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Progetto "Cechov": Dio è morto sulla strada maestra dell'allievo regista Andrea Lucchetta. L'umanità che, tra riso e dolore, cerca riscatto

Se non fosse per le cappelline dove un tempo erano custodite le statue dei santi e altri elementi decorativi che ancora ricordano la Chiesa dei Santi Giuseppe e Orsola, oggi diventato il Teatro Studio Eleonora Duse dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica Silvio d'Amico, sembrerebbe di trovarsi davvero nella piccola bettola “sulla strada maestra”, dove lo scrittore e drammaturgo Anton Cechov ambienta questo suo atto unico.
Infatti, l’allievo regista Andrea Lucchetta decide di coinvolgere direttamente gli spettatori che, all’ingresso, si trovano in un’unica sala con tavoli, sgabelli e un bancone: nessun palco o comoda poltrona a dividere il pubblico dagli attori protagonisti, la cosiddetta convenzione della finzione non si percepisce, tutti diventano fortuiti ospiti della locanda.
L’atmosfera è completata dal sapiente gioco di luci e ombre che accompagna dall’inizio alla fine la vicenda: ed è proprio mentre il pubblico si acclimata all’ambiente e cerca di capire cosa succederà, guardandosi intorno, che sbucano all’ingresso Tichon, il taccagno proprietario della bettola (Vincenzo Grassi), Savva, un vecchio pellegrino (Marco Fanizzi), accompagnato da Nazarovna ed Efimovna, due furbe pellegrine approfittatrici (Adele Cammarata e Elena Orsini Baroni), Fedja, un allegro e pungente operaio di passaggio (Andrea Dante Benazzo), Egor Merik, un viandante pieno di sé (Angelo Galdi), Kuz’ma, pettegola cliente della bettola (Anna Bisciari) e, infine, un simpatico postiglione e cocchiere, forse un po’ stanco delle sue mansioni (Johannes Wirix-Speetjens).
Tutti questi “tipi” invadono lo spazio e iniziano, al centro della sala, una sorta di danza in cui si studiano alla luce delle lanterne, osservandosi e osservando a loro volta gli altri pellegrini/spettatori, fino a che questa reciproca conoscenza non diventa quasi un gioco a esclusione, rimangono solo i personaggi della prima scena.
Due di loro, tuttavia, sono già presenti sin dall’inizio, collocati in due angoli opposti della sala: Borcov, un disperato possidente andato in rovina per amore e per l’alcol (Ciro Borrelli) e l’oggetto della sua disperazione, la bella Mar’ja (Anastasia Doaga), che è anche la misteriosa “voce da un angolo” presente nel testo di Cechov, che di tanto in tanto interviene nei discorsi dei pellegrini.
E’ proprio intorno alla figura del povero Borcov che l’attenzione di tutti i protagonisti si concentra: quando egli, disperato, decide di vendere un prezioso monile con l’immagine della sua amata per pagarsi un bicchiere di vodka, attirando la curiosità di tutti, ma soprattutto dopo che Kuz’ma, sua ex dipendente, sostenuta da bicchierini di madera, racconta della triste vicenda amorosa che l’ha condotto al lastrico.
E’ allora che i vari personaggi sembrano mettere da parte le loro vicende personali e farsi carico di quella povera anima, tant’è che alla fine, quando nella bettola arriva proprio quella Mar’ja, che chiede ospitalità a causa di un guasto alla sua carrozza, tutti ne riconoscono la figura nel monile e non le lasciano scampo, mentre Borcov, delirante, grida il suo nome stringendo a sé l’immagine della donna.
La regia di Andrea Lucchetta mantiene fede al testo cechoviano, in cui sono ritratti personaggi e situazioni vere, di una vita quotidiana, forse sofferta, in cui uomini e donne sono soli, alla ricerca di una verità, di un posto nel mondo e, anche se ognuno sembra pensare a sé, anche se, come dice Borcov “questa è gente senza cuore” e Dio, che può essere carità, attenzione, un semplice gesto, sembra essere davvero “morto sulla strada maestra” della vita, ecco che l’umanità torna a mostrarsi nel suo slancio vitale e la sofferenza di uno diventa quella di tutti, l’altro diventa io.
C’è intensità, quindi, nella messa in scena, ma il regista e la drammaturga Giulia Bartolini, reinterpretano il testo originale con sprazzi di vivace ironia, che pure appartiene allo spirito cechoviano, inserendo originali e moderne citazioni del “Diavolo in me” di Zucchero Fornaciari, laddove spesso nel copione sono evocati, per saggezza popolare, proprio il diavolo e Dio.
E l’incipit di quella canzone, “gloria nell’alto dei cieli, ma non c’è pace quaggiù”, sembra proprio essere una perfetta sintesi di questa vicenda umana in una provincia della misteriosa Russia, che un cast giovane e sicuramente promettente, ha reso unica e brillante.

Noemi Riccitelli, 26/02/2019

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