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Il “Pueblo” della periferia di Ascanio Celestini. Tra amare speranze e poesia

Se il “guardone” è colui che spia l’esistenza degli altri spinto dalla smania di sapere quali azioni quest’ultimi intraprendono, cosa fanno e come vivono e se, al contrario, il poeta è quella figura del tutto particolare che si interessa, sì, alla vita degli altri ma solo per immaginarsela, allora Ascanio Celestini rientra perfettamente nella seconda categoria, oggi sempre più povera d’inventiva e alquanto ricca di prevedibile banalità. E noi – persone e spettatori, società e “popolo” – arriviamo come affamati di storie, alla stregua certo di un guardone, prendendo il nostro posto in prima fila e sperando, molto probabilmente nel profondo e senza nemmeno crederci poi tanto, di togliere quella patina patologicamente morbosa d’indiscrezione verso l’altro, uguale e diverso da noi. Tutto questo, il cantore Celestini lo sa bene, sfruttandolo a proprio favore e intrecciando, ancor più finemente in questi anni – da quel “Radio clandestina” (2005), per citare uno tra i suoi più noti e importanti spettacoli – i frammenti delle “vite degli altri” che incontra, scruta, registra, romanza, inventa, racconta, descrive, vive. Perché quale può essere un aspetto del “teatro di narrazione” se non il prendere atto della necessità di riportare nell’oggi la memoria di qualcuno, non quella monoliticamente ferma in un trascorso ieri che sfuma in nulla, ma quella che lega a doppio filo la vita alla morte, il passato al presente, un tempo lineare recuperato e ricomposto degli esseri umani, diremmo di tutti gli esseri umani? Con tale sotteso spirito, Celestini ha presentato, in prima nazionale per Romaeuropa Festival 2017 al Teatro Vittoria di Roma, “Pueblo”, ideale seconda parte di una trilogia iniziata nel 2015 con lo spettacolo “Laika”. L’habitat in cui si muove è sempre quello liminare delle periferie, dei mercati rionali, di quei luoghi dalla forte identità perennemente sconosciuta – più che altro ignorata – ai più, dei marciapiedi bagnati dalla pioggia calpestati da ombre che qui, in questo racconto, prendono consistenza. Così, il solo gesto curioso di spostare la tenda/sipario che occulta, diventa atto consapevole dello svelamento di anime solitarie e ai margini, quella di Violetta che vive con la madre, della vagabonda Domenica la cui esistenza, dal dimenticato tempo, è tutta nel gabbiotto del custode di un supermercato, di Said che “gioca” con la vita tra lavoro e videopoker o ancora di spensierate ragazze di un collegio che subiscono le angherie e i ricatti morali di suore carcerieri di Dio.
Il tempo si comprime e dilata nell’incedere della corporea voce del Nostro che riflette, si ferma e tentenna – tra le spire di una drammaturgia che sembra farsi in quel momento, proprio come seguendo quelle Pueblo2storie di persone viventi – e coinvolge, in virtù della vitalità degli stessi, proprio perché è qualcosa che “è vera”, che accade e a cui noi crediamo. Il linguaggio, l’immaginazione e la delicata forza dell’evocazione di luoghi ed emozioni diventano i migliori ingredienti che informano l’accostamento delle vicende in montaggio alternato, puntellate dai momenti musicali di Gianluca Casadei (alla fisarmonica) che entra ed esce dalla narrazione anche come primo interlocutore/ascoltatore. Forse accusiamo leggermente la lunghezza della performance che, nonostante tutto, possiede la giusta energia per arrivare dritta e risoluta nella sua essenzialità, sottolineando come un singolo evento o incontro – una morte ignorata, un sogno perduto, una fede tradita – sia tanto ordinario quanto eccezionale perché appartiene all’uomo immerso nella quotidianità che trascorre fragile e incerta. Non c’è speranza per questi “personaggi” come per nessuno di noi, non hanno la presunzione di sentirsi al di sopra o meglio degli altri o di credere che qualcosa, un giorno, possa migliorare: sono gentili, semplici, indifesi e provvisori, alzano le palpebre come a togliere un velo per scoprirsi, perché vivono per se stessi e, anche, in rapporto agli altri. È un mondo che esiste, ci dice Celestini, suscitando la domanda urgente per comprendere cosa succede fuori da noi, accanto a noi, in una terra che si allontana sempre più dalla poesia. Riesce a puntare il suo “dito magico” per aiutarci – e aiutarsi – a capire che non è il tempo che fa invecchiare e morire, ma l’insensibilità e l’indifferenza, arrivando, per noi, a vedere quella spontanea Umanità che, però, alla fine e purtroppo, lascia in bocca il sapore amaro di un cappuccino decaffeinato.

Marco La Placa 5-11-2017

Foto @PieroTauro

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