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La famiglia ti frustra solo "Per il tuo bene"

MODENA – “La prima metà della nostra vita è rovinata dai genitori, la seconda metà dai figli”, (Clarence Darrow). Lasciamo da parte Tolstoj e l'originalità delle famiglie infelici. Dalla famiglia tutto nasce, tutto torna, niente si distrugge ma tutto si trasforma. E' un nucleo, un atomo che si dissolve fino a formarne altri, una massa fatta per alimentarsi, crescere fino a scoppiare come un follicolo per diventare nuovamente terreno fertile e potenzialmente esplosivo. Ma la famiglia è anche quelle mura chiuse, quell'alveolo gestito da dinamiche uniche, di relazioni incastonate in regole restrittive non scritte. La famiglia è un ricatto affettivo continuo a circuito chiuso, è la tesi che sboccia in questo “Per il tuo bene” di Pier Lorenzo Pisano (ho scoperto un grande autore, così giovane, 27 anni, e già vincitore del Premio Solinas, Hystrio e Riccione) dove l'ironia tragica sta in equilibrio alla compostezza, alla formalità, a quel rancore mai affrontato e che, una volta marcito e fattosi metastasi, non può altro che, purulentemente, trasformarsi in astio, distanze inarrivabili, lontananze glaciali.

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E, quando se ne ride, si ride di noi, delle nostre famiglie che hanno, hanno avuto, avranno gli stessi tratti di malcelata infermità, di disagi ben nascosti agli occhi dei vicini. Siamo tutti pentole a pressione ficcati dentro i nostri cognomi, i nostri tratti somatici, le aspettative che ci hanno appiccicato addosso come tatuaggi difficili da estirpare come gramigna se non al prezzo di togliersi la pelle, violentarsi, lacerarsi. Le cicatrici sono evidenti nei nostri sguardi. La famiglia è anche quell'insieme di sovrastrutture, traumi e segni che qualcuno, gli adulti in questione, impone a qualcun altro, i figli, un ammasso di regole e codici, che prevedono premi e punizioni, perdono o carezze. Nella famiglia si cresce ma alla famiglia si deve anche sopravvivere, lasciarsela alle spalle. C'è chi fugge e chi combatte al suo interno non tanto per cambiarla, impossibile ormai, ma per fronteggiarla, coltello tra i denti, come un Vietcong nella foresta. Entrambi mission fallimentari, votate alla sconfitta.

Per il tuo bene 3 ph Luca Del Pia.jpgLa scena è un piano cinematografico che utilizza il sipario a scorrimento per evidenziare e tagliare soltanto una fetta del palco alla volta e, ad imbuto, a tunnel, a grotta, in questa penombra di sentimenti, farci scorgere un frammento del tutto come se, casualmente, fossimo dei vicini che passano nel vialetto ed osservano stralci e morsi di vita quotidiana. Qui il pubblico è chiamato ad intervenire, almeno moralmente, a guardare, a giudicare con gli occhi silenziosi, proprio perché i personaggi si rivolgono direttamente alla platea non cercando conforto, non giustificandosi, non volendo convincere ma esponendo la naturalezza dei fatti, questa “costruzione di un amore” (Ivano Fossati docet) imperfetta fin dalle fondamenta, che sbatte, s'incrina, oscilla, perde il baricentro ma tenta con tutte le sue forze di restare ancorata alla dignità sociale, al rispetto delle apparenze, agli sguardi per strada, agli inevitabili confronti. In questo nucleo, madre e due figli, uno che se n'è andato appena ha potuto, l'altro ancora invischiato nelle sabbie mobili impantanato (“Mio fratello se n'è andato e mi ha lasciato qui in ostaggio”), esiste e respira un cinismo che non è cattiveria ma è un realismo ripulito e sciacquato dalle buone maniere, levigato dai buonismi e dai convenevoli: “Che cos'è l'odore di casa? E' odore di chiuso e pavimenti lavati”.

