CASTROVILLARI – Sembra che in questi ultimi vent'anni poco o niente si sia mosso a Castrovillari. Le scritte stinte e stanche sono al loro posto, nessuno ha tinteggiato nuovamente il muro o la facciata del palazzo, nessun altro ragazzo ha vergato frasi inneggianti ai successi recenti, limpidi o meno, della Juventus. Tutto pare fermo, cristallizzato, immobile. Cambiano soltanto i necrologi e i manifesti elettorali. Le cose inevitabili. Le stesse buche, le stesse crepe, gli stessi marciapiedi rialzati dalle radici degli alberi. Che niente cambi. Neanche gattopardesco. Nessun scossone, nessun stravolgimento. Le solite fontane secche, i giardinetti aridi e incolori, spogli, sdruciti, sciupati, ricoperti delle carte che svolazzano e di quella sporcizia quotidiana della quale nessuno si preoccupa, c'è, c'è stata e ci sarà, ormai fa parte del panorama. Neanche i cani ci vanno più a marchiare il territorio. Grossi cani infreddoliti che si trascinano in cerca di un riparo, di un pezzo di pane. Nessuno si cura neanche di loro. Abbondano invece negozi d'abbigliamento che si alternano con i bar. E te li figuri gli abitanti del comune calabrese sotto il Pollino sfoggianti sempre nuovi vestiti e una tazzina in mano, neanche fossimo a Napoli. Sui camion della frutta e verdura spuntano adesivi di Madonne che hanno visto giorni migliori e che hanno perso i loro colori per la pioggia e il tempo, a terra peperoncini caduti nel giorno di mercato.
Resiste la scritta più iconica (e laconica) del centro cittadino, nel “salotto buono” sotto una panchina di marmo vicino al municipio, con lo spray blu, che ormai ha perso la sua forza: “Tu sei solo mia”. Messaggio d'amore giovanile, lievemente machista ma perdonabile perché sicuramente adolescenziale. Qualcuno, però, in fondo all'aggettivo possessivo ci ha aggiunto una O, cambiandone il significato, parodiandolo, modificandolo, certamente smitizzandolo e migliorandolo. Impossibile ogni anno non fotografarla: “Tu sei solo miao”, a metà strada dall'essere gatta e quel “Sei tutto chiacchiere e distintivo” de “Gli Intoccabili”, di stampo poliziottesco-mafioso: sei un miagolio e basta, nemmeno abbai, figuriamoci se puoi mordere, al massimo graffiare. Si aggira anche il solito “disagiato del villaggio” con le sue gag sgangherate, con le sue piccole manie e molestie modeste alle quali nemmeno lui crede più quasi dovesse assolvere un copione: la richiesta di spiccioli, di sigarette, elemosinare un caffè insistentemente fino ad essere cacciato in malo modo fino al prossimo bar, in loop nel suo girone dantesco. L'unica cosa che in questi venti anni è cambiata è Scena Verticale, la compagnia teatrale diretta dalla Triade Dario De Luca, Saverio La Ruina e Settimio Pisano, che a fine anni '90 ha ideato, progettato e poi fatto crescere e arricchito di edizione in edizione, il festival “Primavera dei Teatri”, punto di riferimento non regionale ma nazionale, e non da oggi. In questi lustri si è tarata verso l'alto l'organizzazione, la scelta, l'occhio critico, il ventaglio di possibilità di una rassegna fiore all'occhiello che forse, ancora, le amministrazioni che si sono succedute a Castrovillari non hanno compreso a pieno il peso artistico e il valore “politico”, nella sua accezione più alta, abbia avuto e continui ad avere a livello italiano.
Primavera si è evoluta anche se Castrovillari (quest'anno protagonista di una delle prime tappe del Giro d'Italia, la sesta, fino a Matera) sembra almeno in apparenza non aver assorbito la lezione, lasciandosi scivolare addosso un festival che si svolge in un triangolo cittadino eccezionale composto dal Castello Aragonese, il Protoconvento bianco candido, dove si svolgono principalmente gli spettacoli, e l'Osteria della Torre Infame (con Nicola, burbero ma generoso, supportato da Pasquale, ruvido ma sempre disponibile) che sfama gli ospiti con la sua celebre Fuoco di Bacco, spaghetti piccanti risottati cotti nel vino, una delle chiavi del festival. Triangolo che però risulta un'isola felice ma sempre isola rimane, lontana dal centro; non certo periferico ma appare più una parentesi in fondo alla strada principale che in discesa arriva fino allo snodo prima di scegliere se addentrarsi verso la cultura o risalire e attraversare con lo sguardo altri negozi con i loro mirabili sconti e nuovi bar. Negli scorsi anni, con l'apertura del Teatro Vittoria nella centrale via Roma, quella dello struscio, si voleva, e ci erano riusciti, ovviare a questa esclusione di “Primavera” dalla vita sociale del paese, e che invece, quest'anno, causa Covid, non è stato possibile riaprire.
