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Quel che resta di un soldato: “Trincea” di Marco Baliani

Cos’altro si può dire sulla Prima Guerra Mondiale che non sia stato già detto, su una carneficina costata milioni di morti e che ha cambiato per sempre la scena socio-politica e culturale del mondo occidentale? Nel centenario della Grande Guerra, Marco Baliani prova a riflettere con spirito critico sul primo conflitto moderno, partendo dalla piccola storia di un uomo qualunque, un soldato senza nome e dalla nazionalità imprecisata, “incastrato” nel luogo più emblematico delle battaglie consumate tra l’estate del 1914 e la fine del 1918. “Trincea” è il titolo dello spettacolo che l’attore e regista piemontese ha portato in scena al Teatro India dal 16 al 18 maggio, un’opera aspra, cruda e a tratti grottesca, in cui un semplice combattente diventa il tragico baluardo di un disperato istinto di sopravvivenza, sottoposto in ogni istante alla casualità di una morte atroce e inutile.trincea2
Nella penombra del palco si scorge una scenografia simile a una grande pagina bianca, uno spazio crepuscolare che attende di essere vissuto. Una parete/schermo collegata a un piano inclinato rimanda a una delle tante “gabbie” dipinte da Francis Bacon, fonte d’ispirazione per la regista Maria Maglietta, metafora di un’umanità alienata e imprigionata che urla a squarciagola le proprie sofferenze.
Sulle note dell’Ouverture della Traviata, un soldato spunta da una botola, sovrastato da un cielo oscuro e misterioso come i meandri dell’animo umano. Imbracciando un fucile dotato di baionetta, l’attore si muove a scatti come un automa, un burattino i cui fili sono manovrati da politici corrotti e industriali senza scrupoli che vedono nella guerra solo una grande opportunità di guadagno. Gli “abitanti” della trincea rappresentano gli ingranaggi di un’immensa fabbrica produttrice di morte in cui ogni combattente è un pezzo d’artiglieria, una pedina disumanizzata mossa dai piani imperscrutabili di un Dio-Generale.
La solitudine, lo spaesamento e la perdita della propria dignità emergono assieme all’esigenza fisiologica di nutrirsi, di dissetarsi, di pulirsi e di espletare i bisogni corporali. I soldati sono divorati dai pidocchi, “insalsicciati” nelle fosse “budello”, disgustati dal raccapricciante fetore di sangue e di “piscio rappreso”, circondati da cadaveri in putrefazione mentre cercano affannosamente viveri e acqua.
Si (soprav)vive alla giornata aggrappandosi ai ricordi e scrivendo lettere ai genitori, ai fratelli e alle fidanzate che attendono il rientro dal fronte dei loro uomini. Molti di loro raccontano una guerra edulcorata per tranquillizzare chi è rimasto a casa. Pochi riescono invece a sfogarsi, definendosi dei poveri “coglioni” che forse ritorneranno con gli arti amputati o con un occhio di porcellana, mentre altri preferiscono conservare la carta per “pulirsi il culo”.
trincea5Aiutato dal video mapping, Marco Baliani scava a fondo nell’orrore e nel dramma della disgregazione spirituale dell’individuo, immedesimandosi perfettamente nella mente e nel corpo di un soldato annichilito da uno spazio angusto che condivide con il cadavere mummificato di un altro combattente, un manichino a cui l’attore confida le proprie angosce.
Senza ricorrere ad alcun tipo di astrazioni, teorie o nozioni storiche, Baliani incarna sapientemente la concretezza quasi scientifica delle ferite subite da corpi entrati a contatto con il logorio di un conflitto fatto di lunghe ed estenuanti attese, intervallate da sporadici e sanguinosissimi assalti. Evitando inutili e superflue disquisizioni, lo strazio e il dolore vengono abilmente mostrati nel loro farsi, attraverso una molteplicità di punti di vista e di coscienze infrante dalla brutalità della Grande Guerra.
L’inquietante tessuto sonoro “lynchiano” creato da Baliani è la voce di un mondo arcaico stravolto dall’irruzione di una “modernità” fatta di aerei, mitragliatrici, gas tossici, maschere improvvisate e granate che piombano sull’umanità con una violenza così potente da ammutolire la natura.
Anche lo spettatore non riesce quasi a deglutire di fronte ai balbettii, agli spasmi e agli occhi pieni di terrore e follia di un soldato diventato alla fine lo “scemo di guerra” ricoverato in un ospedale psichiatrico, mentre il “Va, Pensiero” di Giuseppe Verdi sancisce in sottofondo la morte della ragione.

Andrea El Sabi 19/05/2016

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