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"L'ora di ricevimento": l'accoglienza si fa passività

FIRENZE – “La rassegnazione è un suicidio quotidiano” (Honoré de Balzac).

C'è una parola nel testo massiniano “L'ora di ricevimento” (prod. Stabile dell'Umbria, regia puntuale, accogliente di pennellate e macchie di colore di Michele Placido) che torna, ritorna, rimbomba, fa grancassa, entra piano e poi deflagra, arriva in punta di piedi e quando ormai sembra innocua, non più pericolosa, è proprio allora che sbotta come pentola a pressione occlusa con tutta la sua potenza che cresce minuto dopo minuto; quella parola è “rassegnati”, che sia verbo, aggettivo o esortazione. Abbiamo perso. Non è la nostra generazione che ha perso, ma la nostra cultura. Davanti ai nuovi arrivati, la nostra democrazia, la nostra burocrazia, il nostro complesso sistema di regole si sbriciola, il nostro politicamente corretto che spesso sfocia nel buonismo ma anche nell'individualismo o peggio nel 1 Stefano Massini autore discute in prova lettura col regista Michele Placido e col protagonista Fabrizio Bentivoglio 2menefreghismo, il nostro “aver qualcosa da perdere”, cede, s'inchina, si prostra, si genuflette. Il professore di questa scuola di periferia, siamo nelle banlieue francesi ma potremmo essere a Scampia come allo Zen oppure nelle cinture dormitori di grandi città come Milano o Torino, un Fabrizio Bentivoglio in stato di grazia, tenero, sfrontato, filosofico, pensoso, confessore, terreno, se possibile candido e cinico al contempo, è un insegnante disilluso dalla scuola, da quello che la scuola pubblica odierna riesce a passare, a trasmettere a questi studenti sempre più annoiati, sempre più avversi all'autorità, agli ordini, alla disciplina, sempre più appoggiati dai genitori. Cosa può fare la scuola poi in un contesto degradato e disagiato come quello in cui si trovano a lavorare questi professori di frontiera?
Ma qui la riflessione è più ampia: certo c'è il mondo della scuola e della formazione primaria dell'individuo, con tutto il corollario dei soprannomi e dei topos affibbiati agli alunni, spassoso ma allo stesso tempo pensiero profondo su chi siamo, chi vogliamo essere e su come gli altri ci vedono, ma c'è anche, se non proprio una critica, uno sguardo severo, non giudicante, un affresco lucido (verrebbe da ridere se non ci fosse da piangere) del momento maxresdefaultlabirintico e contorto nel quale siamo finiti. Il prof è un bianco caucasico francese, si potrebbe definire un europeo da molte generazioni; davanti a lui, schierati come plotone d'esecuzione, tutti pronti a metterlo sulla graticola, le varie etnie stereotipate che popolano le nostre città: ecco il ceppo islamico, quello ebreo, l'indù, gli africani ma fa anche capolino, in una ipotetica scala in posizione inferiore come grado di ingerenza, la famiglia vegana o quella allergica al glutine.
Le relazioni sociali sono diventate un ginepraio di rovi, una gincana di sterzate e controsterzate, sempre in pericolo di caduta. Perché per evitare la gaffe o l'offesa tremenda noi (sarà razzista anche definirci “noi” rispetto agli “altri”?) europei bianchi nei confronti delle minoranze (tra un po' di anni non lo saranno più) di immigrati che arrivano sul suolo dei nostri Paesi, dobbiamo accettare supinamente, piegare la testa, che se protesti sei razzista, non sei accogliente, sei bollato come nazista. Per la paura di non rispettare l'altro (ma gli altri ci rispettano?), per statuto più debole, più bisognoso e quindi per antonomasia dalla parte della ragione, non rispettiamo più i nostri valori (anche il crocifisso), le nostre tradizioni (in molte scuole odierne sono abolite le recite natalizie). Rimaniamo nello stallo chiedendoci sovente se questo sia giusto dirlo o se quest'altro sia corretto farlo. In molti casi ci rispondono che “non è nella loro cultura” rispettare una norma, una buona educazione o una convenzione sociale. Le leggi del viver comune, del buon senso, della democrazia, della decenza, tutto quello che abbiamo, in maniera difficile e complicata e faticosa, messo a punto in centinaia di anni di lotte quotidiane (perché la democrazia è faticosa, molto più semplice è la legge della sopraffazione e del più forte (i biglietti non pagati su autobus e treni, sono un esempio); più facile è urlare che stare ad ascoltare), di accordi e patti imparati, adesso sembra che non valgano più per migliaia di nuovi cittadini. L'integrazione passa anche attraverso l'imparare le regole del Paese ospitante.ora di ricevimento
Massini qui riprende il filo a lui caro dello scontro tra culture e religioni cominciato con “Balkan Burger”, poi ampliato con “Credoinunsolodio”. In questo “L'ora di ricevimento” (ha un che de “La scuola” di Starnone, con un pregevole Silvio Orlando, come lampi della pellicola “Il rosso e il blu”, con un gigantesco Herlizka) il discorso (finalmente qualcuno che si prende la responsabilità di dire ciò che pensa in questo piattume stagnate di voci tutte uguali al coro) si fa più appuntito e acuminato fino quasi a vederci tendenze fallaciane, senza quella durezza caratteristica dell'autrice fiorentina, o atmosfere houellebecquiane, senza la violenza verbale dello scrittore francese, ma si sentono anche influenze da Pennac e, per tornare ai nostri confini, il piacere dello stile e dell'ascolto di Antonio Amurri o il graffio di Flaiano.
placido massini bentivoglio prove 738x355La scuola è un pretesto perfetto per raccogliere attorno alla solitudine della cattedra (pare un'isola sperduta, la nostra cultura vilipesa) dei nostri Stati, e quindi dei nostri insegnamenti (qui ad esempio si impartisce Baudelaire come Voltaire o Rabelais che ai vari Mohamed forse interessano poco...) i vari gruppi (tutte queste minoranze messe insieme fanno la maggioranza...) come petali aggressivi attorno ad una corolla che vuole il più possibile essere collaborativa. Siamo Paesi in trasformazione ma l'uomo medio, la maggior parte di noi, si trova schiacciato, bloccato in un impasse, in un pantano legislativo che lo punisce, impossibilitato ad una reazione (ha qualcosa da perdere, gli altri no), costretto a proteste limitate come un post virtuali sui social network, sfoghi rabbiosi o like messi qua e là. Le proteste confluiranno in alcuni partiti politici visto che quelli tradizionali, anche per non perdere voti in quelle sacche (l'immigrazione clandestina tollerata e incentivata, lo ius soli sbandierato strumentalmente), nicchiano, prendono tempo, fanno grandi giri di parole ma la rabbia e la frustrazione di quella che era la media borghesia, schiacciata anche dalla crisi economica, non sentendosi protetta dallo Stato al quale paga le tasse, da qualche parte confluirà. In questo Far West perdiamo ogni volta che ci rassegniamo. L'integrazione deve essere bilaterale e portata avanti da chi accoglie e da chi è accolto, bisogna tutti perdere qualcosa per guadagnare pace e tranquillità. Ma, la domanda è: l'integrazione è davvero possibile? Quella che striscia nella nostre strade è un misto di ipocrisia, tolleranza ma storcendo il naso, insofferenza, senso di insicurezza. Non un bel guadagno.

“Dall’abito della rassegnazione sempre nasce noncuranza, negligenza, indolenza, inattività, e quasi immobilità” (Giacomo Leopardi).

Visto al Teatro della Pergola, Firenze.

Tommaso Chimenti 24/11/2017

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