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Un gioco infinito per la resistenza del pensiero. "Overload" (Premio Ubu 2018): è davvero il migliore spettacolo dell’anno?

NAPOLI – «Comunque ci si sforzi, non si può non comunicare», questo sostiene Paul Watzlawick nella teoria elaborata insieme ai colleghi della Scuola di Palo Alto nel celebre saggio ‘Pragmatica della comunicazione umana’ (1971), fissando come primo assioma di ogni comportamento l’impossibilità di non potersi sottrarre alla sfera comunicativa quando si è in presenza di un altro (d’altronde, non esiste arte – figuriamoci teatrale – che non si basi su un’estetica della relazione tra chi compie il gesto, l’artista, e chi lo osserva, lo spettatore dell’opera). Perché le azioni, le parole e anche i silenzi inevitabilmente comunicano un messaggio e presuppongono coinvolgimento emotivo. Sembra questa la premessa programmatica del discorso antropologico frammentario – che si sviluppa lungo gli assi dello spazio teatrale, così somigliante alla scatola nera (se non fosse per una boccia di pesci finti sulla sinistra) di cui parlava lo psicologo statunitense sopracitato riferendosi alla mente umana – costruito dall’allestimento "Overload," ultima creazione di Teatro Sotterraneo, nato nel 2004 e reduce (dopo una serie di importanti riconoscimenti già ottenuti) da un Premio Ubu per il migliore spettacolo del 2018.

È impossibile non comunicare, ma è possibile capire?

Dei meccanismi cognitivi con cui il cervello sia in grado di decodificare le informazioni a cui siamo sottoposti senza tregua – complice anche l’intervento del sistema massmediale che ha livellato drasticamente la soglia di attenzione umana e accentuato di conseguenza il nostro grado di distrazione, paragonabile ormai a quello dei pesci rossi – di questo ‘sovraccarico’ parla lo spettacolo del Collettivo fiorentino seguendo il corso di una narrazione volutamente non lineare. O meglio, sarebbe stata tale se i cinque performer (Sara Bonaventura, Claudio Cirri, Lorenza Guerrini, Daniele Pennati, Giulio Santolini) non avessero deciso di trascinare la platea nel ritmo vorticoso e frastagliato dell’azione, innescando la possibilità di far intervenire concretamente il pubblico. Come? Chiedendo, alla comparsa di un cartello con sopra indicata l’icona di un link, di attivare contenuti extra nascosti. Se entro 10 secondi dal segnale qualcuno del pubblico si alza in piedi, ecco aperta una nuova finestra di navigazione, un nuovo ipertesto fluido, un tunnel spazio-temporale che mette in modalità silenzioso il monologo di chi nelle forme della stand-up comedy nega di essere chi recita, e cioè David Foster Wallace, perché consapevole di essere morto suicida nel settembre 2008.

Si definisce sin dai primi minuti il format dell’allestimento: allo spettatore è demandata la responsabilità di scegliere cosa guardare, come se stesse schiacciando i tasti di un telecomando, cliccando il mouse o lo schermo di uno smartphone. Può sia decidere di ascoltare il discorso che lo scrittore nordamericano tenne ai giovani laureati del Kenyon College il 21 maggio 2005 dal titolo “Questa è l’acqua”, un’arguta riflessione su cosa pensare nell’epoca della società cosiddetta liquida (ammiccando a Bauman). Oppure decidere di cambiare canale, spostando il focus su un altro accadimento scenico, che dà vita – se switchato – a un ring dove si alternano sketch esilaranti, gag ironiche, frecciatine mordaci, bersagliando colpo dopo colpo le categorie di diffusi stereotipi. Il montaggio così previsto vede piombare nel racconto sequenze che (simili a spezzoni di videoclip o intervalli pubblicitari) frazionano la conoscenza e al tempo stesso mettono a dura prova l’attenzione di chi guarda in un gioco infinito di immagini, suoni e frammenti accostati con la tecnica del cut-up.

Una reginetta di bellezza, un soldato greco, ballerini di breakdance, un pescatore, un pilota, Babbo Natale, un clown, una turista, una donna incinta, due tenniste, un giocatore di football, due galli giganti, ribelli armati: le intermittenze si susseguono a mo’ di play, stop e rewind. Funzioni che non sapevamo fosse possibile traghettare all’interno di una drammaturgia (firmata da Daniele Villa) che può unire i fili, spezzarli e ricongiungerli a suo piacimento interrompendo o riattivando i contenuti proposti, senza esplorare però fino in fondo nessuno di questi. Le scene (si passa dall’evocazione di atmosfere romantiche del lento Blue Velvet a quelle dei talk show televisivi con l’incursione di un ibrido uomo-pesce) si costruiscono sulla base di un input – “qualcosa che minaccia di accadere ma non accade mai” – che destabilizza l’osservatore, invadendo i suoi sensi con un fumo persistente, al punto che questi riconoscerà finalmente l’inganno: è inutile alzarsi perché non c’è nulla di improvvisato al momento, laddove lo spettacolo è stato così confezionato per creare elementi di disturbo nell’ottica di uno “spaesamento surrealista” volto a far esplodere la realtà da cui muove le basi. Si comprende, insomma, che in tale manovra non si verifica mai vero dialogo tra platea e scena e che il pubblico è stato manipolato indipendentemente dalla sua volontà (quando un attore si tuffa tra gli spettatori, quando pesca qualcuno per danzare, quando si chiede – sulle distorsioni grunge di Smells Like Teen Spirit – di lanciargli ortaggi).

Se – dice Foster Wallace – «è l’insieme di informazioni da noi possedute che definisce la percezione del reale», siamo tutti stati catturati dalla macro-rete globale (il Web 2.0). E tutti abbiamo abboccato all’esca, cedendo alla tentazione di una tecnologia che ha messo il mondo in apnea (Proprio 11/10 in apnea si chiamava un altro spettacolo della stessa compagnia), annegato nell’aquario – metafora di un microcosmo saturo di contraddizioni, di una realtà pervasa da alienazione e/o individualismo– sfrenato a cui si può e si deve resistere. Con le armi del pensiero si esercita la facoltà di concentrarsi su ciò che realmente merita attenzione nel mare magnum di stimoli e sollecitazioni rischiando di azzerare la propria libertà di scelta. Imparare a pensare significa esercitare un controllo consapevole del ragionamento, ricostruire il significato dell’esperienza e sviluppare una coscienza critica.

Si credere illusoriamente di poter decidere, si scopre in seguito che altri (in questo caso, il consumo abituale dei media) hanno già deciso per noi deficitando la nostra attenzione e, dunque, libertà di conoscere e riflettere sul tempo presente. L’unica soluzione per sfuggire all’impasse è sottrarsi al sistema omologante che annienta l’uomo – compromesso con cui dovette scontrarsi probabilmente anche il genio letterario di Wallace – e interrompere l’azione teatrale per ritornare nella verità della trincea quotidiana, quando gli attori nel finale si spogliano del loro costume, fuori da ogni nesso logico di causa-effetto (finora mai applicato), espandendo i limiti diegetico-temporali dello spettacolo e raccontando cos’è tragicamente accaduto dopo la replica: muoiono tutti (come all’inizio era già morto lo scrittore) travolti in un corale incidente automobilistico, narrato a turno dagli attori che recitano la parte di se stessi attori prossimi allo schianto tra lamiera e asfalto, prima di lasciar sprofondare il sovraccarico derivante dalla propria condizione di muti esseri umani nello specchio dell’acqua che è l’interstizio teatrale.

Sabrina Sabatino 04/02/2019

Visto al Teatro Area Nord di Napoli

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