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Pranzo in silenzio: mangiare senza parole è mistico e introspettivo

TORINO – C'era una volta il “Pranzo è Servito”. La mensa, il desco, l'aggiungi un posto a tavola, lo stare tutti riuniti attorno ad un focolare, il calore del passarsi e condividere le pietanze, il vino nei calici che abbatte le differenze e democraticamente livella i commensali. Lo stare a tavola, e questo ben lo sanno i popoli mediterranei ma anche quelli del mondo arabo o africano, è sinonimo di conoscenza, di scambio, di vicinanza, di unione. A tavola si parla, ci si guarda, si ride: i piatti sono più gustosi se la compagnia è felice, se è allegra: “Riempirò i bicchieri del mio vino, non so com'è però vi invito a berlo”, diceva a muso duro Pierangelo Bertoli. 20190929_PWF8_pranzoinsilenzio_foto_elisafigoli_107.jpgAbbiamo dentro di noi l'immaginario di tavole dove schioccano i bicchieri, dove si parla (mai a bocca aperta) e si comunica, con il cibo, grazie al cibo: da “L'ultima cena” leonardiana a “La tavola imbandita” di Matisse, da “La colazione dei canottieri” di Renoir a “Colazione in giardino” o “Colazione a Posillipo” di Giuseppe De Nittis, da “Le nozze di Cana” del Veronese alla “Cena in Emmaus” di Caravaggio, da “I mangiatori di patate” di Vincent Van Gogh, da “I Mangiatori di ricotta” o “I Mangiatori di fagioli” di Vincenzo Campi, o ancora Veronese con “Cena in casa di Levi”. E' il banchettare, è il motto “In vino veritas”.

Qui invece tutto sarà ribaltato, smontato, rivoluzionato per uno straniante “Pranzo in silenzio” ideato e concepito da Fabio Castello. Non è soltanto in silenzio, ma è anche un Pranzo nel silenzio e ancora un Pranzo di silenzio. Pochi i partecipanti per questa performance immersiva, una ventina di commensali come monaci in un monastero. Vengono immediatamente in mente le Ariette oppure alcuni spettacolo dei Cuocolo/Bosetti. Stare in silenzio mentre si è a tavola è il contrario dell'abbattimento delle barriere, delle vivande che uniscono attizzando i sensi, del palato che avvicina. Se la parola è scambio, qui ci è negata, è questa la sfida in un tempo dove il rumore di fondo delle città riempie, assorbe, copre, ammanta i nostri stessi pensieri: le musiche che escono dai telefoni, comprese le suonerie, dai bar, dalle macchine, le televisioni accese, le radio che fremono, i video che impazziscono. Togliendo l'uso della parola si esaltano gli altri sensi. Non siamo abituati a stare muti come pesci. Il (proprio) silenzio ci costringe ad acuire la vista, l'ascolto, ad essere più vigili, stare con le antenne dritte verso l'intorno che si muove. Il silenzio personale imbevuto nel silenzio collettivo degli altri, e imposto come regola accettata, si fa intimo, diventa ricerca immateriale, godimento del tempo interiore.

Se all'inizio cala l'imbarazzo, download.jpgil non sapere dove posare gli occhi, il sentirsi inadatti e inadeguati, dopo scatta la riflessione, la calma, la pace. Non c'è nessuna tv a farci sobbalzare di zapping, nessun telefono da dover controllare di inutili notifiche, né urla né strepiti. E' lo slow che scardina la cassaforte dei nostri tempi aridi e acidi e rancidi. Qui c'è un silenzio sensato e non parole senza senso. “Il silenzio è una discussione portata avanti con altri mezzi”, sosteneva Che Guevara. E “Il silenzio descrive l'inesprimibile”, aggiungeva Huxley. E “Ogni parola ha conseguenze. Ogni silenzio anche”, incitava Sartre. “Le parole più belle sono spesso quelle non dette, quelle che naufragano nel silenzio” faceva eco Keats. Il silenzio non è un vuoto da colmare ad ogni costo. Il silenzio ci fa paura, ci mette a disagio perché non riusciamo a tirare fuori il nostro egocentrismo, la nostra personalità, non possiamo dire a chi abbiamo di fronte la nostra opinione (non richiesta) sul mondo.

Questa quiete non era soltanto assenza di parole ma era solennità formale, cerimoniale misterioso, movimenti graduali, quasi coreografati, i rumori ridotti al minimo, i passi leggeri, le suole religiose a sondare il pavimento: non si corre, non ci sono chiacchiere (né inutili né di circostanza) qui ci si ascolta, dentro la cassa toracica come fuori dai nostri confini terreni e materiali. Il silenzio fuori amplifica i suoni del corpo e quelli della mente. Tutto è misura, è calmierato, centellinato, un rito laico di adesione e complicità. Mischiare i silenzi è un'attività potente, rivoluzionaria, gesto eroico contro l'inquinamento uditivo al quale siamo sottoposti quotidianamente. Anche sbattere inavvertitamente le posate tagliando il cibo nel piatto sembra sacrilego, sembra rompere un incantesimo. Per ogni postazione a ferro di cavallo è apparecchiato per una persona in Pranzo-in-Silenzio-Foto-Sandro-Carnino.pngpiù: sarà il nostro accompagnatore in questo viaggio-processo, il nostro Caronte purificatore. Cala una patina di gentilezza su ogni mano, su ogni cosa inanimata. I sensi sono ricettivi all'ascolto, le pupille attente, l'orecchio accorto, gli occhi vagano alla ricerca del particolare, dell'attimo; aspettiamo, ci guardiamo. Il bello è che non succede niente. O almeno, niente di clamoroso, niente di eclatante. “No surprises”, diceva Thom Yorke. Gli sguardi spauriti si cercano, interdetti. Lentamente l'imbarazzo iniziale scema, scivola via come olio sull'acqua. Da piccoli giocavamo al gioco del silenzio. L'esperienza si fa mistica, romantica, corale, intellettuale, morale, rispettosa, sincera, aperta: praticamente un abbraccio rilassante, accogliente, una preghiera discreta, schiva, cortese. Il silenzio adesso è corposo, si è fatto strato solido e adulto, nel cielo si sente alto un aereo che non sa della nostra esistenza, uno sbattere di ali di piccione su qualche tetto nelle vicinanze. Un momento di sospensione prezioso, da portarsi a casa come un dono commovente.

Tommaso Chimenti 31/05/2022

foto: Sandro Carnino

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