Basta constatare il gusto nel confezionare, anno dopo anno, le locandine che identificano, disegnano e incorniciano il festival: uno spot, un lancio, una fiamma, un flash di colori e significati sempre incisivi, sempre attuali e contemporanei, sempre sul pezzo. Quest'anno (il festival dal consueto fine maggio è stato spostato per la pandemia a ottobre, dall'8 al 14) raffigura una porta che si apre sul domani e una ragazza dai tratti afro che prende per mano, quasi per condurla in un'altra dimensione, in un nuovo mondo dai colori più tenui rispetto al viola della stanza in primo piano (come non pensare a Gino Paoli?), una ragazza biondissima, nordica. Due mondi che si toccano, due mondi non più così lontani innestati nell'universo femminile. In quelle due mani strette c'è fiducia, affidarsi, complicità. “Primavera” è sempre stata avanti, oltre le mode, senza il bisogno di cavalcare le onde facili del momento ma spostando l'asticella di volta in volta, stimolando il dibattito.
Anche in questa ventunesima edizione tante proposte (tre al giorno e poi incontri e presentazioni, conferenze e convegni, laboratori e mostre) dove il fil rouge era la luce. Partiamo proprio da quello che il direttore De Luca ha definito un “festival nel festival”: il videomapping del Maestro Giancarlo Cauteruccio. Se l'appellativo Maestro è stato abusato e scialacquato, appena ti soffermi davanti a queste idee concettuali del regista calabro-fiorentino, ne senti tutto il peso, la forma, l'importanza, la cadenza. Il fondatore della compagnia Krypton (ci mancano, come ci manca il loro spazio innovativo nell'hinterland fiorentino, il Teatro Studio di Scandicci) ha scelto cinque luoghi simbolo della cittadina in provincia di Cosenza equidistante trenta chilometri dal Tirreno come altrettanti dallo Ionio: il Municipio, la Cattedrale, il Castello, Palazzo Cappelli (al cui interno purtroppo hanno permesso l'apertura di una pizzeria a taglio) e l'Ospedale. Il titolo già scandaglia e scalfisce: “Alla luce dei fatti. Fatti di luce”. Un'idea che, per una settimana, ha ravvivato, vivacizzato, fatto esplodere di senso e colori, questi cinque punti cardinali della città, da starne davanti ed esserne travolti, trasportati, da vedere e rivedere ogni sera, sempre uguali eppure sempre con sfumature e particolari nascosti e celati oppure trascurati alla prima fugace visione. Apparizioni, epifanie. Esperienza assolutamente da ripetere ed esperimento che ha dato un tocco magistrale, d'autore, una firma, soprattutto le proiezioni sul Castello che diventava così agorà e foyer allargato di un ideale gigantesco teatro, piazza dove scambiarsi e incontrarsi accanto a queste luci che trasformavano un parcheggio scialbo in un'opera d'arte potente in continuo divenire e tramutarsi, un'araba Fenice che risorgeva con nuove luci dalle ceneri delle precedenti: poderoso, irradiante, da naso all'insù. Mai più senza.
La luce che Cauteruccio ha spruzzato sulle mura antiche, i Mammut Teatro l'hanno direzionata per andare a fondo e analizzare l'oggetto materia umana nel loro “Corpo/Arena”, prima trance di un trittico scritto dall'autrice portoghese Joana Bertholo, progetto all'interno di Europe Connection. Cibo, Insonnia e Vecchiaia, i tre stadi umani studiati. Per la regia pulita e netta, senza essere didascalica, ma precisa e sottolineante, senza sovrabbondanza, di Gianluca Vetromilo, tre personaggi con tute acetate, quelle che servono per dimagrire, e lucide come quelle degli astronauti, sono ingabbiati e intrappolati dentro un garage in un'attesa beckettiana spasmodica attendendo il loro cibo ordinato con lo smartphone. Si ingozzano e non sanno neanche il perché: perché così è stato e non sanno, non riescono, non vogliono cambiare prospettiva alla loro esistenza che appare segnata sui binari della non-scelta. La digressione sul cibo da fisica e materiale si fa metaforica, disegnandoci dei pazienti più che degli accaniti consumatori buongustai, dei degenti più che selezionati gourmet. Sono dipendenti ma non se ne sono mai resi conto; è proprio in questa assenza, in questa mancanza prolungata (potremmo trovarci un parallelismo delle nostre vite durante il lockdown impostoci) prendono coscienza delle proprie possibilità e che quello che credono di volere, il cibo in ogni sua forma, altro non è che un tranquillante soporifero che li acquieta, li stordisce, non gli permette di protestare, di cercare la propria felicità perché istupiditi, intontiti, confusi, immobilizzati da jungle food e troppa tv. Sono (siamo?) Vite al Limite: “Non siamo grassi perché divoriamo il mondo ma è il mondo che divora noi”. Sapiente uso delle luci che tagliano, squadrano, zoomano.
