FIRENZE - “Ma io non voglio andare in mezzo ai matti” protestò Alice.
“Oh, non puoi evitarlo” disse il gatto “Qui tutti sono matti. Io sono matto. Tu sei matta” (Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie).
“Promenade de santè”, a dispetto della sua traduzione dal francese, non è una passeggiata di salute. E' una passeggiata dentro la salute, e la malattia, è un percorso di avvicinamento alla salvezza, è un cammino dentro se stessi per conoscersi, smetterla di combattersi, e aiutarsi, collaborando con i demoni, con i fantasmi e le voci di dentro che fanno rumore, che ci portano lontano dal nostro centro di gravità permanente. La regia di Giuseppe Piccioni (prod. Marche Teatro), ovviamente e inevitabilmente cinematografica (ha firmato, tra gli altri, “Cuori al verde” e “Il rosso e il blu”) va a doppio binario tra la scena, due panchine in un parco, e il fondale-video che alimenta, aumenta, disincaglia, snoda, argomenta, aggiunge, dipana la storia che i due protagonisti sciorinano in un'altalena di up & down umorali.
Filippo Timi, sempre maestoso, burbero nel suo giocare con il ruolo del “maschio”, e Lucia Mascino, impeccabile nel doppio registro di alterata struggente come di tranquilla infusa di una dolcezza disarmante che non puoi non aver voglia di proteggere e di difendere, esplodono in una grande affinità, una vicinanza terrena d'amorosi sensi, una relazione pericolosa che deflagra senza posa, che non trova compromessi, che non può essere vissuta e allo stesso tempo è impossibile dal non diventare mani, bocche, abbracci, tempo condiviso per annusarsi, mordersi, respingersi, riprendersi, allontanarsi nuovamente. “Né con te né senza di te” direbbe la signora della porta accanto.
E' una via crucis, o una via dolorosa, quella fatta di step e di stazioni, di scene e di quadri, con il Tempo unico censore e taglieggiatore che scandisce e seziona, che giustifica e toglie, che pulisce e recupera, che scarnifica e salva. Il fondale è di un rosso vivido che ci apre la strada della sofferenza, che ci spalanca le porte della stanza del tormento, di non essere creduti né compresi. Sono entrambi in una clinica ma a noi è concesso soltanto di vederli nello spazio condiviso del giardino, del parco dove poter passeggiare con i propri nemici interiori che sbraitano, che mugugnano, che ululano. Lui è ricoverato per varie dipendenze, dall'alcool, dalle droghe, dal sesso, è narcisista con manie suicide, bipolare ossessivo, erotomane possessivo, lei è maniaco depressiva ninfomane e mitomane. Questa è la buccia, la scorza, il viaggio nella mente della paziente, la visione nella quale possiamo far breccia sono i suoi neuroni, le sue sinapsi che confliggono e friggono, che cozzano e collidono. Qual è la realtà? Ciò che vediamo o ciò che intimamente sentiamo?
Assistiamo, inermi e impotenti, al moto e al movimento di questa paziente nell'intento di scalare l'Everest delle sue paure, il K2 delle sue angosce, affrontarle, identificarle, dare un nome ai suoi mostri che le si affacciano da sotto il letto. Un viaggio per digerire la propria condizione, per cercare antidoti e vaccini, per stopparla e calmierarla, per trovare le contromosse e tentare (nell'impossibilità di eliminarla) almeno di conviverci più o meno pacificamente.
Potrebbero essere l'uno lo specchio dell'altro, il riflesso catartico per mostrarsi e finalmente vedersi fragili e delicati, frangibili e quindi scalfibili. Il primo passo per volersi bene, per amarsi è quello di affrontarsi, di mettere sul piatto i disastri e i fallimenti, senza giudizio, analizzarli, razionalizzarli, renderli tangibili invece che fumosi e misteriosi. La narrazione (il testo, lievemente pirandelliano, è del francese Nicolas Bedos, per la traduzione di Monica Capuani) infatti ha lo svolgimento di un noir, sospeso, tagliente, fibroso, ci porta sulle montagne russe della patologia di chi è vittima di se stesso e solo dopo un lungo esercizio di esame e indagine interiore riesce a decriptare e decodificare i propri diavoli, a dargli un nome, che è il primo passo per abbatterli, sfaldarli, incenerirli. Il pubblico ride (in un Teatro Niccolini fiorentino, interessantissima la sua stagione d'apertura firmata da Roberto Toni, finalmente pieno, anche se è lunedì, finalmente nel felice orario delle 19:30) anche se il plot fa stringere in cerca di calore come ci suggerisce Nick Cave con la sua spasmodica “Into my arms” che è un lupo angelico che strappa brandelli di carne, che è una iena gentile che sbava sulla nostra carcassa. Bisogna toccare il fondo per darsi la spinta per risalire in superficie. Una grande coppia sulla scena, sensibili, veri, tattili, vicini.
“Anche la follia merita i suoi applausi” ci suggerisce Alda Merini.
Tommaso Chimenti 19/10/2021
Foto: Laila Pozzo