produce, prova, sperimenta, in un assiduo frullare di idee, di costumi, di soluzioni, di interrogativi con la costante del colore, dell'invenzione, dell'inventiva che si trasforma in invettiva, ma mai lamentosa o rancorosa, cercando sempre il lato pop e lucente, sorridente e gradevole dell'esistenza.
Un ambiente che ricorda per certi versi, la numerosità degli oggetti, l'accatastarsi delle cose, la bulimia che ingolfa la vista, questo riempire la scena, un suo precedente cult “La meccanica dell'amore”. Anche qui la materialità, il numero, l'ingombro sembrano far da contraltare e da sostegno alla mancanza di sensibilità o, meglio, a quella parte di noi che rendiamo dura e impermeabile ai sentimenti perché non ammettiamo di avere paura delle nostre emozioni, di sentirci deboli e fragili di fronte alle avversità, di sentirsi naufraghi in un mondo di caterpillar, di persone che ci fanno credere di essere inamovibili, sempre certi e sicuri di se stessi e di ciò che fanno, delle parole che usano, dei concetti che esprimono. Nessuno intorno a noi sembra avere un difetto, un tentennamento, una balbuzie, un vacillamento. Ci sentiamo irrisolti, pecore nere in un gregge perfetto, inadeguati.
La reazione di Ivan (ovviamente Il Terribile) è stata, nel tempo, ornarsi e agghindarsi ad albero di Natale, con tatuaggi, borchie metalliche eccessive, tintinni aggressivi, catene inquietanti, look dark dalla faccia torva, sguardi noir dagli atteggiamenti cattivi, spicci e bruschi, zeppe e abiti in pelle lucente, cresta appuntita da ferirsi a pettinarsi. Un atteggiamento di difesa, chiaramente, per allontanare e proteggersi, per sentirsi diverso, stavolta non emarginato dagli altri, i cosiddetti “normali” (gli impiegatucci, come li chiama lui), ma autoelidersi, autotacciarsi d’indipendenza, di non assoggettarsi ai logo, scegliendo di non uniformarsi alle convenzioni, alle regole, alle leggi; essere diverso come scelta propria e non altrui.
Un duro, anche maleducato e volgare, acido e sboccato, cinico e disilluso, dal cuore fragile e bisognoso d'affetto, nel quale fa breccia (la Porta Pia scorbutica cade rovinosamente e apre speranze) davanti all'ingenuità, all'incoscienza, alla freschezza di un bambino (il bravissimo, sciolto, divertito, naturale e già pronto anche all'improvvisazione e al gioco sul palco, Gianmaria Corona di dieci anni, per la prima volta in scena) il nipote, anche lui in balia delle circostanze della vita che tutti ci rende sbattuti dalle onde: i genitori che si stanno separando, i bulli a scuola che lo prendono in giro perché non sa difendersi, lo chiamano “femminuccia”, gli rubano gli occhiali. Lo zio coriaceo e incattivito, spacciatore e frequentatore di persone poco raccomandabili, si rivede, anche grazie alle favole-metafore di Esopo che il bimbo gli legge, si rivede nelle mosse e movenze, gesti e insicurezze del nipote, ricordandosi di come era, quando aveva sogni e aspettative, di quello che poteva essere e di ciò che non è stato, essenzialmente perché aveva avuto timore nell'affrontare le sue paure e quindi superarle.
Aveva cercato invece di costruirsi una corazza di ferraglia, uno scudo violento di teschi e musica metal punk a volumi insostenibili per stordirsi, credendo che questi potessero allontanare il mostro da sotto il letto, quando il nemico, nella maggior parte delle occasioni, vive e vegeta e si autoalimenta proprio dentro di noi, anzi siamo proprio noi a remarci contro, a non credere nelle nostre possibilità, a non concederci nuove chance, a darci per morti e sconfitti ancor prima di averci provato con tutte le forze. Un testo adatto anche per le scuole perché è in quel delicato passaggio, dalla spensieratezza dell'infanzia ai cambiamenti dell'adolescenza, che si forma e si struttura la donna o l'uomo di domani e l'accettarsi e il relazionarsi con i propri limiti e le proprie debolezze è il primo passo per poter essere, in futuro, adulti che pensano con la propria testa, individui capaci d'amore, d'affetto, di solidarietà. La crescita è un trauma, ma scappare dalle piccole grandi prove che ci pone è solamente un rimandare il problema, farlo aumentare a dismisura, renderlo talmente grande, insormontabile e invincibile che, prima o poi, se non fronteggiato e relativizzato, ci fagociterà.
Visto al Teatro di Rifredi, il 12 aprile 2016.
Tommaso Chimenti 14/04/2016