“Per il tuo bene” (prod. Ert Fondazione, Arca Azzurra, Riccione Teatro) è, per suo stesso imprinting, ricattatorio: qualcuno che dice a qualcun altro cosa deve fare non perché lo voglia il boia ma perché lo necessita, senza averne consapevolezza, la vittima. La locandina in questo è esemplificativa: un grande pupazzo di neve, che fa già Natale e quindi casa e famiglia, che dona una borsa dell'acqua calda ad un pupazzo piccolo per farlo squagliare, sciogliere. La gerarchia è tutto per imporre, prima con la forza poi con il senso di colpa, le verità che calano dall'alto come scure sul collo vergine. I rapporti sono gelidi, monosillabici, così come le battute taglienti, volutamente senza sangue, sferzanti da far male, ferire senza pathos né pietas. Si ride, ci s'inquieta, si barcolla, si frigge, ci si rilassa per poi nuovamente essere punti sul vivo, sale sulle nostre mancanze (siamo genitori e/o figli, ruoli che non abbandoniamo mai).

Straordinaria la madre (Laura Mazzi di un fervore statico, di una compostezza intensa che cuce le nevrosi di questa famiglia in un tappeto di scomode verità, meravigliosa anche nell'inserto-trasformazione nell'esilarante arcigna Nonna, da segnalare i costumi di Raffaella Toni), scendendo nel trittico, in questo triangolo delle Bermuda, incastrati alla perfezione, come il negativo e la fotografia, i due figli (Edoardo Sorgente, il figliol prodigo che ne è uscito solo fisicamente, e Alessandro Bay Rossi, il piccolo rimasto, eccellenti e brillanti interpreti), il primo Ulisse, il secondo Telemaco uniti attorno a questa Penelope che tesse, dispensa, spartisce. L'irrequietezza e l'inquietudine invece è lampante in quell'assenza gigantesca che è la figura paterna, evidenziata con la scena della barra luminescente che ruota, quella mancanza che, proprio perché non esiste fisicamente in nessun luogo, è contemporaneamente in tutti i luoghi, entra in tutti i discorsi, corrompe ogni pensiero (come il padre di Amleto che, non essendoci, c'è più che se ci fosse stato). Quel che domina il tutto è questa forte carica di attrazione e repulsione, di grande vicinanza quando si è distanti, e di irrefrenabile voglia di fuggire quando ci si sente braccati all'interno di dinamiche inossidabili, impossibili da rompere come catene di Houdini. A fianco dei tre (che reggono lo spettacolo) altri due personaggi: Marco Cacciola, l'evanescenza che porta con il suo sguardo cinico la misura esterna al grottesco che pervade l'interno familiare (il personaggio meritava una più ampia evoluzione e crescita proprio perché metronomo e coscienza) e la fidanzata del figlio più piccolo (una sempre bravissima Marina Occhionero) figura che però non fa fare nessun scarto al testo, portando il contesto fuori dal focus interno familiare e quindi spiazzandolo.Per il tuo bene 4 ph Luca Del Pia.jpg

Per il tuo bene 5 ph Luca Del Pia.jpgIl finale (da rivedere) però è troppo pulito e borghese, un happy end di future speranze che contrasta con il climax amaro precedente, si mangia il thriller psicologico pinteriano costruito lentamente, goccia a goccia, quel “sta per succedere qualcosa”, in quella macchina precisa di momenti e passaggi, di termini e chiusure, di quadri e bui che ci avevano condotto in uno stato sospeso, in un piano metaforico dove i confini e i contorni si smaterializzavano, perdevano il senso realistico delle cose per assumerne un altro, elevato, assurgere sulla scala di quell'irreale pericoloso, ma possibile e plausibile, che tutti cerchiamo di allontanare: il brivido dell'imponderabile, il tremore dell'imprevisto non controllabile.

“Quando si trova un coniuge ammazzato, la prima persona inquisita è l’altro coniuge: questo la dice lunga su quel che la gente pensa della famiglia”. (George Orwell)

Tommaso Chimenti 17/01/2019

Foto: Luca Del Pia

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