MILANO – Proprio nei giorni nei quali scompare la grande attrice Monica Vitti. Sembra un ossimoro questo corpo a corpo dell'attrice Francesca Vitale sulla scena con il padre scomparso, qui presenza-fantasma-evocazione, cortocircuito perché riannoda i fili di una vita, la ricorda, la riporta al cuore e alla mente e alle labbra, per riesumare proprio quei ricordi che si sono affievoliti, annebbiati, perduti nella foschia di neuroni che hanno smesso di funzionare. Mentre lei ricorda a poco a poco i momenti di una vita piena e vissuta dal padre, nella mente del genitore questi svaniscono, si fanno nuvola e questo “Parole mute 2.0” (all'interno della rassegna Palco Off al Pacta dei Teatri milanese) sembra essere da una parte un'esorcizzazione dell'accaduto (che in definitiva non si supera mai ma si convive con il dolore) e dall'altra come un ricordare per entrambi, come fossero, padre e figlia (si rimane sempre figli a qualsiasi età) ancora insieme.
Una confessione che è una lettera d'amore, uno spaccato a cuore aperto, un dilaniarsi per riportare in vita sia il genitore sia il suo essere stata figlia, devota, complice, che ammirava in maniera incondizionata quest'uomo, suo idolo. La chiave di lettura scelta dalla convincente Francesca Vitale (in questo recital canta divinamente) è stata quella di presentare il padre (la piece è totalmente autobiografica e sentita e partecipata e ancora emotivamente faticosa) come l'invincibile, l'inscalfibile, l'avvocato sicuro di sé e della sua dialettica, del suo talento come del potere acquisito attraverso il lavoro, quello che non badava a spese, quello che faceva i giri del mondo in Concorde, quello che, per sfizio e passione, aveva aperto un night a Catania a cavallo tra gli anni '60 e '70 dove passarono tutti i più grandi artisti del tempo, da Fred Bongusto a Domenico Modugno, Le Gemelle Kessler e Patty Pravo, Milva e la Vanoni. Una vita spumeggiante, gloriosa, eccentrica, charmant, piena di bollicine, sopra le righe, sicuramente sopra la normalità, di altissima qualità, tutta di picchi e up e successi, applausi. E' proprio in quest'aura miracolosa dipinta attorno alla figura del padre, mitologica e mitizzata, che le crepe, le mancanze, i cedimenti, le zoppie claudicanti, i piccoli fallimenti quotidiani di questa malattia tremenda, l'Alzheimer che tutto sporca e profana e appiattisce, che fa perdere i connotati dell'intorno e del sé, fanno ancora più rumore andando a ledere l'imperturbabilità, la fierezza, il portamento e la possanza, il vigore, l'autorità di questo padre deus ex machina vulcanico, pieno di interessi e attività che, come un interruttore, si spegne improvvisamente e inesorabilmente, senza salvezza.
E il fil rouge di fondo sono anche le canzoni che con i loro testi fanno da drammaturgia e legano le scene, proprio quelle hit evergreen che, in bianco e nero e con le sigarette tra le dita e i sorrisi di gioventù e l'appagamento mondano, suonavano e cantavano in questo locale notturno iconico fulcro, perno e simbolo di quegli anni ruggenti e per tutti quelli che volevano mordere la vita e assaporarla fino in fondo. La Vitale, nella messinscena strindberghiana di Manuel Renga, è come se entrasse in punta di piedi dentro una casa abbandonata, forse la mente del padre, un castello fiabesco, adesso lasciato ammuffire, ora disabitato e disadorno, come la sua infanzia e adolescenza dominate positivamente da questo uomo ingombrante e accentratore di attenzioni e carismatico, stanze dove la mobilia è stata silenziata e “messa a dormire” sotto teli coprenti di plastica, cumuli polverosi perché nessuno più ha vissuto, da molto tempo, quelle mura. E ad ogni svelamento, ad ogni coperta alzata, appaiono e fioriscono e sbocciano ricordi, oggetti che spalancano cassetti della memoria, materiali come voragini di senso, parentesi su mondi ormai sfocati e lontani che nella figlia risuonano e fanno eco e nel padre erano cancellati.
La Vitale dialoga con il padre-fantasma come sprofondato sulla sua poltrona-trono e questo suo ultimo disperato tentativo teatrale è un cercare di riallacciare i discorsi sospesi, le frasi smozzicate e non finite cadute nei vuoti di memoria, negli inciampi, nei silenzi, nelle amnesie. Ma è anche un percorso, certo faticoso ma anche catartico, un passaggio di consegne verso l'età adulta: mentre il padre è divorato dall'interno, Francesca Vitale prende le redini, non si fa schiacciare né sconfiggere dal trauma, come se divenisse genitore di suo padre accompagnandolo, parlando una lingua tutta loro fatta non più di parole ma di piccoli tocchi, di occhi, di quelle tenerezze mai affrontate durante la vita sana e forte e piena di impegni. In fondo “Parole mute 2.0” (che porta in giro dal 2009) è anche una riflessione sulla malattia, su questa malattia che porta via quello che intimamente siamo ovvero le nostre esperienze e le nostre parole, la nostra capacità di esprimerci e di comunicare, sul mistero dell'esistenza, sulle domande inevase dell'uomo così fragile pulviscolo minuscolo di fronte alla morte, nel tentativo di dare una spiegazione al dolore, brancolando nel buio, spaventati, impauriti davanti all'oblio, sul precipizio dell'abisso che ci inghiotte.
Tommaso Chimenti 04/02/2022