Luce, ancora luce, sempre luce. Non c'è luce più abbagliante di quella in fondo al tunnel, la luce celestiale del post, l'Aldilà. Senza pesantezze né eccessiva enfasi o pathos patinato, anzi con naturalezza e quella leggerezza che riesce ancora meglio a trascinare e a far passare le emozioni, quelle più eteree e impalpabili, quelle che teniamo nascoste, Maurizio Aloisio Rippa è riuscito a costruire un perfetto equilibrio tra le arie, da lui cantate meravigliosamente accompagnato dalla chitarra di Amedeo Monda, e le parole, musica e narrazione. Sono piccoli momenti di vita (e necessariamente anche di morte), piccoli estratti che sembrano ininfluenti, minimali, spiccioli, vite quotidiane, “normali”, che non lasceranno il segno se non nei pochi con le quali sono entrati in contatto. E un'anima non muore mai se viene ricordata e “riportata in vita” dalla memoria di coloro che restano. Sono “Piccoli Funerali” (ha vinto i Teatri del Sacro) elegie cantate in questa Spoon River dove Rippa (visto, e sempre ad altissimi livelli, con Latella come con Punzo) si apre, si scioglie, tra ricordi autobiografici e una scrittura semplice, diretta che non cerca giri di parole, piccoli lampi (a proposito di piccolo, ci ha ricordato i due pamphlet “Momenti di trascurabile (in)felicità” di Francesco Piccolo) che vanno a ritroso a cercare queste esistenze che sono sparite nel dimenticatoio, che non hanno fatto la Storia ma che sono state ugualmente importanti. Siamo nel chiostro bianco di Morano dove il clima freddo fa conflitto con il calore dei racconti di Rippa che danno brividi, commozione, lacrime che bagnano mascherine. Una canzone fa da specchio ad un suo ricordo in un dialogo continuo e la platea si trova naufraga sempre più imbrigliata, piacevolmente e con strazio, nella nostalgia della memoria personale, nel ripensare ai propri cari, alla propria famiglia, al proprio passato, le manchevolezze, le parole non dette e quelle che non potrà mai più dire a qualcuno che se n'è già andato. Non è uno spettacolo, o per lo meno non è un semplice spettacolo, non è un recital, ma è un aprirsi a cuore aperto e il pubblico ha fiducia e si mette nelle mani di questo sciamano che rievoca le figure universali che ci accomunano tutti toccandoci, un Rippa (una voce dolorosa a tratti come il frontman di Antony and the Johnsons, fluttuante e flautata come una grappa morbida senza essere soft, tra Tony Hadley e George Michael) in stato di grazia, phisique du role da sacerdote ortodosso che rende questo teatro cantato o questo concerto teatrale una serie di epitaffi che ci sconquassano di lacrime e ci lasciano una patina strana addosso miscuglio tra malinconia e quel senso di impotenza nei confronti del Cosmo, della Natura, del misterioso Creato.
Canta in spagnolo (“Alfonsina y el mar” da Mercedes Sosa), in inglese (“Oh, Danny Boy” o “Over the rainbow”), in napoletano (“Casa sulitaria” di Murolo), ci fa sognare e tremare, commuovere e ci riporta bambini quando tutto era possibile, quando il mondo dei grandi era lì per proteggerci, quei grandi che adesso se ne stanno andando. Non si ride mai ma si sorride, di noi soprattutto, delle nostre minime esistenze, di quanto ci prendiamo sul serio, di quanto tutto potrebbe essere più semplice e spensierato se non avessimo sempre il coltello tra i denti e la sensazione di essere invincibili e soprattutto immortali. Siamo fragili ed è inutile nasconderci, siamo di passaggio, non dobbiamo piangere, stiamo soltanto dirigendoci verso un altro viaggio. Nell'ultima scena, quasi una consegna dell'ostia, del perdono o di una assoluzione, in fila andiamo richiamati dal nostro Pifferaio Magico e in quell'attimo di pura, vera, sincera condivisione, nello sguardo tra il performer e ogni persona del pubblico, lì, proprio lì, non esiste più il teatro ma la vita, l'esperienza di stare nello stesso luogo con ogni centimetro del proprio corpo: un insieme di gratitudine. L'onda lunga di “Piccoli funerali” si propaga nel tempo, non finisce con la fine dello spettacolo. Anzi, sorridete perché la fine non è mai la fine, ci dice Rippa, la fine non è una tragedia.
L'auspicio è che Castrovillari diventi ad immagine e somiglianza di “Primavera dei Teatri”, la speranza è che, prima o poi, nel prossimo ventennio, il virus della “Primavera” (non araba ma calabrese) colpisca, attacchi e intacchi, contagi anche il territorio; sarebbe davvero una rivoluzione copernicana.
Tommaso Chimenti
15.10.2020