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“Quasi niente”, il deserto interiore nel lirico e nevrotico male di vivere

Quando ci mancano i mezzi per esprimere dei concetti che non siamo effettivamente in grado di codificare a parole, usiamo espressioni come “circa”, “suppergiù”, “quasi”. Erano circa le 7, dal quel momento passò suppergiù una mezz’ora, oggi mi sento quasi meglio di ieri. Sono espressioni che non definiscono del tutto, che lasciano intendere ma anche immaginare, sono il “mezzo” che intendono riempire una vacuità, quella della parola più giusta a definire proprio un’espressione. Partire da questa riflessione permette di addentrarci direttamente in medias res nel progetto di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, il lavoro presentato al Teatro Fabbricone di Prato. Quasi niente foto Luca Del Pia 2 min
Liberamente ispirato al film “Deserto Rosso” di Michelangelo Antonioni, lo spettacolo con Francesca Cutica, Daria Deflorian, Manica Piseddu, Benno Steinegger e Antonio Tagliarini, porta in scena prima di tutto delle coscienze sensibili, ritratto di una crisi personale ma soprattutto intima. In “Quasi niente”, ad essere esaltate, più che le storie dei protagonisti, sono i loro approcci alla vita, più che il mondo, il loro estraniamento da esso, più che i sentimenti, le loro nevrosi al cospetto di una società sorda, distante, incolore. Cinque attori e un palcoscenico “quasi” vuoto; un insieme di toni freddi, in cui a predominare è il colore grigio, simbolo di neutralità, ma anche di prudente attesa, protezione e difesa. I rimandi alla prima pellicola a colori di Antonioni sono evidenti fin da questi dettagli in cui, proprio come nel mondo di Giuliana, la desolazione regna padrona e gli uomini, finché non si mettono a nudo in quel lirico e nevrotico male di vivere, sono come fantasmi avvolti nella nebbia, immobili perché incapaci di cambiare le cose, ma non per questo inetti. Il contrasto cromatico è dato soprattutto da una poltrona rossa, il colore del deserto antonioniano. Si tratta non solo di un elemento di distacco, ma di un “luogo” in cui lo straniamento è concesso, tollerato, spazio in cui è possibile dare libero sfogo alle parole anche se mancano quelle giuste per esprimere i concetti. Ognuno dei cinque personaggi esprime una sfumatura diversa di ciò che -del mondo- è penetrato nella propria psiche, ognuno vive una sofferenza diversa e la esprime in maniera diversa. Lo scontro, perpetuo, tra l’ipersensibilità dei protagonisti e la frivolezza di una realtà distaccata e indifferente, determina l’alienazione delle persone. Non a caso infatti, sul palco ci sono cinque personaggi, ma non c’è alcun dialogo tra loro, sono come tanti monologhi fatti da lunghe attese. L’unico interlocutore che hanno è il pubblico al quale, di tanto in tanto, rivolgono domande o semplici riflessioni circa lo stato delle cose. Lo spettacolo è pervaso dal deserto di Antonioni, ne trae ispirazione e nutrimento; un deserto soprattutto interiore, in cui ad essere disabitate sono le anime dei personaggi che vivono una crisi interiore, proprio come quella di Giuliana. Richiami che tornano nei gesti, nelle espressioni minimali, nella quasi assoluta immobilità dei soggetti che ascoltano chi parla e nella piena libertà di movimento, invece, di chi si mette a nudo. Si determina così, in questo accurato uso dello spazio -e proprio come nel film- un “territorio” a 360° nel quale l’attore può rivolgersi al pubblico senza alcun timore. E se i rimandi al film del 1964 sono comportamentali, cromatici e visivi, non si esclude neanche la memoria dei suoni: con i suoni di quelle fabbriche che tornano, di tanto in tanto, quasi come un riff a ricordarci che forse queste crisi è stata determinata anche dell’industrializzazione che ha cambiato per sempre il rapporto tra uomo e mondo. 
“Quasi niente” fa “quasi” male se si pensa alla sofferenza generata dalla claustrofobica sensazione di chi vive in un mondo a cui resta difficile adattarsi.
Ma “Quasi niente” fa “quasi” bene quando ci rendiamo conto che il grande vuoto morale, il grande deserto interiore che abbiamo, è frutto di una percettibilità che appartiene alla natura umana che ci permette di “sentire” e di essere “sensibili” a qualcosa.

Laura Sciortino 9/11/2018

Foto: Luca Del Pia

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