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Il Platonov del Mulino di Amleto: l'eterno stallo sfarinato della verità

MILANO – Dentro il “Platonov”, testo cechoviano pubblicato postumo, albergano, sognano e sospirano (forse cospirano pure) gli embrioni, i gemiti, i feti in potenza che diventeranno i quattro grandi testi dell'autore russo. Scelta complessa ridurlo per la scena, scelta complicata e sfida accettata da Il Mulino di Amleto (nome evocativo che richiama sia quelli a vento donchisciotteschi cervantesiani sia il Bardo; una leggenda, con pochi fondamenti pratici, ci racconta che il drammaturgo di Alcalà e quello di Stratford-upon-Avon potrebbero essere stati in realtà una sola persona: idee campate in aria alle quali è bello talvolta credere), giovane gruppo torinese che si sta imponendo e mettendo in mostra con questo spirito fresco di affrontare i classici e ribaltarli, rivoluzionarli, farne materia viva, pulsante che parli all'oggi.Platonov_Il Mulino di Amleto_Manuela Giusto (5).jpg

Platonov è quest'uomo insoddisfatto, tarlato, corroso da ciò che avrebbe potuto essere e fare (il sottotitolo è emblematico: “Un modo come un altro per dire che la felicità è altrove”), immerso nelle sabbie mobili del tempo che da una parte sfugge dall'altro passa lento e denso come alluvione di fango portandosi dietro e dentro tutto e non restituendo nemmeno i cadaveri. Un tempo passato che non fa prigionieri, che tutto ingloba, morde e inghiotte riducendo a strati di melassa amara fatti, volti, accadimenti, amori, sorrisi, il tutto liquefatto, abbrutito e fertilizzato nella vodka che mai assopisce ma esalta i malumori, fa esplodere la tristezza, fa emergere, come un sub al largo lontano dalla sua boa, tutto il nero che se ne sta appollaiato dentro ognuno di noi imbrattando di pece ogni cosa circostante, a macchia d'olio smembra e insozza, infanga e lorda. Il Mulino con i suoi attori qui è stato mixato con due colonne delle ultime produzioni Elsinor, Stefano Braschi e soprattutto Michele Sinisi. Diciamo soprattutto perché, specialmente nella seconda parte, l'attore e regista pugliese prende il sopravvento sulla scena e diventa fulcro e perno emarginando nell'ombra le altre figure.

Platonov_Il Mulino di Amleto_PH Manuela Giusto (5).jpgSinisi-Platonov al centro come un atomo e gli elettroni che lo cercano, governati dalle forze contrastanti di attrazione e repulsione, amore e schifo, si avvicinano e se ne allontanano, sono irrimediabilmente affascinati e ne sentono ribrezzo, ma non ne possono fare a meno. Platonov (prod Elsinor, Tpe, Festival delle Colline torinesi, debutto al Sala Fontana milanese) è allo stesso tempo Pinocchio e Lucignolo cosparso di quel dongiovannismo che non è manierato né ricerca della vanità quanto fragilità maschile, desiderio e verità. Ecco, il peggior difetto di Platonov è sentire la verità e provarla sulla propria pelle, non avere remore nel lasciarsi e lanciarsi al trasporto, non pensare alle conseguenze. Non è un calcolatore, è per questo che è un perdente, non ha secondi fini ma bisogni primari, amare, essere amato, sentire attorno a sé possibilità e opportunità per salvarsi, in un continuo, fallace, fallimentare, tentativo di sviare la morte.

All'entrata, strappandoti il biglietto, ci aggiungono il felice carico di un bicchierino di vodka (la Absolut sponsor dell'operazione) che riscalda e ci fa entrare, a piedi uniti, nel clima russo e alterato, eccessivo e alcolico, di questa sorta di Ultima cena tra le montagne russe dove ora si sale negli abbracci adesso, in maniera fulminea, si scende nell'abisso dell'odio viscerale, ora ci si impenna nei baci che poi, presto, si trasformano, in lacrime salate e acide. Tutti gli attori sono in scena, se ne stanno in panchina aspettando il loro turno d'azione. Tutto è in vista, fuori, alla luce delPlatonov_Il Mulino di Amleto_PH. Manuela Giusto (4).jpg sole come i sentimenti che non riescono a trattenere e che scorgano come alcool, zampillano come petrolio, tracimano come olio bollente. Se il regista Marco Lorenzi sembra prenderci gusto con l'iperbole e con gli effetti, con la ricerca del “contemporaneo” a tutti i costi, con i quadri enfatici e con alcune costruzioni forzate (eccessivamente ironico “Il Gabbiano” sparato; in alcune scene si nota un sottile autocompiacimento), possiamo dire però che la scena con la vetrata che rotea, spinta da un Sinisi macho (in canottiera ci ricordava il Marlon Brando in “Un tram che si chiama desiderio”) e dai chiaroscuri muscolosi, come un derviscio rotante impazzito, movimento che crea un'onda cromatica di una forza empatica, vortice, ma soprattutto turbinio e buco nero (alla Anish Kapoor), tromba d'aria che trancia, pota e deflagra tutto quello incontra sul proprio cammino.

Platonov Il Mulino di Amleto ph.Manuela Giusto 5L'uso del microfono e della voce fuori campo per spiegare i tagli al testo e le note di regia, con un piede dentro la scena da personaggi e un altro fuori da attori, rende più faticoso lo scorrimento, fa perdere concentrazione e affievolisce il pathos. A compensare ci pensa Sinisi che è un mostro attoriale confortante con presenza elettiva, capacità solide, sostanza, pienezza che tiene, lo stesso possiamo dire delle tre “amate” da Platonov, tre attrici diverse e ugualmente entranti, d'impatto a rompere il velo dell'indifferenza (tra queste sottolineiamo Barbara Mazzi, fuoco lavico e delicatezza soffice): tre diversi amori ma trattati alla stessa maniera, con la sincerità di una fuga possibile, di un cambiamento che mai avverrà, ma amate dal protagonista proprio per il loro bagaglio in potenza di futuro, per la loro sporta di domani che si portano appresso. Il plot ha momenti di stallo per poi esplodere a ritmi vertiginosi. Un po' di sottrazione renderebbe il dolore più stringente e acuto, nel complesso, però, la difficile sfida ha colto nel segno. Con il colpo di pistola o meno.

Tommaso Chimenti 09/11/2018

Foto: Manuela Giusto

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