“Un desiderio di desideri: la malinconia” (Lev Tolstoj)
“La malinconia è il più legittimo tra tutti i toni poetici” (Edgar Allan Poe)
“La malinconia è la felicità di essere triste” (Victor Hugo)
E’ un disperato erotico stomp. Senza l’erotico però. Un contrasto tra lo sconforto di Jeff Buckley, la perdita di Nick Cave, la sconfitta di Tom Waits e il fumetto, parodia dell’iperbolico, clownesco fino alle viscere, vicino a Willy Il Coyote come a Paperino. Nell’incipit, nell’avvio sta il nodo, che non si scioglierà, in quel “Cabaret mistico” che rimane sospeso, e sorpreso, tra il gioco, la battuta scanzonata, e il pensiero, la riflessione. Mondi apparentemente lontani, ma Andrea Kaemmerle ci ha abituato a cospargere petali di idee nascosti sotto le foglie secche autunnali della risata anche spicciola, mai deriva ma fune per raggiungere l’isola che non c’è del ragionamento.
Il suo Sveik sembra uscito da una tavolozza preparatoria di Federico Fellini, ha le movenze scoordinate chapliniane, la fisicità dirompente e cinghialesca di Carlo Monni, lo sguardo liquido come dopo aver ascoltato l’urlo nell’ottone di Chet Baker. Ha l’aria confusionaria da rissa e caos balcanico, decadente e compiaciuto della sua condizione di ultimo, di relitto, di confinato, di abbattuto ed emarginato, klezmer nella concezione dell’esistenza in punta di piedi nel tragico come nel leggiadro. E’ storto e compresso, cattivao e dolcissimo questo suo mascherone variopinto che pare un tucano, uno di quegli uccelli della foresta amazzonica lucenti e colorati, quasi accecanti, che nascondono la violenza del nascondersi tra le grandi foglie per sfuggire agli infiniti predatori. Ultimo tra gli ultimi: “Il mio grado nell’esercito? Ostaggio, in caso di guerra”, sparava il grande Woody.
Con i capelli da spaventapasseri, il cerone da Pierrot, l’occhio da panda e la bocca da Joker, rilassa e incute horror, come il pagliaccio di “It” di Stephen King. Ne ha da raccontare nel suo italiano bislacco, di neologismi dal gusto vagamente slavo. Dice ciò che pensa, pensa ciò che è: “Non facciamo più le primarie, ripartiamo dai soci Coop: chi ha più punti fa il segretario del partito”. Nella sua patchanka eversiva, dove si possono ritrovare da Bregovic ai Gogol Bordello, di bestemmie alla luna, stoccate feroci, risate ora grasse adesso pungenti da far male come un cactus appuntito e velenoso, quest’eroe sfigato, arrogante e tenero, sfrontato e docilmente aggressivo, racconta i fallimenti di un’esistenza, il suo essere bukowskiano senza essere cinico, perduto e malinconico nel suo fare sornione da gorilla che se ne sta come Toro seduto in mezzo alla giungla a sgranocchiare il suo bambù pronto ora alla fuga, ora alla caccia.
Sono “pugni cerebrali” quelli che infligge, come “cerebroleso è la religione che preferisco”. Caravaggiesco con una patina di eterna caduta nel buco nero vorticoso della vita che tutto trangugia, deraglia, infrange, mastica, sputa. “Stanco e perduto” di Vinicio Capossela potrebbe essere la sua ideale colonna sonora: “E ora questa storia sembra un vecchio ritornello, una serenata fatta a una luna traditrice e mi trovo tutto solo qui a cantarla, tutti gli altri sono scappati via, poesie, folletti, pazzi amori persi e diventati nostalgia”.
Visto ad Alberese, Grosseto.
Tommaso Chimenti 06/12/2015